Il fascismo raccontato da un grande antifascista: Beppe MiglioreNato il 28 febbraio 1926 e morto il 1 febbraio 2013.
(da L’Antifascista – maggio-giugno 2015, pag. 24-26)
Sono nato nel 1926, in pieno regime fascista, quarto di sei fratelli e sorelle. Mio padre, originario, come tutti i suoi avi, di una piccola frazione di Pradleves, nel cuneese, all’età di sei anni, poiché nelle famiglie montanare di allora la vita era durissima e le bocche da sfamare tante, venne mandato da parenti a Torino. La vita non era facile, non mancava l’indispensabile, ma il superfluo non esisteva. Nel ’33 iniziai le scuole elementari e anelavo di servire la Patria, il Re e il Duce! A scuola, oltre all’insegnamento, vi era una continua propaganda sulla grandezza della nostra Italia fascista, faro di civiltà nel mondo, ma ricordo che, quando nel ’35, vi fu la conquista dell’Abissinia, mi domandavo se fosse giusto invadere terre altrui per aumentare il nostro prestigio, al prezzo del sacrificio di tanti soldati e civili. Nel 1938 fu emanata quell’infame legge razziale che privava gli italiani di razza ebraica di tutti i diritti civili, del lavoro e dei beni materiali. A scuola, il mio compagno di banco, ebreo, figlio di un colonnello dell’esercito in servizio e decorato di medaglia al valore nella prima Guerra mondiale, era assente. Chiesi notizie al maestro che mi rispose che il colonnello era stato trasferito d’urgenza. La famiglia di questo mio compagno abitava nel nostro quartiere e fu così che mio padre, nei giorni seguenti, vide per caso il colonnello in abito borghese, che trascinava con il figlio, un carretto carico di masserizie, perché gli era stata confiscata la casa in quanto ebreo. Provai, per la prima volta un moto di ribellione unito ad una grande pena per queste persone. Il 10 giugno 1940 il Duce, per non essere da meno dell’alleato nazista, dichiarò la guerra a Francia ed Inghilterra. Quello stesso giorno i nostri alpini, male equipaggiati e male armati, attaccarono la Francia, già in ginocchio dopo l’invasione tedesca del ’39. Il Duce pensava che ormai la guerra sarebbe durata pochi giorni e non voleva perdere l’occasione di sedersi al tavolo della vittoria e poter annettersi la Savoia e il Nizzardo.
Dopo venti giorni la Francia chiese l’armistizio, ma erano bastati quei pochi giorni di guerra a farci intuire in quale avventura ci eravamo cacciati. Intanto a Torino, nella notte del 10 giugno, ci fu il primo bombardamento aereo con le prime vittime civili, a conferma della fragilità delle nostre difese antiaeree.
Il duce, comunque, continuò nella sua politica di aggressione per emulare l’alleato tedesco e aggredì la Grecia, la Jugoslavia e inviò un’intera armata in Russia, a combattere a fianco dei tedeschi. Non voglio dilungarmi a raccontare l’epilogo della tragica campagna di Russia, esiste ampia e documentata letteratura dei pochi superstiti, fra cui Bedeschi, Rigoni Stern, Nuto Revelli e altri, che hanno raccontato da testimoni gli orrori e la tragica fine di migliaia di alpini mandati a morire in una guerra assurda. Dalle montagne cuneesi, provenivano gli alpini della Divisione Cuneense, quasi completamente annientata in Russia. Ho conosciuto così, da vicino, la disperazione di tante famiglie, tutte o quasi avevano chi un marito o figlio o fratello che non hanno più fatto ritorno!
8 settembre 1943
Torino era semidistrutta dai bombardamenti subiti nei tre anni di guerra; appresi dalla radio la notizia della resa incondizionata dell’Italia e dell’armistizio firmato dal Re. Una folla festante si riversò per le strade illudendosi che la guerra fosse finita, non sapendo che le massime autorità militari, compreso il Re e la famiglia reale, erano fuggiti da Roma per consegnarsi a Brindisi agli Alleati anglo-americani e salvare la pelle temendo la vendetta dell’ex alleato tedesco, all’oscuro della decisione di resa dell’Italia.
L’esercito italiano rimasto senza ordini superiori si trovò allo sbando. I soldati dislocati nelle caserme si diedero alla fuga abbandonando le armi, per non cadere nelle mani dei tedeschi. Al fuggi fuggi dei militari, la popolazione stremata dalle privazioni e dalla fame si diede al saccheggio delle caserme ormai deserte, per arraffare quanto più potevano.
Ricordo che trovandomi con altri due ragazzi nei pressi della caserma Valdocco, incontrammo un signore che ci convinse a prendere le armi abbandonate dai soldati, che, ci disse, avrebbero potuto esserci molto utili. A più riprese raccogliemmo armi e munizioni avvolte in coperte militari e le nascondemmo in una cantina di via San Donato. Nei giorni seguenti, transitando in piazza Statuto, vedemmo una lunga colonna di militari italiani dell’ultima leva (1924), riconoscibili anche se non più in divisa, dalla testa rapata, che venivano avviati sotto un’esigua scorta armata tedesca, verso la stazione Dora, per essere deportati in Germania. Una piccola folla si era radunata ad assistere imprecando contro i tedeschi; l’uomo che ci aveva convinto a prendere le armi e che ci accompagnava in quei giorni (seppi poi, a distanza di tempo, che era un ex confinato politico comunista, Battista Gardoncini, che divenne comandante di una formazione garibaldina, caduto e decorato di medaglia d’oro al valor militare), ci condusse alle scuderie della caserma Valdocco dove prendemmo alcuni cavalli che lanciammo contro la colonna dei prigionieri per creare scompiglio. Mentre i tedeschi sparavano agli animali, molti soldati riuscirono a fuggire e a nascondersi con l’aiuto della popolazione. Due ore dopo, ripassai da Piazza Statuto: i 4 cavalli uccisi dai tedeschi erano stati fatti a pezzi e portati via dalla folla affamata. Mi unii alle squadre clandestine che si formarono in quei giorni e con esse partecipai ad alcuni sabotaggi alle linee ferroviarie e alle cabine elettriche, finché, nel novembre ’43, durante la fuga dal luogo dei sabotaggi, inseguito dalle Brigate Nere, saltando uno steccato, mi ferii al ginocchio. Portato in ospedale di nascosto con una falsa documentazione di infortunio sul lavoro, fui operato ed ingessato. Rimasi in quell’ospedale (San Vito), protetto da medici e infermieri fino alla guarigione. A fine gennaio ’44, fui avviato dai Comandi partigiani clandestini in Val di Lanzo, dove già operava un gruppo di partigiani garibaldini. Rimasi pochi giorni, perché fui subito in contrasto con le loro idee estremiste. Tornato a Torino decisi di raggiungere mia sorella maggiore, sfollata a Pradleves, la quale era già in contatto con i partigiani di Giustizia e Libertà in Valle Grana. Fu lei che mi presentò ai Comandanti i quali mi accolsero nella banda. Conobbi così, in una baita fumosa, le figure prestigiose di Dante Livio Bianco, Duccio Galimberti e Nuto Revelli, i quali mi fecero scoprire i valori della democrazia e della libertà; io pendevo dalle loro labbra, mi si schiudeva davanti la visione di un mondo nuovo. Mi spiegarono perché era necessario fare la guerra ai tedeschi e ai risorti fascisti per un’Italia repubblicana, senza più guerre, dove «fare politica» vuol dire combattere su un piano di rigorismo morale per il bene collettivo. Intanto, per effetto dei bandi di chiamata alle armi del Governo repubblichino, delle classi 1923-24-25, molti giovani scelsero di salire in montagna e aggregarsi alle bande partigiane già esistenti. Cominciarono le rappresaglie ed i rastrellamenti per distruggere le organizzazioni ribelli che impegnavano molte forze nazifasciste, distogliendole dal fronte di guerra contro gli Alleati. Ma veniamo al più grosso rastrellamento nazifascista dell’agosto ’44, in occasione dello sbarco alleato in Provenza, che coinvolse tutte le forze partigiane dell’arco alpino cuneese. La mia banda combatté in località Colle del Mulo, a 2000 mt. di altitudine, per contrastare il grosso della 90ª Divisione tedesca che voleva arrivare in Francia in aiuto alle esigue forze di occupazione ivi dislocate ed impedire l’avanzata degli Alleati. In effetti, l’azione delle forze partigiane in Valle Stura e Grana, grazie anche alle armi ricevute con i lanci alleati che permisero di far saltare ponti e chiudere strade, riuscì a ritardare di una settimana l’avanzata della Divisione tedesca verso la Francia. La cosa ebbe tale importanza per i tedeschi che la citarono nel loro bollettino di guerra. L’unica volta che le formazioni partigiane italiane vengono citate nel bollettino del Comando Supremo della Wermacht.
Un altro brutto momento lo passammo nel periodo dal 27 al 30 novembre ’44, quando a causa della stagnazione del fronte di guerra, fu possibile ai tedeschi distogliere truppe dal fronte e utilizzarle contro i partigiani: iniziò contro la nostra formazione un poderoso rastrellamento, perché si erano resi conto che a Pradleves era concentrato il più consistente gruppo dell’organizzazione partigiana G.L. e Garibaldi. Impiegarono forze fasciste e tedesche: il battaglione Vestone della divisione Monterosa, reparti tedeschi addentrati sui fianchi e brigate nere sul fondovalle. I comandi partigiani, dopo un agitato dibattito, decisero di rientrare ciascuno nella propria sede, svicolando con i loro reparti attraverso le maglie del rastrellamento. Si trattava di riuscire a sotterrare le armi pesanti, recuperare le armi leggere e poi buttarsi nei valloni laterali tra la boscaglia. Purtroppo alla mia banda, che si trovava in alta montagna, fu impartito l’ordine di fronteggiare il nemico che ci stava aggirando alle spalle, ripiegando poi, per non essere sopraffatti, sul Monte Bram. Nella notte del 27 novembre, dopo aspri combattimenti, a 1600 mt. di quota, con la neve alta circa 2 metri, mentre cercavamo di defilarci arrampicandoci faticosamente, sprofondando ad ogni passo, dato il carico di armi e munizioni, l’alba ci sorprese ben visibili sul nevaio. Ci spararono con i mortai e fu allora che venni colpito dalle schegge del proiettile caduto nella neve a breve distanza, mentre lo spostamento d’aria mi fece cadere dalla montagna, rotolando finché non fui fermato da rocce sporgenti. Prima del ripiegamento avevo dato ordine di non fermarsi per nessun motivo, per evitare ulteriori perdite. Rimasi privo di sensi non so quanto tempo, quando rinvenni era notte fonda. Sentivo di non essere in grado di reggermi in piedi, sapevo che nessuno sarebbe venuto a soccorrermi. Il freddo era intenso, soffrivo per le ferite riportate e mi stavo congelando. Passò molto tempo (seppi in seguito che erano 3 giorni), alternavo periodi di lucidità ad altri di incoscienza; ad un certo punto non sentii più dolore e cercai quindi, con le poche forze rimastemi, di trascinarmi al riparo. Fortuna volle che, non lontano ci fosse una piccola grangia di pastori, disabitata, dove mi rifugiai. Finito il rastrellamento, due miei partigiani venuti a prendere il mio corpo, videro delle tracce sulla neve e, seguendole, mi trovarono. Mi portarono in una frazione appena bruciata per rappresaglia e mi sistemarono nell’unica stalla rimasta in piedi. I montanari della frazione, che si erano nascosti durante la rappresaglia, tornarono alle case semidistrutte e mi portarono quel poco latte dell’unica mucca che si era salvata. Un partigiano scese a Pradleves e informò mia sorella Rita delle mie gravi condizioni. Lei accorse con l’unico medico della nostra divisione, il quale mi disse con tristezza: «non posso fare nulla per te, non possiedo neanche i ferri chirurgici per amputarti le mani ed i piedi, se sopravviene la cancrena». Ringrazio il buon Dio che non avesse gli strumenti! I montanari allora diedero a mia sorella un rimedio antico di cui non si conosce la ricetta, a base di grasso di marmotta e chissà quali erbe, raccomandandole di massaggiarmi il più possibile mani e piedi. Dopo qualche giorno cominciai a sentire un insopportabile formicolio in tutto il corpo. Avrei urlato dal dolore, tanto che i miei partigiani, preoccupati che facessi un gesto insano, mi tolsero la pistola. Nei giorni seguenti, a bordo di una slitta venni trasportato a Pradleves. Lungo il percorso si aggiunsero altre slitte che trasportavano, per le esequie, i corpi di 7 caduti durante il combattimento.
Dicembre 1944
Dopo il proclama di Alexander, comandante delle truppe alleate, che invitava i partigiani a rientrare nelle proprie case nell’inverno per riconvocarli in tempi migliori, non solo non prendemmo in considerazione quell’ordine, ma ci fece arrabbiare e reagire nel senso di mantenere intatti i reparti, non scioglierli, sfollare solo gli ammalati. Ma si rendeva comunque, necessario per sopravvivere al duro inverno, sfoltire le bande inviandone una parte nelle Langhe, dove si era formato un vuoto nelle zone partigiane a seguito delle gravi perdite subite nei rastrellamenti. Io ero destinato a rimanere in valle a causa delle mie condizioni di salute: avevo mani e piedi fasciati ed insensibili. Il Comando voleva mandarmi in ospedale, ma io rifiutai perché preferivo morire in combattimento piuttosto che fare la fine del topo. Inoltre i miei partigiani mi pregarono di andare con loro, a costo di portarmi in spalla. La banda Monte Bram, a cui appartenevo, partì nella notte del 31 dicembre da Pradleves. Mi misero su una bicicletta perché non ero in grado di camminare, ma riuscivo a pedalare pur con i piedi fasciati. Io viaggiavo in avanscoperta; ricordo che a un certo punto, caddi riverso in un rigagnolo a lato della strada, con l’acqua che mi lambiva il naso e non riuscivo a rialzarmi. Dopo qualche minuto sentii arrivare un partigiano che mi stava cercando e diceva agli altri ragazzi, c’è la bici, ci deve essere anche Beppe! Mi rialzarono e riprendemmo il viaggio per strade secondarie; di notte, fermandoci solo all’alba presso cascine amiche. Sette notti dopo arrivammo finalmente a Dogliani, diretti a Somano dove era stata stabilita la sede della banda. La guerriglia partigiana nelle Langhe era completamente diversa da quella cui eravamo abituati in montagna, dove potevi sbarrare l’accesso alle valli con blocchi di uomini sul fondo; nelle Langhe c’erano tante strade tra le colline e i fascisti o i tedeschi potevano arrivarti addosso da tutte le parti. I rastrellamenti poi arrivavano con mezzi motorizzati, di sorpresa, e quindi dovevamo essere sempre all’erta e pronti a combattere.
Nel marzo ’44 ricevemmo due lanci dagli inglesi e dagli americani contenenti viveri, divise, armi e munizioni ed anche un cannoncino anticarro con ben 30 proiettili! Questo ci permise finalmente di rintuzzare il nemico, con armi e munizioni in abbondanza e di poter armare ed equipaggiare altri numerosi giovani del posto che chiedevano di far parte del nostro gruppo. Il rapporto con la popolazione era ottimo, tant’è che nell’occasione dei lanci, di notte, i contadini vennero ad aiutarci a trasportare e nascondere il materiale ricevuto. Il 15 aprile, in accordo con le formazioni della zona effettuammo un attacco concentrico su Alba per dimostrare al nemico occupante e alla missione alleata, la nostra forza e preparazione. L’azione riuscì pienamente e tornammo alle nostre basi, euforici e soddisfatti.
25 aprile 1945
Il Battaglione Monte Bram, – forza 126 uomini – facente parte della 3ª Divisione G.L. nelle Langhe, ricevette nella notte tra il 25 ed il 26 aprile ’45, l’ordine di mettersi in marcia, a tappe forzate, per eseguire le direttive dei piano d’insurrezione «Aldo dice 26 x 1» e portarci su Moncalieri per iniziare, unitamente a numerose altre formazioni partigiane, l’offensiva su Torino e distruggere le forze nazi-fasciste ivi rimaste intrappolate. Per radio avevamo già sentito che era iniziata l’insurrezione di Genova e quindi l’ordine non ci prese alla sprovvista anzi, l’aspettavamo con impazienza. Raggiungemmo Bra il 26 sera e sostammo lì per mancanza di mezzi di trasporto. Il mattino del 27, reperito chissà dove, un camion con rimorchio, (miracoli della vita partigiana), ci dirigemmo su Torino. Durante il percorso, lento perché il camion era vecchio e asmatico, dovemmo fare diverse soste anche per fronteggiare gruppi di nemici asserragliati nei cascinali. Le direttive erano di portarci a Moncalieri, ma il nostro autista sbagliò strada e ci trovammo nella notte del 27 a Pino Torinese e con il mezzo in panne! Armi in spalla, trainando a mano il cannoncino anticarro paracadutatoci dagli inglesi nelle Langhe, iniziammo cautamente la discesa su Torino, guidati dal fragore delle esplosioni e dagli spari delle armi automatiche. Dopo brevi scontri con il nemico, arrivammo in corso Casale dove una parte del nostro reparto con il cannoncino si aggregò alle forze partigiane della Divisione Matteotti, che, da ore, combattevano contro i repubblichini per liberare la Caserma di via Asti, tristemente famosa in quanto sede di torture e fucilazioni di resistenti caduti nelle loro mani. Seppi, più tardi, che soltanto pochi giorni prima, grazie ad uno scambio di prigionieri, era stata liberata mia sorella Rita, staffetta partigiana, catturata oltre due mesi prima a causa di una delazione. Era stato il mio Comandante a nascondermi il fatto, perché sapeva che mi sarei fatto ammazzare pur di cercare di liberare mia sorella. Occupata la caserma, il mio reparto si riunì sul corso Casale per cercare di forzare il passaggio del ponte Vittorio Veneto ed entrare in Torino dalla piazza omonima, ma fu respinto dal fuoco di un carro armato che sbarrava la strada. Piazzato il cannoncino, con l’aiuto del bazooka e molta fortuna, forzammo il blocco ed entrammo nella piazza. Mi ricordo che nel breve momento di silenzio dopo la sparatoria, sentimmo un cigolio di persiane che si schiudevano, brevi parlottii di persone, noi eravamo già pronti a sparare su possibili nemici quando, invece, dalle case uscirono, delle persone che festosamente ci vennero incontro abbracciandoci e offrendoci quel poco che avevano.
Ricordo con commozione una vecchietta che mi diede un cartoccio di giornale che conteneva alcuni mozziconi di tabacco, scusandosi di non potermi offrire altro!
Percorremmo via Po verso piazza Castello dove occupammo la Prefettura, poi seguendo le segnalazioni di alcune staffette partigiane proseguimmo verso via Roma, obiettivo l’albergo Nazionale, sede della Gestapo, luogo di interrogatori, torture e uccisioni di partigiani catturati. Fra tante vittime, in quell’inferno, subì la tortura e fu ucciso Renato Martorelli, esponente socialista del CVL, medaglia d’oro della Resistenza, di cui non si trovò mai il corpo; rimane di lui soltanto la lapide a ricordo affissa alla colonna del porticato di fronte all’albergo.
Pensavamo che il nostro compito fosse finito, ma ci sbagliavamo: cominciava la lotta al cecchinaggio, che ancora tante vite innocenti avrebbe mietuto, nei tre giorni seguenti. Io stesso fui nuovamente ferito da una bomba a mano lanciata da un cecchino nascosto fra le rovine di una casa bombardata, in Piazza San Carlo. La stessa mattina, il 28 aprile, a poche centinaia di metri da dove mi trovavo, moriva mio fratello Nino, di 24 anni, già riformato dalla Marina per problemi cardiaci, che si trovava in strada con altri giovani desiderosi di partecipare alla liberazione, quando all’improvviso gli si arrestò il cuore. La notizia l’appresi, purtroppo, soltanto il giorno dopo, quando arrivato a casa e non trovando nessuno, seppi dai vicini che i miei famigliari erano andati a riconoscere la salma di mio fratello e anch’io li raggiunsi. Intanto, si continuava a combattere per snidare i fanatici cecchini che sparavano dai tetti delle case, o dalle soffitte. Vi furono ancora molte perdite di partigiani e civili.
Il 1° maggio Torino era finalmente liberata! Nella notte tra il 2 e il 3 maggio arrivarono le prime truppe angloamericane in una città ormai libera, con tutti i servizi essenziali funzionanti.