Manlio Rossi Doria nacque a Roma il 25 maggio 1905 e, a diciannove anni, si iscrisse ad agraria, presso l’Istituto Superiore di Portici. Studiò chimica e botanica, entomologia e microbiologia, mineralogia e geologia. Imparò le pratiche colturali, apprendendo il modo di far funzionare un’azienda agricola o zootecnica. A Portici collaborò col suo più caro amico, Emilio Sereni ed entrò in contatto con Giorgio Amendola. Si iscrisse al P.C.I. ed entrò a far parte dell’organizzazione comunista clandestina. Nel 1930 fu arrestato dalla polizia fascista e deferito al Tribunale speciale, che lo condannò, assieme all’amico Emilio Sereni, a quindici anni di reclusione. Tornò libero grazie all’amnistia del 1935. Già allora il dissenso col partito era marcato e la rottura avvenne nel 1939, con la sua espulsione dal partito. Sottoposto a vigilanza speciale, nel 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, Rossi Doria fu confinato in Basilicata, da dove prese parte alle discussioni che portarono Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a scrivere il Manifesto di Ventotene. Venne liberato dopo il 25 luglio del 43 e si buttò nell’attività’ politica, partecipando al convegno di Firenze dove si decise la costituzione del Partito d’Azione. Tornato a Roma, Rossi Doria si impegnò nella Resistenza, lavorando a fianco di Leone Ginzburg alla redazione di Italia Libera. Nel novembre del 1943 fu arrestato nella tipografia dove si stampava il giornale. Rinchiuso a Regina Coeli, riuscì ad evadere nel maggio successivo, poco prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, e riprese la lotta clandestina sino alla liberazione della Capitale.
Nel 1944, mentre era tra i principali dirigenti del Partito d’Azione, ricevette l’incarico per l’insegnamento di Economia e politica agraria alla Facoltà di Portici, ma attese il primo concorso del 1948, per non avvalersi delle facilitazioni di legge per i perseguitati politici. Mentre la guerra ancora infuriava al Nord, Rossi Doria aveva già lo sguardo proiettato sul dopo e sulle miserie che
l’Italia trascinava con sé. Non credeva, a differenza di altri azionisti, che sotto le ceneri del Sud covasse qualche fermento. “Ormai – scriveva in un’accorata lettera a Leo Valiani – camminavo tenendo davanti agli occhi la diversa prospettiva che la rivoluzione non ci sarebbe stata, che il vecchio avrebbe preso il sopravvento sul nuovo , che la sinistra sarebbe stata sempre sconfitta fino a quando non avesse imparato a fare i conti con la realtà e ad acquistare le doti dei cavalli col fiato lungo”. Il Mezzogiorno, dunque, era al centro delle sue preoccupazioni, con la sua arretratezza, i grandi possedimenti fondiari in mano a pochi proprietari, rozzi e incapaci di migliorie, i terreni abbandonati, una natura ostile. Un Mezzogiorno di cui, a quel tempo molto si scriveva, ma che pochi conoscevano e veniva confuso con le caricature che certo vittimismo sudista aveva alimentato.
Rossi Doria aveva letto i grandi meridionalisti, conosciuto ed ammirato Salvemini, Dorso e Giustino Fortunato, si era legato a Umberto Zanotti Bianco. Nel 1959 fondò il “Centro di Specializzazione e Ricerche Economico-agrarie per il Mezzogiorno” e divenne uno dei principali animatori della Riforma agraria in Calabria. Nel 1962 si iscrisse allo PSI. Nel 1969 e nel 1972 fu eletto senatore nel Collegio di Sant’Angelo dei Lombardi. Abbandonò la vita politica nel 1975 per ragioni di salute, ma il terremoto dell’Irpinia, del novembre 1980, lo vide di nuovo impegnato, in prima persona, nella valutazione dei danni e nella programmazione della ricostruzione. Nel 1981 assunse la Presidenza dell’ Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia e condusse una memorabile la lotta contro lo strapotere della Federconsorzi.
Di Manlio Rossi Doria esiste una trasfigurazione letteraria che ne rende appieno lo stile intellettuale, condensato nell’ idea che la riflessione resta arido artificio se non si traduce in pratica concreta. E’ nell’Orologio di Carlo Levi, dove Manlio è riversato nel personaggio di Carmine Bianco “Stava a cavallo con un piede sulla politica pura e l’ altro sulla pura tecnica”, scrive Levi, ma questa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in un’abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato”. La politica, la tecnica e l’ esperienza sul campo furono sempre congiunte nella sua intensa e instancabile attività. Vastissima la produzione scientifica di Rossi
Doria, reperibile presso l'”Associazione per studi e ricerche Manlio Rossi Doria”, che si è costituita nel novembre 1996 a Roma, presso la Facoltà di economia “Federico Caffè” e che edita la rivista QA-la questione agraria. Un altro esempio della franchezza di ragionamento di Rossi Doria è l’emigrazione. Sfidando le opinioni diffuse, era convinto che, per le regioni meridionali più aride e più densamente popolate, l’emigrazione fosse un bene. Secondo Enrico Pugliese, suo allievo fra i più stretti, Rossi Doria leggeva nell’emigrazione “lo scuotimento di un’ ordine terribile all’ apparenza eterno”. Negli anni 50 e 60 andavano via dal Sud 150.000 mila persone l’anno. L’emigrazione è un’ evento doloroso, spiegava Rossi Doria, ma necessario. A differenza di quella transoceanica di inizio secolo, quella degli anni 50 e 60 nasceva da un progetto di riscatto e non solo dalla disperazione. Sbagliavano i governi a lasciare che il fenomeno fluisse disordinato, senza politiche per l’inserimento. E sbagliava la sinistra a ritenerlo l’effetto di una rinuncia. L’emigrazione poteva essere un punto centrale nella lotta contro la miseria. “Non avrei mai creduto – scriveva nel 1965 , quando l’emigrazione si era molto ridotta – di poter vivere tanto a lungo da vedere la fine della miseria contadina , e invece l’ ho vista. Oggi la miseria contadina, la miseria della gente che non aveva scarpe , che viveva nelle capanne o in una sola stanza, che non aveva da mangiare a sufficienza perché secondo il vecchio detto “mangiava pane ed erba cotta”, questa miseria non esiste più nelle zone interne. E questo sostanziale progresso è dovuto all’emigrazione”.
A metà degli anni Ottanta, raccogliendo le sue memorie alle quali diede il titolo “La gioia tranquilla del ricordo” (una frase di Epicuro), scrisse: “un prato, una siepe, un bosco mi procurano un godimento più di qualsiasi altro spettacolo della natura, tanto da sentirmi simile a quell’extraterrestre di un brevissimo racconto di Robert Louis Stevenson che, sceso sulla terra, fra tutti gli esseri incontrati preferì quelli dalla testa verde”. Questo grande studioso, che ha attraversato con lucidità e coerenza i campi ravvicinati della politica e della scienza economica, morì a Roma il 5 giugno 1988.
Fra le tante cose che sono state dette e scritte su Rossi-Doria, una in particolare ci piace oggi ricordare. Con riferimento ai problemi da lui analizzati, all’approccio seguito, alle soluzioni proposte, in breve, alla sua capacità di guardare lontano, Manlio Rossi-Doria, si è detto, è morto giovane. I temi attorno ai quali si discute oggi, tutti attuali e in qualche caso addirittura futuribili, sono ancora quelli sui quali Rossi-Doria lavorava mezzo secolo fa: è, questa, una ulteriore dimostrazione di quanto sia ancora “giovane” il pensiero del Maestro.
Nilo Cardillo
Per approfondire si segnalano le sue opere nella collana L’ancora del Mediterraneo diretta da Michele De Benedictis:
“Riforma agraria e azione meridionalista”, Napoli, 2003 (prefazione di Guido Fabiani); “Scritti sul Mezzogiorno”, Napoli, 2003 (prefazione di Augusto Graziani); “Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno”, Napoli, 2004 (prefazione di Francesco de Stefano); “Rapporto sulla Federconsorzi”, Napoli, 2004 (prefazione di Roberto Fanfani); “La polpa e l’osso-Scritti di Manlio Rossi-Doria su agricoltura, risorse naturali e ambiente”, Napoli, 2005 (a cura di Marcello Gorgoni); “Giustino Fortunato Antologia dei suoi scritti”, Napoli, 2006 (a cura di Manlio Rossi-Doria); “Un paese di Calabria”, Napoli, 2007 (a cura di Michele De Benedictis); “Scuola e mezzogiorno”, Napoli, 2008 (a cura di Pancrazio Toscano)