Quando ho assunto la Presidenza della FIAP mi sono dato, insieme ad alcune compagne ed alcuni compagni, come primo obiettivo quello di far tornare “in edicola” la Lettera ai Compagni.

Infatti, era ed è nostra precisa convinzione che, a 77 anni dalla fine della Guerra di Liberazione, le associazioni partigiane abbiano un senso se riescono a svolgere il ruolo di catalizzatori di valori e di cultura. Memoria, antifascismo, libertà, patriottismo, europeismo, tolleranza rischiano di diventare concetti astratti e lontani se non calati nella realtà degli accadimenti storici ed attuali e nell’elaborazione che degli stessi compie la ricerca, la politica, l’arte.

«La nostra presenza vuole essere uno sforzo modesto, un contributo attivo, che noi vogliamo dare alle soluzioni che riteniamo più idonee per il rafforzamento dell’attuale regime democratico, logica proiezione e conseguenza dell’impegno e del sacrificio di chi ha lottato per la liberazione del nostro Paese», scrisse la prima redazione della Lettera composta da Gaetano Arfé, Simone Gatto, Lamberto Mercuri, Ferruccio Parri e Leo Valiani. Con molta modestia ma con lo stesso impegno, vogliamo ripartire da lì.

Non è un caso se abbiamo scelto il 25 aprile per tornare, dopo più di dieci anni, a pubblicare la Lettera. Il 25 aprile è un giorno di festa ed una rivista che riprende le pubblicazioni è, di per sé, una festa. Lo è ancora di più se a farlo è una testata fondata da coloro che hanno reso possibile quella Liberazione che oggi festeggiamo.

Oggi la lettera pubblica contributi importanti sul 25 aprile, ad opera di Paolo Bagnoli, di Andrea Ricciardi, del direttore Filippo Senatore e tanti altri.

Il 25 aprile è la data che rappresenta il simbolo dell’unità nazionale e nessuno può arrogarsi il diritto di sentirsene l’unico rappresentante così come nessuno deve neanche immaginare di metterla in discussione. Il 25 aprile non ha un colore, anzi ne ha molti, su tutti il tricolore, e quest’anno, come ci ricorda Elena Visconti nel disegno che apre la Lettera, ha anche il giallo dei campi di grano e l’azzurro del cielo di un Paese che, come l’Italia di allora, è aggredito e lotta per la sua liberazione.

Quando siamo partiti per questo viaggio che oggi trova il suo primo approdo – ne seguiranno altri, tra tutti l’uscita della versione cartacea –  mai avremmo immaginato di uscire nel mezzo di una guerra che sconvolge il cuore dell’Europa, di un vile attacco contro una nazione sovrana e contro l’Europa libera e democratica.

Sconvolge il campionario di orrori di cui l’esercito occupante si sta rendendo crudele protagonista. Vittime civili, cercate e giustiziate casa per casa, con le mani legate, stupri su donne e bambini, cingoli e fuoco sui rifugiati in fuga o in cerca di un illusorio riparo. Ha scritto Liliana Segre pochi giorni fa: “la capacità di indignarci davanti alle violenze, alle tragedie, alle aggressioni contro donne, bambini e anziani è la cifra della nostra umanità. Dobbiamo proteggere la nostra umanità, conservando la capacità di indignarci davanti ai soprusi e sapendo che non dobbiamo e non possiamo restare indifferenti”.

Dalla Lettera si alza un grido di dolore, il pianto ed il profondo sgomento per chi di fronte a tutto ciò ancora distingue, argomenta, si arrampica in artifici retorici, pur di non chiamare le cose, ed i criminali, con il loro nome. Questo grido di dolore ci ha tenuto lontani da piazze dove il 25 aprile siamo sempre stati protagonisti. Non potevamo accettare che le bandiere della FIAP, che dalla sua fondazione si basa sulla “fede nella libertà”, si potessero confondere con quelle dell’odio verso le democrazie occidentali e, soprattutto, che si perdesse il senso del 25 aprile, della più importante ricorrenza civile della nostra Repubblica. Non è la festa della “pace” ma della fine di una guerra, quella combattuta dai nostri partigiani armati dagli alleati americani ed inglesi per liberare l’Italia dall’occupazione straniera a cui il fascismo aveva spalancato le porte.

Quanto è vuota la parola “pace” se non si articola sul come la si vuole raggiungere! Cosa vuol dire oggi “pace”? A chi va imposta oggi la pace, forse all’Ucraina che se smette di combattere scompare dalle carte geografiche? E con che cosa mai può combattere se non con i mezzi e le armi che l’occidente può e deve fornirle?

Scrisse Norberto Bobbio: “Si può addirittura arrivare a sostenere che siano ingiuste anche una guerra di difesa da una aggressione o una guerra di liberazione nazionale. Non condivido questa conclusione perché penso che si debba distinguere fra la ‘violenza prima’ e la ‘violenza seconda’, fra chi usa per primo la forza militare e chi si difende. Normalmente chi usa la forza per primo è il prepotente e chi esercita la forza per secondo è il più debole costretto a difendersi: e le due posizioni non possono essere messe giuridicamente e moralmente sullo stesso piano. È il classico tema dell’aggressione e della resistenza all’aggressione. So bene come non sia affatto semplice, nelle situazioni concrete, determinare con nettezza chi è l’aggressore e chi è la vittima, ad esempio nel caso di una guerra civile. E tuttavia non possiamo trascurare che se non introduciamo criteri di valutazione giuridica e morale dell’uso della forza militare corriamo il rischio di dare sempre ragione ai prepotenti. Sono solito dire che se tutti fossero obiettori di coscienza tranne uno, quest’ultimo potrebbe impadronirsi del mondo. I prepotenti sono felicissimi di trovarsi di fronte ad avversari che rinunciano ad usare la forza. Di questo sono assolutamente convinto. Lo dico con il massimo rispetto verso la non violenza e il pacifismo assoluto. Già, dovrebbe essere un pacifismo davvero assoluto, praticato da tutti… ma sappiamo che non è così e che forse così non potrà mai essere”. Quale risposta migliore e più definitiva agli stucchevoli dibattiti dei talk-show nostrani?

C’è una foto, tra le più emblematiche di questo conflitto, in cui si vede una donna uccisa con in mano le chiavi della propria casa distrutta con il portachiavi con la bandiera europea. La propria casa, famiglia ed affetti, e l’Europa, cosa di più sacro al mondo?

E non siamo noi una delle stelle di quella bandiera? Che sia ben chiaro, Putin ha attaccato anche noi e l’unica “pace” di cui vogliamo sentir parlare è quella di una Ucraina libera in un Europa libera, con i suoi confini internazionalmente riconosciuti rispettati e sicuri.

C’è un nucleo identico tra la Resistenza ucraina e quella italiana e questo nucleo è composto dalla moralità, dall’etica del combattere per la libertà del proprio Paese, degli uomini, delle menti, dei commerci, dell’arte, della cultura e della scienza. La scelta per la libertà è davvero una scelta etica e non dovremmo mai chiedere agli ucraini di arrendersi, men che mai perché la loro resa farebbe comodo alla nostra economia o ci farebbe sentire più sicuri. Ad ogni considerazione tattica o strategica sul fatto che la Russia è una potenza nucleare o che armare la resistenza ucraina significa allungare il conflitto e, in qualche modo, aumentare il numero delle devastazioni e dei morti a fronte di un esito già segnato, rispondiamo con le parole di Pertini “nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura ma anche senza speranza”.

Se per altri la “pace” è il deserto, noi non saremo lì con loro, ce lo impedisce la nostra storia e la nostra cultura.

La scelta etica per la libertà supera, in Ucraina oggi come in Italia ieri, ogni evento contingente, ogni accadimento, ogni analisi di contesto che lasceremo agli storici così come a loro lasceremo le considerazioni sui limiti e sulle ambiguità della loro Resistenza così come, in maniera laica, abbiamo fatto con i limiti e le ambiguità della nostra Resistenza.

Oggi, parafrasando Calvino “tutto il male hanno di fronte, tutto il bene hanno nel cuore”. Domani, come correttamente ha scritto Giovanni De Luna, quando cesseranno gli spari, si vedrà, se dall’Ucraina, come crediamo e vogliamo, potrà nascere una fase costituente che coinvolga l’Europa e il mondo e non il rinfocolare di nazionalismi e sovranismi.

La Lettera è di nuovo con noi ed il mio ringraziamento va a Bianca Cimiotta, a Filippo Senatore, a Marco Zanier ed a Marina Barello che ci hanno creduto dall’inizio e a tutti coloro che ci hanno raggiunto o che faranno un pezzo di strada con noi, con la loro sensibilità, la loro cultura e la loro voglia di contribuire al nostro cammino.

In fondo, a cosa serviamo, noi associazioni partigiane, se non a ricordare ed a testimoniare? La Lettera è uno degli strumenti per farlo. Un caloroso benvenuto ai nostri lettori.

di Luca Aniasi, Presidente della F.I.A.P.

 

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