Lutz Klinkhammer, Alessandro Portelli, La Fiera delle falsità. Via Rasella, le Fosse Ardeatine, la distorsione della memoria, Donzelli Editore, Roma 2024

Alla vigilia dell’ottantesimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto il 24 marzo 1944 dalle SS tedesche con la complicità dei funzionari italiani della RSI, è stato pubblicato l’agile volumetto in cui Lutz Klinkhammer e Alessandro Portelli dialogano e riflettono sull’importanza che via Rasella e la successiva rappresaglia hanno avuto e hanno nel discorso pubblico del nostro paese. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di un pamphlet o di un istant book  nato con lo scopo di evidenziare le castronerie e le fallacie della versione “di destra”. È invece una profonda riflessione, ricchissima di spunti, sia sul valore simbolico che i due avvenimenti hanno assunto nell’istante stesso del loro farsi, sia sul senso e sulla dimensione di quel fenomeno particolare che chiamiamo “falsa memoria”, affiancato da un’altrettanto pervasiva “falsa narrazione”. Fenomeni che, anch’essi, accompagnano da sempre i due eventi e ogni discussione al riguardo.

Nel corso del dialogo tra Portelli e Klinkhammer viene delineata in modo chiaro la realtà dell’occupazione tedesca di Roma, ben lontana da quell’idea di “città aperta” che lascerebbe intendere una sostanziale tranquillità garantita  dall’essere la “città eterna” e, soprattutto, la città del Papa. La morsa nazifascista sulla città fu sempre evidente, come dimostrato dalla deportazione della popolazione ebraica con il rastrellamento del 16 ottobre 1943, preceduto dalla deportazione di circa duemila carabinieri romani gestita dai militi repubblichini su ordine di Kappler (poi trasferiti in Germania come internati militari), dei civili, degli oppositori (si pensi al rastrellamento del Quadraro, con circa 1000 uomini arrestati e deportati). Né vanno dimenticati i bombardamenti alleati sulla città. La vulgata di una Roma sostanzialmente tranquilla, dove sarebbe stato l’attentato ad opera dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica, comunisti) ad infrangere la quiete di una città in attesa di essere liberata dagli Alleati, si diffuse nelle ore immediatamente successive agli avvenimenti, alimentando nel corso dei decenni una versione che attribuiva ai partigiani l’intera responsabilità della reazione tedesca. Come pure si attribuì ai partigiani, sin dalle prime ore successive all’azione di via Rasella, la colpa di “non essersi presentati” provocando di conseguenza la strage di civili.  

Dal punto di vista storiografico, è stata ampiamente chiarita l’intera dinamica che portò alla rappresaglia: non ci fu nessun invito a “presentarsi”, non ci furono tentativi di ricercare i responsabili, i nazisti comandati da Kappler eseguirono in meno di ventiquattro ore la fucilazione di 335 uomini prelevati dalle carceri e dai luoghi di detenzione e tortura. Ripercorrere lo svolgersi effettivo di ciò che accadde permette di mettere in luce, nel dialogo tra i due storici, la differenza tra “falsa memoria” e “falsa narrazione”, legate l’una all’altra in un groviglio di nodi simbolici e narrativi. La prima si costruisce quasi in tempo reale e trova innumerevoli spiegazioni: la diffusione di notizie che si trasformano attraverso il passaparola, voci, informazioni distorte che passano di bocca in bocca alimentate dalla necessità, da parte dell’opinione pubblica, di individuare alcuni punti fermi che possano attenuare, spiegare, rendere più accettabile l’orrore di una strage compiuta in modo scientifico. La seconda, la falsa narrazione, segue, fa proprie e avvalora le ondate, le correnti irrazionali, le “diramazioni” della memoria. Ma, soprattutto, si incarica di ribadire e rafforzare notizie notoriamente false, mettendo in dubbio le ricostruzioni ufficiali delle corti di giustizia e della ricerca storiografica. È questo il caso recente (ultimo di una lunga serie) di affermazioni incaute fatte da due delle più alte cariche dello Stato: sostenere che i martiri delle Ardeatine furono trucidati precipuamente in quanto italiani e che il Battaglione Bozen fosse in realtà un’innocua banda militare composta da anziani padri di famiglia significa mentire, non essendo ragionevolmente ipotizzabile, nei due casi citati, l’ignoranza. Klinkhammer e Portelli, dialogando, smontano questa vera e propria fiera delle falsità e ne mettono in luce le conseguenze: depotenziare la pericolosità degli occupanti e rimarcare l’italianità quale unico “attributo” dei fucilati implica l’illegittimità di ogni azione armata di resistenza, negando l’universalità della strage e delegittimando tutto ciò che dalla Resistenza è nato, cioè la Costituzione antifascista e le istituzioni che da essa scaturiscono.

Vi è poi un’altra falsa ricostruzione che accompagna da sempre ogni discussione sui due avvenimenti: il presunto legame d’inevitabile consequenzialità tra l’azione di via Rasella e la rappresaglia, come se questa fosse una sorta di “legge naturale” assoluta e pertanto prevedibile. Da cui, di nuovo, si fa discendere la colpa morale dei partigiani che avrebbero messo a repentaglio la vita di centinaia di cittadini inermi. L’analisi storiografica dimostra che non fu così: l’attentato fu un legittimo atto di guerra contro gli occupanti, la rappresaglia ordinata da Kappler fu una scelta “locale”, non venne imposta da Berlino, non ci fu alcun ordine diretto di Hitler. Ma, soprattutto, non vi era alcun nesso causale che obbligasse alla rappresaglia: essa fu «una decisione cosciente e responsabile degli occupanti» (p. 91). Vi furono innumerevoli casi in cui ad attentati anche più gravi non seguirono rappresaglie, e altrettanto innumerevoli furono i casi in cui stragi vennero compiute in assenza di azioni precedenti che le avrebbero motivate. Ciò che caratterizzò le Fosse Ardeatine – episodio da collocare nel quadro della guerra mondiale, e non solo dal punto di vista delle vicende italiane – può e deve essere analizzato tenendo a mente le modalità dell’occupazione nazista dei territori europei, da un lato, e la necessità di mantenere un controllo ferreo sull’ordine pubblico romano, dall’altro.

L’eccezionalità della strage delle Fosse Ardeatine fu che si trattò dell’unico eccidio di massa compiuto in un contesto urbano dell’Europa occidentale, nella sua città simbolicamente più importante. La composizione stessa delle “liste” dimostrava l’universalità tipica della popolazione di una grande città. Vi si trovavano infatti cittadini di ogni ceto, professione, provenienza e fede, accomunati dall’essere considerati “nemici” del nazismo e del fascismo. Va ricordato, inoltre, che alle Fosse Ardeatine, come in molte altre stragi compiute dai nazifascisti, le vittime furono esclusivamente uomini: possibili combattenti da eliminare in via preventiva, in un’ottica marziale esclusivamente maschile. E ancora, è necessario ribadire che almeno 70 degli uccisi erano ebrei: alle Ardeatine si compì dunque un ulteriore atto della Shoah italiana.

Sempre guardando a ciò che accadde in un’ottica europea, va sottolineato come la burocratica precisione delle liste, le fucilazioni a gruppi di cinque, la segretezza dell’operazione (con la doppia finalità di non provocare ribellioni e di diffondere il terrore causato dal non avere notizie dei propri concittadini scomparsi) ricordano in modo impressionante ciò che accadde a Babi Jiar, la località nei pressi di Kiev dove furono fucilati più di 33.000 ebrei ucraini nel settembre del 1941. Allo stesso modo, le Fosse Ardeatine richiamano il massacro dell’intera popolazione di Lidice, in Cecoslovacchia, in seguito all’attentato a Heydrich, dove nel giugno del 1942 venne cancellata l’intera cittadina. Una violenza impressionante, “fredda”, burocratica, che accomunò i campi di sterminio e le fucilazioni di massa, possibili solo grazie alla capacità organizzativa e tecnologica degli Stati moderni.

Infine, tra le molte riflessioni che il dialogo tra i due autori mette a fuoco e che meriterebbero di essere approfondite, due sono particolarmente cariche di suggestioni e di significato. La prima riguarda la già ricordata composizione di genere delle vittime. Nello spaccato demografico degli uccisi di questa strage metropolitana, il fatto che si trattò solo di uomini implicò che la memoria e l’elaborazione della tragedia ricadde sulle spalle delle donne: il racconto si costruì dunque come essenzialmente femminile (p. 128). La seconda riflessione, a conclusione della lettura del volume, ci porta nei pressi della costruzione mitologica e della funzione che essa ha nelle vicende umane. In tutti i racconti sulle stragi, sulle fucilazioni, sugli eccidi (non solo in Italia) si fa strada il ricordo di un anonimo soldato che non sparò, o che mirò oltre i condannati, o che fu obbligato dai superiori ad uccidere. Riemerge cioè una falsa memoria che, come ricorda Portelli, rimanderebbe al racconto dei Vangeli apocrifi secondo cui sotto la Croce un “romano buono” avrebbe fermato il centurione in procinto di trafiggere Gesù. Tale presenza risponde alla «necessità di cercare un elemento di umanità anche fra gli aguzzini». La costruzione simbolica – che dunque prescinde da ogni verità storica e fattuale – di un “tedesco buono” non prelude, in questo caso, ad una negazione delle responsabilità nazifasciste, ma risponde alla necessità fondamentale per ogni individuo e gruppo sociale di «non perdere fiducia nell’umanità» (pp. 138-139).

di Paola Signorino

Loading...