Il 22 dicembre 1947 l’Assemblea Costituente, composta da 556 membri tra cui 21 donne, dopo 170 sedute di discussione approvò il testo della Costituzione repubblicana con 453 voti favorevoli e 62 contrari, tra cui spiccarono quelli dei deputati del monarchico Blocco Nazionale della Libertà e del Fronte dell’Uomo Qualunque, fondato dal commediografo Guglielmo Giannini. Il Movimento Sociale Italiano, erede dichiarato della Repubblica Sociale Italiana e nato nel dicembre 1946, non aveva rappresentanti nella Costituente e, pur esercitando un ruolo non trascurabile nella storia della Repubblica (dentro e fuori dal Parlamento), avrebbe continuato a non riconoscere le fondamenta della democrazia. Il 27 dicembre la Carta, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948, il cui testo fu elaborato dalla Commissione dei 75 presieduta da Meuccio Ruini e divisa in tre sottocommissioni, fu firmata dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola (di sentimenti monarchici, che assunse il titolo di Presidente della Repubblica), dal presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini (che l’8 febbraio aveva sostituito Saragat, dimessosi a gennaio dopo aver guidato la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini) e dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, alla guida del suo IV governo. Il primo senza la partecipazione di PCI e PSI, esclusi dall’esecutivo a maggio dopo che l’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani (tra i fondatori di Giustizia e Libertà ed ex esponente del Partito d’Azione) era stato ricevuto dal Presidente Truman, che aveva garantito l’appoggio degli Stati Uniti a un nuovo governo a patto che ne fossero esclusi i comunisti di Togliatti (e i socialisti di Nenni loro alleati). Dunque si può e si deve sottolineare che, proprio nella fase più delicata del passaggio tra il regime fascista e la Repubblica democratica, quella in cui iniziava la Guerra fredda che tanto avrebbe influenzato il corso di quasi tutto il resto del Novecento, le forze politiche antifasciste (divise sul sostegno al governo) mantennero quell’unità necessaria per portare a termine una missione storica, fondamentale per il presente e per il futuro. Costruire cioè le radici della convivenza civile accantonando gli steccati ideologico-culturali e non facendosi troppo condizionare nella loro azione, insieme complessa ed efficace, dalle contingenze internazionali che poi si sarebbero rivelate durature.
Nel 1996, Vittorio Foa pubblicò con Einaudi Questo Novecento, un volume nato da “una decina di conversazioni sulla politica italiana” con gli studenti dell’ultimo anno del liceo classico di Formia avvenute nell’inverno del 1993, iniziativa proposta dall’allora preside Nilo Cardillo. Ecco cosa scrisse Foa sull’Assemblea Costituente e sulle dinamiche di quella fase.
È probabile che io ne abbia una visione idilliaca. Ero giovane ed ero contento di essere deputato. Sono convinto che vi è stata allora quella che si potrebbe chiamare una mente costituente, una capacità di guardare insieme agli interessi particolari (individuali, di classe o di partito) e agli interessi generali; di guardare all’oggi e insieme anche al domani. I contrasti politici tra partiti erano molto forti ma pur nella evidenza di questi contrasti la Costituente riusciva a toccare un livello altro, e questo altro livello era quello della ricerca comune. Era una democrazia plurale, le differenze erano legittime, si trattava di vivere civilmente nella diversità. Come vivere il conflitto. Questo era il punto chiave della mente costituente. Sostenere, come accade oggi, che lo scontro tra destra e sinistra era lacerante e metteva persino in forse l’identità nazionale, è quindi assolutamente fuori luogo. Convivere non vuol dire negare il conflitto, vuol dire saperlo vivere. E dare stabilità alle regole senza però chiuderle di fronte alla storia del futuro. Per salvare il futuro si doveva proclamare che il conflitto, ideale o materiale, era legittimo, era un diritto […]. Il dibattito sulla Costituzione naturalmente è sempre stato molto acceso: per qualche tempo ci siamo domandati se non fosse il frutto di un compromesso (dando a questa parola un significato deteriore) fra i fatti e le intenzioni. Piero Calamandrei, che fu tra i costituenti più illustri, diceva che la Costituzione è fatta di due parti, una parte dispositiva e una parte puramente programmatica; così la democrazia era solo in parte realizzata, nell’altra parte solo promessa. Questo è parzialmente vero. Ma una costituzione non può esprimere una realtà storica compiuta, sarebbe una pretesa eccessiva; essa esprime anche un processo in corso, le tendenze viste come impegni collettivi.
In effetti Calamandrei, parlando ai giovani sulla Costituzione a Milano il 26 gennaio 1955 nel Salone degli affreschi della Società Umanitaria, in occasione di un ciclo di conferenze organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi, tra l’altro aveva affermato che la Costituzione era “soltanto in parte una realtà” e in parte “ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. E ancora:
la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno metterci il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani […]. È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai […] vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.
Forse i giovani, oggi, hanno bisogno dell’impegno e della coscienza dei cosiddetti adulti per imparare a tutelare i propri diritti, per salvaguardare la sia pur imperfetta democrazia senza dare nulla per scontato, per progettare uno scenario in cui la pace coincida con il rispetto per l’altro da sé e con l’accettazione della diversità nelle sue varie declinazioni. Uno dei problemi del nostro tempo sembra essere proprio questo: la latitanza degli adulti, molto distratti, spesso indifferenti e dotati di scarsa memoria. Hanno persino dimenticato di essere stati essi stessi studenti e giovani lavoratori, hanno scordato che senza il sogno di un futuro possibile manca proprio quell’aria che Calamandrei chiamava libertà.
di Andrea Ricciardi