Il 21 novembre 1945 il PLI decise il ritiro dei propri ministri dal Governo Parri, che fu accusato di aver legiferato in maniera «disordinata e incontrollata» e di aver seguito «cattivi criteri amministrativi». Il 24 novembre anche la DC decise di abbandonare il primo esecutivo dopo la Liberazione, giudicando inopportuno sostenere un nuovo governo nel quale non fossero coinvolte tutte e sei le forze politiche che componevano i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN). Fu allora che Parri presentò le dimissioni e convocò una conferenza stampa durante la quale, alla presenza dei rappresentanti del CCLN e del CLNAI, difese l’operato del governo che aveva presieduto e utilizzò toni allarmati per descrivere il clima politico che si respirava nel Paese. Si mostrò molto preoccupato per la tenuta della nascente democrazia italiana, dichiarando di avvertire segnali d’involuzione autoritaria. Iniziò allora una crisi che si risolse il successivo 10 dicembre con il varo di un nuovo governo presieduto da De Gasperi, appoggiato anche dal Pd’A contro il parere di vari dirigenti tra cui Valiani (principale sponsor di Parri), che si era recato negli Stati Uniti dove aveva conosciuto Salvemini. De Gasperi, che tenne per sé anche il ministero degli Esteri, confermò Nenni vicepresidente e ministro per la Costituente. Rimasero al loro posto quasi tutti gli altri ministri “di peso” a cominciare da Togliatti (Giustizia, che firmò la controversa amnistia nel successivo mese di giugno), Scoccimarro (Finanze), Gronchi (Industria e Comunicazioni) e Gullo (Agricoltura), pur sopravvenendo qualche significativo cambiamento. La Malfa, Lussu e Lombardi entrarono nel governo, appoggiato con grande senso di responsabilità dallo stesso Parri proprio mentre il Pd’A, in vista del I Congresso nazionale di Roma (4-8 febbraio 1946), mostrava tutte le sue contraddizioni interne che non si esaurivano nel conflitto tra Lussu (leader dell’anima più vicina al socialismo) e La Malfa (esponente di primissimo piano del gruppo liberaldemocratico). In realtà la serrata dialettica interna al partito attraversava le correnti e si cibava non solo delle diverse priorità politiche contingenti e delle differenti visioni del futuro quasi incompatibili tra di loro, incarnate da Lombardi, Foa, Codignola, Lussu, La Malfa, Rossi Doria, Oronzo Reale, Schiavetti, Cianca, Spinelli, Ernesto Rossi e Parri stesso, ma anche di contrasti personali non marginali. Si può affermare che la caduta del Governo Parri, per molteplici ragioni, rappresentò l’inizio della fine del Pd’A che, al termine del congresso del febbraio 1946, avrebbe subito la traumatica scissione del gruppo di La Malfa e Parri e, dopo la nascita del PSLI di Saragat, figlio della scissione di Palazzo Barberini del gennaio 1947, avrebbe visto restringersi ulteriormente il proprio spazio politico non riuscendo a sopravvivere. Con il suo scioglimento deciso dal Consiglio Nazionale del 20-21 ottobre 1947, al quale sarebbe seguita la confluenza nel PSI approvata dalla maggioranza, il sogno della rivoluzione democratica incentrata sui CLN sarebbe tramontato per sempre. In realtà proprio la fine del Governo Parri aveva già dimostrato che il Pd’A non aveva assunto nell’immediato dopoguerra quella centralità nel quadro politico capace, accettando la definizione di De Luna scelta come titolo dell’ultima edizione della sua Storia del Partito d’Azione (2021), di fargli superare la dimensione di “partito della Resistenza”. Il Pd’A, una volta finita la guerra, si era dimostrato privo di un chiaro referente sociale e, di fatto, era rimasto schiacciato tra il moderatismo della destra ciellenista (che raccoglieva il grosso del consenso dei ceti medi) e il peso dei partiti operai, più radicati sul territorio (come il rinato PRI) e a stretto contatto con le masse lavoratrici che vedevano nel PSIUP e nel PCI i loro più “naturali” rappresentanti. Il pessimo risultato conseguito dal Pd’A nelle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946, a ben guardare non molto influenzato dai voti ottenuti dal Movimento della Democrazia Repubblicana fondato da La Malfa e Parri (poi confluito nel PRI), ben prima dell’ottobre 1947 aveva dimostrato che il partito aveva esaurito la sua funzione. Tuttavia, nonostante lo scioglimento del Pd’A dopo soli cinque anni, i suoi principali esponenti, da una parte, avrebbero contribuito profondamente al rinnovamento delle culture politiche degli altri partiti (in primis socialisti e repubblicani) e, dall’altra, avrebbero esercitato una grande influenza nel dibattito pubblico attraverso un’intensa militanza intellettuale. Rimanendo all’interno dell’area laico-socialista fino all’avvicinamento al PCI con la nascita della Sinistra indipendente nel 1967 (dopo aver rotto col PRI, nel 1953 aveva fondato Unità Popolare, confluita poi nel PSI), Parri (senatore a vita dal 1963) mai cessò di essere un riferimento culturale ed etico per i suoi ex compagni di partito, anche quando le posizioni politiche e le appartenenze partitiche allontanarono Maurizio da molti dei suoi amici. Il suo esecutivo era caduto perché Parri, che parlò nel 1945 di “colpo di Stato” ammettendo poi di aver esagerato e parlando, in una successiva ricostruzione pubblicata nel 1972 su L’Astrolabio, di un “colpo di mano” per spostare a destra il baricentro del quadro di governo, era stato poco sostenuto non soltanto dal PSIUP e dal PCI, ma anche dall’amico La Malfa e da altri esponenti del suo stesso partito, forse più realisti di lui nel cogliere in quel momento storico i rapporti di forza tra i partiti e, di conseguenza, il grado di discontinuità possibile rispetto al recente passato con particolare riferimento all’epurazione, forse necessaria ma non realizzabile in concreto. A conferma del suo spessore umano e politico, e la di là delle dichiarazioni rilasciate a caldo, fu Parri stesso durante il congresso azionista del 1946 a evitare polemiche, da un lato chiarendo il senso più profondo della sua sofferta esperienza governativa e, dall’altro, evidenziando i gravi rischi che correva l’Italia in quel delicato momento di passaggio dal fascismo alla democrazia, da difendere ogni giorno con paziente determinazione senza mai dare nulla per scontato. Un messaggio ancor oggi molto attuale, guardando non soltanto all’Italia ma anche a numerosi altri paesi, interni ed esterni all’Europa.

Io non posso dire di aver sempre avuto, come presidente del Consiglio, l’appoggio tempestivo ed utile della direzione del partito e non posso dire la stessa cosa per il partito in generale. Mi si può muovere certamente il rimprovero di non aver maggiormente mantenuto i contatti con la segreteria, di non aver maggiormente influito su di essa attraverso un’azione sul partito. Forse io avevo preso troppo sul serio i doveri della mia carica tanto da impegnare tutto il mio tempo e non avevo pensato che non mi trovavo nella situazione di Bonomi che è senza partito o di De Gasperi che è segretario di un partito che funziona da sé […]. Non voglio ripararmi dietro la comoda trincea che è facile la critica ma è difficile l’azione. Voglio rilevare però che è difficile condurre una seria politica economica, una seria politica finanziaria e di conseguenza una seria politica della ricostruzione con un governo non dico di coalizione ma impostato sulla pariteticità sia pure della maggioranza di tendenze […]. Sapevo che ero stato presidente del Consiglio solo perché in quel certo momento il Paese aveva sentito che lo spirito che aveva animato la lotta per la liberazione esigeva la garanzia per la Costituente. Voi sapete che durante la crisi le forze della reazione avevano purtroppo affievolito lo spirito e la capacità del movimento di rinnovamento. Sapete che io ho reagito proprio quando ho sentito che le forze avversarie volevano scalare quelle garanzie delle Costituente. Il pericolo prossimo ormai, e tutti lo hanno avvertito, non è il neo-fascismo contro il quale la lotta è più facile ed è più chiara e noi credo che sapremo [sic] condurla ma è un’Italia retriva che urge alla porta e insidiosamente vuole riportare ad un regime, ad un clima amministrativo e morale semi-fascista, contro il quale la lotta è più difficile ed esige tempestività, intelligenza d’azione come diceva La Malfa e, io aggiungo, costanza quotidiana.

Dall’intervento di Parri del 7 febbraio 1946 al I Congresso nazionale del Pd’A di Roma

di Andrea Ricciardi

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