Nel marzo del 1943, operai ed operaie delle grandi fabbriche di Torino e di Milano diedero vita al più grande sciopero di massa durante il regime fascista, mettendone drammaticamente in luce la crisi di consenso. Al grido «Pane, Pace», rivendicarono l’indennità di carovita, l’aumento delle razioni di cibo e la fine della guerra. Il crollo del fronte interno, di cui gli scioperi furono il sintomo più manifesto, sotto il peso delle sconfitte militari, dei bombardamenti angloamericani e delle precarie condizioni di vita, fu il preludio della caduta del fascismo pochi mesi più tardi.
Il fronte interno: dentro e fuori la fabbrica
Milano era una città che lavorava essenzialmente in fabbrica; ma che pur lavorando non aveva più mezzi per nutrirsi. Il salario diminuiva, i generi di prima necessità, zucchero, olio, farina, le cose essenziali scarseggiavano. E al mercato nero avevano prezzi impossibili.
Così scriveva Nella, un’operaia della Borletti, che sintetizzava efficacemente in poche parole i motivi di malcontento della classe lavoratrice.
Le condizioni di vita della popolazione civile erano già cominciate a peggiorare all’inizio del 1940, prima ancora dell’entrata in guerra. In gennaio era stata introdotta la carta annonaria, limitata alla distribuzione dello zucchero e del caffè, mentre si moltiplicavano divieti e regolamentazioni.
Nei mesi successivi, le carte annonarie si resero necessarie per ogni genere di consumo. Nell’ottobre del 1940 vennero tesserati olio, strutto, lardo e altri grassi e alla fine dell’anno la pasta e il riso. Il 1° ottobre 1941 il razionamento colpì anche il pane: 200 grammi al giorno per persona con un supplemento per gli operai, maggiore per quelli che svolgevano lavori pesanti, ridotti a 150 grammi all’inizio dell’anno seguente.
Intanto a Milano e nelle grandi città, aiuole, parchi e giardini pubblici si trasformavano in “orti di guerra”, dove piantare grano, zucchine, cavoli e patate, e nei quartieri popolari si dava il via all’allevamento delle galline ovaiole sulle terrazze, nei cortili, in locali di servizio.
Mentre la propaganda fascista affermava enfaticamente che, alla fine del 1941,
dopo quattordici mesi di guerra i fatti dimostrano e tutti sanno che nessun italiano è morto per fame, che nessuno italiano morirà di fame, che in Italia si mangia meglio che in qualunque altra parte d’Europa,
un’inchiesta sull’alimentazione degli italiani, condotta nel marzo del 1942, provava esattamente il contrario. Nella primavera del 1942, circa 2.500.000 famiglie soffrivano infatti letteralmente la fame, «nel pieno senso fisiologico della parola», e almeno altrettante vivevano al di sotto del livello alimentare minimo. Le razioni garantite dalla tessera, e non sempre con regolarità, provvedevano a circa un terzo del fabbisogno calorico e, quindi, l’unico vero mezzo per sopravvivere era il ricorso alla borsa nera che marcava, peraltro, divisioni profonde tra chi poteva usufruirne e chi no. Il mercato nero finirà per costituire, di fatto, una sorta di mercato parallelo, illegale, anche se le maglie del controllo non erano poi così strette. Non accennava ad arrestarsi, inoltre, il costo della vita, che incideva in misura sempre maggiore soprattutto sulle categorie a reddito fisso, operai e impiegati.
Secondo i dati forniti dai sindacati fascisti, tra il ’40 e il ’42, il costo dei generi alimentari era aumentato addirittura del 67%, mentre i salari e gli stipendi non si adeguavano con la medesima rapidità. Il congelamento dei salari finirà per costringere i lavoratori, già sottoposti a una ferrea disciplina quasi militare, ad aumentare le ore di lavoro, che nelle aziende metalmeccaniche, che lavoravano a ciclo continuo per l’economia di guerra, erano state normalizzate a 72 ore settimanali, organizzate su tre turni. La carenza di combustibile – e di materie prime in genere – poteva arrivare tuttavia a determinare l’arresto della produzione e, addirittura, la chiusura delle fabbriche come accadeva, in alcuni dei principali stabilimenti tessili brianzoli. Questo era, per esempio, il caso della tessitura Fratelli dell’Acqua che, per mancanza di materie prime, aveva ridotto complessivamente a 5 ore giornaliere il lavoro di 350 operai, a rischio licenziamento. O della ditta Michele Perego, con stabilimento di filatura e tessitura in Renate Veduccio che, in data 14 maggio 1942, licenziava 22 operai su 698. Della filanda Bernando e Lorenzo Banfi di Bernareggio che, il 17 giugno 1942, «per esaurimento di materia prima bozzoli», sospendeva il lavoro lasciando disoccupata l’intera maestranza di 70 operai. E ancora la ditta Castelli e Bari, con stabilimento serico a Meda, cessava l’attività sospendendo dal lavoro 650 operai per effetto della limitazione di consumo di energia elettrica fissata dal ministero dell’Interno nel novembre 1941. Persino la fonderia Bernardelli e Colombo di Monza, per mancanza di carbone, sebbene assegnato dal Fabbriguerra, sospendeva il lavoro lasciando disoccupati 100 operai.
A tutto ciò si aggiungevano i pesanti bombardamenti alleati che, oltre ad accentuare la crisi dei rifornimenti e della distribuzione dei generi tesserati, producevano una massa di sinistrati e sfollati. Le drammatiche incursioni del 24 ottobre 1942, il primo bombardamento a tappeto su Milano, e del febbraio 1943 confermavano in modo tragico l’insufficienza dei rifugi, in particolare nelle zone operaie e popolari; l’impreparazione della protezione antiaerea; la totale disorganizzazione dei soccorsi; l’inadeguatezza nel gestire l’assistenza ai sinistrati e il massiccio esodo dei milanesi. In sostanza, era sotto accusa l’incapacità del regime fascista e delle sue articolazioni periferiche di garantire la sicurezza e la difesa dei cittadini, a dispetto della «idiozia della propaganda». Scriveva, per esempio, il podestà di Monza:
si è dovuto constatare ancora che in occasione delle ultime incursioni i segnali di preallarme, di allarme e di cessato allarme vengono a Monza dati con alcuni minuti di ritardo sui segnali di Milano: in tali contingenze anche alcuni minuti possono essere fatali.
Il Calzificio italiano di Monza faceva presente, inoltre, che a disposizione della maestranza esisteva un ricovero anticrollo sufficiente solo per una cinquantina di persone, di contro capitava che agli operai venisse impedito di uscire durante gli allarmi. È quanto denunciavano per esempio le maestranze del gruppo Hansemberger Arcarani di Monza, che chiedevano l’allontanamento del capo officina accusato di esortare gli operai a non sospendere il lavoro durante il piccolo allarme, a produrre sotto il pericolo dei bombardamenti. Manifestazioni di malumore crescevano anche nei più grandi stabilimenti industriali dell’hinterland milanese, Breda, Magneti Marelli, Alfa Romeo, esposti più degli altri agli attacchi aerei e privi di adeguate protezioni antiaeree: nello stabilimento Breda di Sesto San Giovanni, per esempio, circa 400 operai su 2000 che vi lavoravano «al cessare di un allarme aereo, alle ore 15, invece di riprendere il lavoro, se ne andarono alle proprie case».
Per far fronte a una situazione sempre più critica, gli enti comunali di assistenza presero ad organizzare il cosiddetto “rancio del popolo”. A Milano, per esempio, nel febbraio del ’43 in tutto il territorio del Comune funzionavano 29 posti di distribuzione, «per consentire agli assistiti di consumare in luogo la refezione». Giornalmente più di mille persone si ristoravano con una minestra calda e ricevevano un buono per ritirare la razione di pane. Nel mese di dicembre del ’42 erano state distribuite 24.166 refezioni. Le mense aziendali, aperte dagli industriali per integrare la dieta dei propri operai ed evitare disordini, ammontavano, invece, a 670, con una presenza ai pasti di oltre 170 mila operai e di circa 25 mila impiegati. Misure, tuttavia, del tutto insufficienti a contenere la protesta sociale.
Il risveglio dell’antifascismo tra spontaneità e organizzazione
Questori e informatori dell’Ovra segnalavano ovunque, nei mercati rionali, tra le donne in fila a fare la spesa e davanti ai municipi, invettive, proteste e tafferugli per la mancanza del pane, «per l’insufficienza di razioni di grassi e farina gialla» e per le ruberie dei gerarchi.
Ci viene segnalato – si leggeva in una nota della questura – che stamane ad Arcore si sono presentate al municipio una cinquantina di donne in atteggiamento ostile ed hanno inscenata una manifestazione per protestate con bimbi sulle braccia che le razioni di generi tesserati e contingentati non sono sufficienti per il fabbisogno delle rispettive famiglie.
Al municipio di Bovisio la manifestazione di 200 donne, le cui rimostranze per il podestà non avevano alcun fondamento, per chiedere una maggiore assegnazione dei generi alimentari terminava con il fermo di 5 donne, tra cui quello «dell’eccitata Vittoria Terragni di anni 47», tradotta poi nelle carceri di Milano. E ancora, a Carate Brianza, il 28 maggio 1942 una cinquantina di donne, tutte operaie, lamentava l’insufficienza di pane, pasta e riso e la mancanza di combustibile:
Abbiamo svolto – scrive significativamente il segretario politico – opera pacificatrice dimostrando la necessità di affrontare con spirito di sacrificio il momento attuale particolarmente difficile mentre è doveroso pensare ai valorosi combattenti che si preparano ad eventi decisivi per la Patria. Si è data assicurazione che si svolgerà opera efficace per disciplinare le assegnazioni e garantire i rifornimenti indispensabili ad ogni famiglia. Dopo un’ora e mezza di discussione le donne ritornarono alle loro case, non tutte persuase del nostro interessamento.
A Cogliate, un gruppo donne lamentava la mancanza di legna da ardere indispensabile per la confezione delle minestre e ai primi di giugno del ‘42 molti rapporti di polizia parlavano di una consistente protesta a Sesto San Giovanni. Secondo alcuni si sarebbe trattato addirittura di migliaia di donne scese in piazza per ottenere la distribuzione delle patate. Solo l’arrivo di cinquanta agenti da Milano avrebbe permesso di sciogliere l’assembramento usando getti d’acqua. Numerosi anche gli episodi di protesta e di opposizione all’interno delle fabbriche: cessazione del lavoro, atti di indisciplina, vere e proprie agitazioni. A motivarli erano le minacce di licenziamento in risposta alla richiesta di aumenti salariali; i licenziamenti operati nei settori industriali non interessati alla produzione bellica; la scarsità e la cattiva qualità del cibo nelle mense; i disagi procurati dalla riduzione dei servizi di trasporto, essenziali per la gran massa dei pendolari. Si andavano inoltre diffondendo velocemente le notizie relative al pessimo trattamento riservato ai lavoratori italiani in Germania (vitto scarso, paga misera, disciplina durissima, assoluto disprezzo).
Il 6 ottobre, per esempio, all’Alfa Romeo gli operai avevano incrociato le braccia per la mancanza di pane, mentre un ritardo nella corresponsione delle paghe provocava all’Isotta Fraschini una sospensione temporanea del lavoro. E ancora: allo stabilimento Snia Viscosa di Cesano Maderno (marzo ’42), alcune operaie fermavano il lavoro al grido «vogliamo l’aumento e la paga». Per incrementare gli strumenti coercitivi a fronte del profondo disagio che percorreva le fabbriche, Fabbriguerra aveva emanato un ordine per l’approntamento entro il 31 dicembre di camere di punizione presso gli stabilimenti, che accrebbe ulteriormente il malessere della classe operaia. Intanto, sui muri della città iniziavano a comparire scritte “sovversive”: «Morte al duce», «Il fascismo è fame». Aumentava il numero di coloro che ascoltavano Radio Londra e, di fronte alle sconfitte militari e alle notizie, peraltro scarsissime, proveniente dal fronte russo, cresceva il malumore per la politica bellicista del fascismo, l’odio per i tedeschi e l’ansia per i propri cari:
Le operaie – ricorda una lavoratrice della Borletti – che avevano i mariti in Russia venivano ormai considerate vedove. Si davano per certe le notizie secondo le quali i soldati italiani non avevano abbastanza per difendersi dal freddo dell’inverno russo e che durante la ritirata i tedeschi avevano requisito i camion [e che] gli italiani erano costretti alla ritirata a piedi: chi non ce la faceva restava lì, congelava e moriva.
Si assisteva, come scriveva sconcertato un informatore da Milano, «ad un risveglio antibellico, antifascista e antitedesco». Si faceva, dunque, strada nella società un antifascismo spontaneo, non politicizzato, che si esprimeva dentro e fuori la fabbrica, su cui si sarebbe innestata l’azione dei partiti antifascisti. Le forze avverse al regime, sopravvissute alle repressioni del ventennio, infatti cominciavano lentamente a riorganizzarsi, incoraggiate dalla progressiva caduta del consenso popolare al fascismo. Già nell’ottobre del 1941, a Tolosa, i rappresentanti del PCd’I, del PSI e di GL avevano dato vita a un Comitato d’azione per l’unione del popolo italiano allo scopo di rompere l’alleanza con Hitler, cacciare Mussolini, ottenere libertà di stampa, di associazione, di parola e darsi un nuovo governo. Dentro alle fabbriche, la propaganda divenne più capillare e i contatti tra gli antifascisti militanti più stretti. Presso le Argenterie Broggi un incisore, Umberto Recalcati, ex deputato socialista, si adoperava per la riunificazione delle forze socialiste. Alla Ercole Marelli, un gruppo di aderenti a Giustizia e Libertà, guidato dall’ingegner Umberto Fogagnolo, distribuiva un volantino che recava la firma del Comitato italiano contro la guerra e nella stessa fabbrica Giulio Casiraghi, già condannato dal Tribunale speciale, aveva contribuito a mantenere viva la cellula comunista interna. Entrambi saranno determinanti per la riuscita dello sciopero alla Ercole Marelli, entrambi saranno uccisi a Piazzale Loreto nell’agosto del ’44. Anche i cattolici, godendo della copertura delle istituzioni parrocchiali e dell’appoggio dell’industriale Enrico Falk – nella cui casa nacque la Democrazia cristiana – agivano alla Breda, alla Magneti Marelli e alla Falk. Tra il 1942 e il 1943, dunque, l’antifascismo era in «piena ebollizione». La rete clandestina del Partito comunista si andava estendendo, grazie soprattutto all’opera di Umberto Massola, nuovo responsabile del centro interno, che riuscì a costituite nuove cellule tra gli operai di Milano e Torino, mentre ricominciava la stampa clandestina de L’Unità. Nel gennaio del 1943, nasceva il MUP (Movimento per l’unità proletaria), la cui direzione verrà lasciata al gruppo milanese guidato da Lelio Basso. Si fonderà poi con il Psi ricostituito a Roma nel luglio del 1942 da Giuseppe Romita e Oreste Lizzadri, prendendo il nome di PSIUP. Nel ’42, nacque anche il Partito d’Azione, che ebbe una delle sue più importanti basi logistiche presso l’Ufficio studi della Comit (Banca Commerciale italiana), in piazza della Scala a Milano, diretto da Ugo La Malfa, uno degli estensori del programma del partito.
Gli scioperi del marzo 1943
Sebbene l’organizzazione dei partiti antifascisti interna alle fabbriche fosse ancora troppo debole, per la mancanza di quadri di vertice e dei militanti di base, ancora in carcere o al confino, l’attivismo dei pochi militanti comunque contribuì in maniera significativa alla mobilitazione operaia, facendo da tessuto connettivo alla protesta dei lavoratori e delle lavoratrici che scioperavano per rabbia, per fame e per rivendicare i propri diritti. Lo sciopero era stato messo fuori legge dal fascismo. Più di una generazione di giovani operai e operaie era cresciuta ignorando un termine pericoloso, senza avere la minima esperienza di lotta né, alle spalle, una tradizione politica e sindacale di tipo classista. La partecipazione allo sciopero diventava, così, una sorta di apprendistato alla politica.
Racconta, per esempio, Angelo Signorelli, operaio alla Falk Unione:
Nel marzo 1943 ho sentito per la prima volta la parola sciopero e non sapevo cosa volesse dire. Mi hanno detto che scioperare significava abbandonare il lavoro, allora noi giovani abbiamo partecipato con entusiasmo. C’era l’entusiasmo di partecipare agli scioperi perché gli operai erano stanchi della guerra, della fame, del lavoro a ritmo continuo, senza pause. […] questi scioperi sono stati una prima scossa contro il fascismo.
Particolarmente significative, in questo senso, anche le testimonianze di Maria Azzali e di Piera Antoniazzi che avevano contribuito a organizzare le lavoratrici della Borletti, che costituivano la stragrande maggioranza della manodopera impiegata.
Bisogna far rilevare – scriveva Maria – che le donne del periodo fascista non sentivano più parlare di sciopero, di lavoro politico, ignoravano certi termini. Meravigliate si chiedevano che cosa fosse lo sciopero politico e unitamente dicevano: «vogliamo mangiare, vogliamo farla finita con la guerra, questo vogliamo. Non sappiamo cos’è lo sciopero politico».
E Piera:
Le donne della Borletti erano, in genere, di origine contadina ed erano state assunte in massa per gli urgenti bisogni legati alla produzione bellica; erano in maggioranza di matrice cattolica. Con loro iniziai a discutere sui guasti provocati dalla guerra, sulla condizione economica e sulla fame, convinta che mi avrebbero capita. E così è stato. Dopo anche le impiegate si sono messe a scioperare, perché eravamo tutti conciati male: poco o niente da mangiare, senza riscaldamento, senza sapere più niente dei mariti, figli o fratelli in Russia… ma come si fa a vivere così?
A preparare lo sciopero fu un nucleo ristretto di lavoratori antifascisti (operai specializzati nella maggioranza dei casi) che si erano riuniti furtivamente durante le pause pranzo, o in momenti extralavorativi avevano preso contatti con altre fabbriche, facendo circolare tra le maestranze manifestini e copie clandestine dell’Unità nei quali erano riportati i fatti torinesi, le motivazioni dello sciopero e articoli che esortavano a seguirne l’esempio.
Gli scioperi a Milano si erano messi in moto con quasi tre settimane di ritardo rispetto a quelli di Torino, dove la Fiat si era fermata il 5 marzo. Il primo sciopero si registrava il 22 marzo, alle 13:
circa 500 operai dello stabilimento ausiliario Falk-Concordia di Sesto san Giovanni – si legge nel rapporto del Comando di difesa territoriale di Milano – adducendo pretesto insufficienza paga, ritenuta inadeguata all’attuale costo vita e reclamando aumento salariale, non riprendevano il lavoro, restando inoperosi presso i rispettivi posti.
Il 24 marzo scioperavano l’Ercole Marelli e la Pirelli, nei suoi due stabilimenti, l’uno in via Fabio Filzi a Milano, l’altro alla Bicocca, ai confini con Sesto. Così racconta Francesco Tadini:
Il 24 e il 25 marzo lo stabilimento Bicocca si ferma per mezz’ora contro l’orario di lavoro di 12 ore continuative. Lo sciopero ha inizio nel reparto rettifica filiera. Mi avvio verso gli altri reparti per incitare allo sciopero. Non è semplice se si pensa che in ogni reparto c’è il fiduciario fascista. Dopo animata discussione si ferma il reparto trafileria, il più rumoroso. Da altri reparti avvertono il silenzio delle macchine e per primi si fermano i reparti laminatoio e stagneria. Io raggiungo il reparto ricottura e vedo che si fermano le donne del reparto capillari, dove lavora mia moglie […]. Quella notte, in cui ci furono 45 arresti, non fui denunciato. Lo dovetti solo all’ingegnere dirigente del mio reparto che garantì per me.
Nei giorni successivi le agitazioni si estesero alla Borletti, al Tecnomasio italiano Brown Boveri, alla Face Standard Bovisa, grosse aziende elettromeccaniche site nella cintura industriale della città; seguirono la Caproni aeronautica di Taliedo e la Bianchi, presso Città Studi, nella periferia orientale. Il 29 si fermavano le Officine Cerutti di Bollate e la Breda di Sesto San Giovanni. Negli ultimi giorni di marzo cominciarono a muoversi anche gli operai brianzoli. In particolare, entrarono in sciopero la Singer, la Pirelli di San Damiano, la Hensemberger e la CGE di Monza.
Alle 12.45, appena aperti i cancelli – racconta Giovanni Terragni delle Officine Cerutti – un operaio doveva recarsi alla cabina elettrica, togliere la corrente della forza motrice e lasciare solo l’alimentazione elettrica relativa alla palazzina degli uffici per far sì che la direzione non si accorgesse di niente.. io entrai nello stabilimento da solo alle 13. Proprio prima della chiusura dei cancelli. La mia tarda ripresa del lavoro era stata studiata attentamente in quanto alcuni informatori mi controllavano: perciò, controllato io, gli altri operai potevano agire con più facilità. Trovai tutti al proprio posto, ma nessuno intento a lavorare. Feci così anch’io. I capi reparto rimasero a osservare la scena passivamente: forse anche questo era da ritenersi come partecipazione allo sciopero oppure non sapevano che cosa fare. Passano oltre 10 minuti e arriva il capo officina, il quale non prevedeva minimamente tale sciopero perché gli altri stabilimenti del Milanese lo avevano già effettuato alle 10. Ordinò ai capi reparto di convocare tutti gli operai in cortile perché doveva parlarci. A quell’epoca il regime aveva fatto affiggere dovunque dei cartelli che contenevano i seguenti slogan: «Qui non si fa politica», «Qui non si parla di politica», «Taci il nemico ti ascolta». Quando fummo tutti riuniti il capo ci disse: «che cosa avete combinato? Non sapete che finirete davanti al tribunale militare?». Infatti, costruivamo macchine utensili per l’apparato bellico, quindi eravamo soggetti alla legge marziale. Alcuni operai fecero presenti le nostre rivendicazioni ed egli garantì il suo interessamento e ci invitò a riprendere il lavoro. Rientrati in officina, fu ordinato a un operaio di riattivare l’energia elettrica, ma questi, pur essendo iscritto al partito fascista, ribatté che l’energia elettrica non l’aveva staccata lui e quindi si rifiutava di riattivarla. Il giorno successivo la direzione lo licenziò in tronco.
Alla Borletti lo sciopero si protrasse per cinque giorni consecutivi, paralizzando letteralmente la produzione. Massiccia fu l’adesione delle lavoratrici. Alle officine Fratelli Borletti lo sciopero iniziava il 25 marzo alle ore 10. Erano le donne del reparto spoletteria a dargli il via. Le donne del reparto non si accontentavano di cessare di lavorare: esse manifestavano rumorosamente i motivi del loro sciopero: «basta con la miseria, scioperiamo tutti. Vogliamo vivere in pace, vogliamo il caro vita. Vogliamo l’aumento delle razioni base di viveri». Particolarmente significativo fu l’episodio del 28 marzo, quando 162 operaie si erano rifiutate di riprendere il lavoro, nonostante il tentativo «patetico-patriottico» delle autorità fasciste di sollecitare le maestranze a riprendere il lavoro:
Rimasi impressionata dallo sciopero del marzo 1943 – racconta Elvira Barili – e in particolare quando, al quarto giorno di sciopero, i fascisti portarono in giro per la fabbrica con carrozzine e stampelle, un gruppo di mutilati di guerra sollecitando gli operai a riprendere il lavoro e a produrre le spolette, senza le quali i cannoni non potevano sparare. A questo punto le donne insorsero, urlando che rispettavano quei mutilati ma che non volevano avere i loro figli e i loro mariti in quelle condizioni e che volevano la fine della guerra, la fine dei lutti e della miseria.
Altrettanto riuscito fu lo sciopero del 25 marzo alla Face, che si fermò di nuovo il giorno successivo, «in segno di protesta per l’arresto, eseguito nella notte precedente, dalla polizia di alcuni operai fra i più turbolenti della precedente dimostrazione». Ecco il racconto di Giulia Cortivo, una delle promotrici:
Eravamo 1500 donne e 1200 uomini. Vi erano in quel periodo molti compagni e compagne che si riunivano in fabbrica guidati da Peppino Craveri. C’era un clima molto teso per la prepotenza dei fascisti. Il 23 marzo 1943 uscimmo dalla fabbrica con cartelli e striscioni che inneggiavano alla pace e alla giustizia: «vogliamo la pace», «vogliamo pane per i nostri figli». Il gruppo dei fascisti che lavorava in fabbrica ci minacciò di rappresaglie, ci presero a calci e a pugni, ordinandoci di tornare al posto di lavoro. Il giorno dopo uscimmo dai reparti, ma chiusero i cancelli e non ci fecero uscire in strada. Il 25 iniziò il vero sciopero: Craveri tolse la corrente a tutti i reparti. Noi donne restammo davanti alle macchine fino a quando non ci vennero a prendere i fascisti e ci portarono nel cortile della fabbrica, dove parlò un caporione venuto dalla casa del fascio. Fummo accusate di sabotaggio. Il caporione disse che il nostro non era uno sciopero per il pane, ma uno sciopero politico e noi ci ribellammo: rispondemmo urlando che avevamo fame e volevamo il pane, che i loro camerati avevano ammazzato e mangiato tutti i conigli ed i maiali allevati in fabbrica, che noi non avevamo i soldi per procurarci il cibo con la borsa nera. Fummo colpite coi calci del fucile e una nostra compagna cadde svenuta. Mentre i fascisti portavano Craveri sul cellulare, noi ci armammo di scope e bastoni e riuscimmo a mettere in fuga i fascisti. Il capo del personale rivelò ai fascisti nomi e indirizzi di coloro che riteneva organizzatori dello sciopero. La sera stessa fummo prelevati dalle nostre case. Vennero anche da me, vennero in quattro e pistole alla mano, mi fecero scendere di corsa dal secondo piano e salire su un camion. Ci portarono tutti a San Vittore, dove in seguito fummo raggiunti da tutti gli altri. I compagni rimasti in fabbrica organizzarono una sottoscrizione tra i lavoratori e ci fecero pervenire del cibo, presto però vennero scoperti e otto di loro ci raggiunsero in carcere. A San Vittore, durante la nostra mezz’ora d’aria, guardati a vista dai fascisti armati, cantavamo l’inno dei lavoratori e bandiera rossa. Ci tennero in carcere due mesi, dopo i quali ci ripresentammo al lavoro: ma ci avevano licenziato. Le mie compagne si rassegnarono, ma io andai dal capo del personale, e forte della mia esperienza in carcere e di tutto quello che avevo sofferto, pretesi e riottenni il posto in fabbrica; poi con l’aiuto dei compagni cominciai l’attività clandestina contro fascisti e tedeschi.
Le reazioni delle autorità furono quindi durissime: minacce di fucilazione, licenziamenti, arresti e denunce al Tribunale speciale, 370 sarebbero stati gli arresti e le condanne che seguirono gli scioperi in tutta la Lombardia. Una copia del decreto di citazione a carico di 50 operai presso il Tribunale militare territoriale di Milano ci fornisce non solo i nominativi di molti operai accusati di essere i promotori dello sciopero, molti dei quali saranno anche i protagonisti della Resistenza dopo l’8 settembre, ma anche i nomi di numerose fabbriche di Sesto e della provincia milanese, a dimostrazione che lo sciopero aveva coinvolto anche i centri minori. Massiccia fu la mobilitazione delle donne davanti al Palazzo di Giustizia, dove si era svolto il processo nel giugno 1943, durato 6 giorni. Il giorno dell’inizio del processo le donne occupano al mattino presto i gradini del Palazzo di Giustizia: sono già lì quando arrivano gli operai ammanettati. Sono momenti drammatici, tra lacrime, urla, invettive contro il fascismo e la guerra. Il processo dura sei giorni e tutti i giorni le donne, alcune con i bambini, sono sui gradini del Palazzo di Giustizia, protestando perché non possono assistere al processo. Solo il sabato, giorno della sentenza, i fascisti lasciano entrare ai familiari.
Conclusioni
Gli sciopero del marzo 1943 si distinsero dalle proteste precedenti per l’ampiezza e il carattere comune delle rivendicazioni e delle forme di lotta: fermata del lavoro a orari prestabiliti, richiesta del pagamento delle 192 ore, dell’aumento del salario, dell’aumento della razione base dei generi alimentari, della pace. Proprio la parola d’ordine «vogliamo pane e pace» è un binomio che combinava i bisogni elementari e le richieste economiche con una presa di posizione politica contro la guerra e il fascismo. Fu il primo atto di resistenza di massa, che innescò un ciclo di lotte e scioperi politici culminato con lo sciopero generale insurrezionale del 25 aprile 1945. Alla classe operaia gli scioperi di marzo diedero innanzitutto la coscienza della sua forza, il valore degli strumenti di cui disponeva e, soprattutto, la consapevolezza dell’impossibilità di ottenere in modo diverso dalla lotta una risposta equa alle sue primarie esigenze di sopravvivenza fisica e di dignità umana. Questa forma di coscienza di classe s’incontrerà con le istanze ideologiche e con le strategie politiche di quelle forze antifasciste (socialiste, comuniste, azioniste) che, pur in modi e in misure differenti, individueranno nella classe operaia il principale soggetto della lotta di Liberazione e della trasformazione della società.
di Roberta Cairoli