Giorgio Bassani, Una notte del ’43, Einaudi, Torino 1956

Forse nessuno, fra quanti hanno scritto e testimoniato sulla nostra storia recente, ha finora saputo restituirci gli anni del fascismo o della guerra, quel clima di arbitrio, truculenza, terrore, meglio di Giorgio Bassani con questo magistrale racconto pubblicato per la prima volta sulla rivista «Botteghe Oscure» nel 1955.

Classe 1916, giornalista (collaborò a riviste e quotidiani, da Nuovi Argomenti a Il Mondo e Il Corriere della Sera), direttore editoriale per Feltrinelli (riuscì a far pubblicare Il Gattopardo e, in anteprima mondiale, Il dottor Živago), sceneggiatore (per Luchino Visconti), cinque anni prima de Il giardino dei Finzi Contini – suo massimo successo editoriale – all’interno della raccolta di racconti Cinque storie ferraresi, Giorgio Bassani rievoca un fatto di sangue avvenuto nella sua città, Ferrara, e di come quel fatto ne abbia cambiato il volto per sempre.

Oggi lo potremmo definire quasi un instant-book perché, in poco più di una sessantina di pagine Una notte del ’43 (nel 1960 trasferito sul grande schermo da Florestano Vancini, tra gli interpreti Gino Cervi ed Enrico Maria Salerno – alla sceneggiatura collaborò anche Pier Paolo Pasolini), Bassani ricostruisce con dovizia di particolari una delle pagine più truci della sua città natale (pur posticipandola di un mese). Il barbaro e vile assassinio di undici persone, tutte considerate avversarie del regime fascista, prelevate a notte fonda in parte dalle carceri di via Piangipane (“frequentate” anche dallo scrittore, ebreo ed attivo antifascista) e in parte dalle loro case, e poi fucilate per rappresaglia in corso Roma, dove «i segni dei proiettili si vedono ancor oggi butterare qua e là l’antica spalletta contro la quale furono allineati i condannati a morte».

Il racconto comincia da lontano, con una voce narrante che sembra suggerire un itinerario “turistico” sotto i portici, tra i monumenti, con una pacatezza stilistica che a tratti infastidisce. Un espediente narrativo per portare il lettore, «un estraneo, un forestiero, uno che non può capire», davanti ad un dato di fatto.

Di quali massacri immaginari non sono responsabili la noia e l’ozio della provincia? È come se la pietra grigia del marciapiede dall’altro lato del corso possa essere squarciata, d’un tratto, dall’esplosione di una mina, di cui il piede del forestiero abbia percosso inavvertitamente il detonatore. O come se una rapida sventagliata della stessa mitragliatrice fascista che sparando proprio di lì, da sotto il portico del Caffè della Borsa, abbatté undici cittadini, possa far compiere all’incauto passante l’identica breve, orribile danza fatta di sussulti e contorsioni, che certo compirono coloro che la storia ha ormai consacrati quali le prime vittime in ordine di tempo della guerra civile italiana.

Per quanto lontano dalla sua città, che abbandona dopo la breve esperienza detentiva (giugno-luglio 1943) per spostarsi prima a Bologna, poi a Firenze (dove prosegue il suo impegno antifascista frequentando clandestinamente gli amici del Partito d’Azione, come Ragghianti e Calamandrei) e infine a Roma (dove abita dalla fine del ’43 e dove morirà nel 2000), Bassani vi ritorna sul filo della memoria. E, quasi in punta di piedi, ne rievoca la dimensione umana e civile, intellettuale e politica: quella di una città che nel giro di pochi anni si lascia irretire da un conformismo generalizzato verso il regime per ritrovarsi «in un inferno, circondati da disfattisti, da sabotatori, da spie».

La trama del racconto è semplice: i portici di Ferrara, un muro, una fucilazione, una farmacia, lo scherano fascista (Carlo Aretusi, detto Sciagura), un unico testimone (Pino Barillari), seduto in poltrona al davanzale di una finestra di corso Roma (sembra quasi di essere sul set di La finestra sul cortile), a pochi metri dal caffè della Borsa, con i tavolini all’aperto e qualche avventore, quasi come in una fotografia del tempo che fu.

Poi, con il terzo capitolo, Bassani ci fa precipitare di colpo sul luogo del misfatto.

Chi non ricorda a Ferrara la notte del 15 dicembre 1943? Chi potrà mai dimenticare, finché avrà vita, le lentissime ore di quella notte? Fu una veglia angosciosa, interminabile, per tutti: col cuore che sobbalzava ogni minuto al crepitio delle mitragliatrici, o al passaggio repentino, anche più fragoroso, dei camion carichi di uomini armati. «A noi la morte non ci fa paura / viva la morte e viva il cimitero» cantavano invisibili nel buio.

Per quanto decida di modificare alcuni nomi (il noto gerarca fascista Ghisellini, divenuto “il console Bolognesi”), evitando di citarne altri (come i compagni di lotta, l’avvocato Teglio e il procuratore della Repubblica Colagrande), la penna di Bassani si concentra non solo su quello che accade quella notte del ’43, ma soprattutto sul processo che venne imbastito dopo la Liberazione contro i mandanti e gli esecutori, con un esito finale inimmaginabile. In queste pagine, condite a tratti da quell’ammiccante perbenismo di provincia per tutto quello che riguarda le trame tra le lenzuola, c’è l’Italia intrallazzona. Quella di chi, come il Barilari, non nasconde di aver partecipato, sì, ma solo «per far numero a quella gran pagliacciata quale ormai stava rivelandosi la marcia su Roma». L’Italia degli approfittatori, l’Italia dei violenti e quella dei vigliacchi («che cosa c’era da fare, se non cedere?»); l’Italia che gonfia il petto e l’Italia che si smonta; l’Italia che grida e l’Italia che tentenna.

Il giro di boa arriva quando viene ucciso l’ex segretario federale cittadino.

Nessuno andò a letto, nessuno dormì. Cosa sarebbe accaduto? Le previsioni variavano, secondo i temperamenti e le esperienze. La città risuonava di colpi d’arma da fuoco e di lugubri canti che parlavano di morte e di cimiteri. Ma non era da pensare seriamente che i fascisti volessero effettuare un giro di vite vero e proprio […]. Non c’era da temere. Facevano un po’ di baccano, i fascisti, si capisce; le facce feroci; andavano attorno col teschio sul berretto […]. Poveri diavoli, i fascisti. Bisognava un po’ mettersi anche nei loro panni.

È rappresaglia. Sei camion – quattro targati Verona e due Padova – setacciano la città. Sgommate, canti e spari echeggiano tutta la notte, per poi dileguarsi alle prime luci dell’alba, «come se il buio medesimo col quale erano venuti li avesse risucchiati con sé». Bassani riavvolge il nastro, ricostruisce la mattanza. Immagina le riunioni, gli sguardi, gli equipaggiamenti utilizzati, con il mitra ad armacollo e alla cintura il pugnale, la pistola e un paio di bombe a mano, poi il berretto alla raffaella della Decima Mas calcato sulle ventitré. E poi la rabbia, soffocata, di Sciagura: «Talpe maledette, vigliacci di borghesi! Vi farò vedere io, vi stanerò io…».

La minaccia diventa realtà, con la ferocia gratuita di cui è costellata la storia d’Italia durante quei terribili anni di dittatura. In strada, vicino a quel muro crivellato di proiettili, undici corpi giacevano bocconi, quasi indistinguibili, perché erano caduti abbracciandosi, facendo «uno stretto viluppo di membra irrigidite». Undici corpi sul selciato, undici vittime, undici vite spezzate.

Poi si cerca di tornare alla normalità. «Ma si può dimenticare? È sufficiente desiderarlo?», si chiede Bassani. La normalità agognata è per molti, ma non per tutti; sicuramente non per l’unico testimone, il farmacista paralitico, i cui sonni agitati vengono abitati e tormentati, per mesi e mesi, dai fantasmi di quelle ore disperate.

Come se l’immaginazione collettiva – allo stesso modo di chi, per punirsi, ogni tanto fa sanguinare una ferita malchiusa – avesse bisogno di tornare sempre là, a quella notte tremenda, e di rivedere uno per uno i volti degli undici fucilati, quali, nel momento supremo, solamente gli occhi di Pino Barillari avevano potuto vederli.

Venne infine la Liberazione e la pace. Il processo che viene imbastito nell’estate del ’46 è un atto dovuto, il cui esito è dato quasi per scontato. Eppure, i camerati rabbiosi di quella notte (una ventina di presunti autori del massacro), riuniti «nel gabbione degli imputati» sono tranquilli, fin troppo. Sembra di rivivere uno dei tanti processi per mafia, dove lo zoom dell’obiettivo si concentra su un unico individuo – Sciagura – sul suo volto, sul suo sguardo, sul suo sorriso ironico e spavaldo.

Di cosa lo si incolpava, dopo tutto? Di aver fornito la lista delle undici vittime e di aver diretto personalmente l’esecuzione di quei disgraziati. Ma prove occorrevano, non semplici induzioni. Contavano le prove e i fatti. Fuori i testimoni!

Lui e i suoi sgherri contano di cavarsela per insufficienza di prove. Non sanno che a poche centinaia di metri da quell’aula, dietro i vetri di quella finestra, vive un uomo tormentato, che ogni giorno fa i conti con la propria coscienza. O così dovrebbe essere, così lo immaginiamo. E invece no. Il colpo di scena è dietro l’angolo, in quell’unica parola sussurrata in un soffio.

Quell’unica parola, «Dormivo», d’un tratto, come la puntura d’uno spillo in una vescica gonfia d’aria, aveva risolto in nulla l’enorme tensione generale; un attimo prima che aprisse la bocca, il paralitico aveva girato torno torno gli occhi spalancati (il silenzio era assoluto, nessuno respirava): proprio in quel punto qualcuno aveva visto qualcosa come una rapida, furtiva smorfia propiziatoria: e un ammicco, già, un impercettibile ammicco d’intesa.

di Claudio A. Colombo


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