Mario Bonfantini, Un salto nel buio, Einaudi, Torino 1971

È un romanzo strano (ma autenticamente autobiografico) quello che Mario Bonfantini pubblica nel 1959 con Feltrinelli e successivamente da Einaudi, ma nella collana “Letture per la scuola media”, ventesimo titolo dopo quelli – nell’ordine – di Carlo Cassola, Mario Rigoni Stern, Primo Levi, Italo Calvino, Anna Frank, Emilio Lussu e tanti altri protagonisti di quella stagione che non ci stancheremo mai di chiamare orgogliosamente Resistenza, lotta per la libertà, guerra al nazi-fascismo (di cui anche Bonfantini riconosce subito «il senso dell’assolutamente disumano, del demoniaco»).

175 pagine (inclusa l’avvertenza dell’autore, le note storiche e una breve nota biografica) per mettere nero su bianco quello che visse in prima persona, quel “salto nel buio” fatto nella primavera-estate del 1944, quando Bonfantini – figura-simbolo di quanti, anche dopo l’8 settembre 1943, mantennero la loro ferma posizione contro il regime mussoliniano – riuscì a scappare da uno di quei carri piombati (lui lo chiama “il carrozzone”) che lo avrebbe dovuto portare, insieme a tanti compagni, in Germania (non è chiaro se in un campo di lavoro oppure in un lager vero e proprio). Di questa sua intenzione (la fuga), prim’ancora di condividerla con i compagni di prigionia, ne parla subito fin dalle prime pagine del romanzo:

L’idea di andare in un campo di lavoro in Germania con quei tedeschi, coi loro occhi vuoti e i loro movimenti disumani da automi, non aveva niente di rassicurante e l’idea di piantarli in asso prima che avessero l’occasione di manifestare quella lor sospettata inumanità, poteva essere un’idea salutare…

Nato a Novara nel 1904, una famiglia militante alle spalle (il padre era “una bandiera” del socialismo), scrittore e critico letterario, appassionato di ciclismo e alpinismo (passioni che gli permisero di reinventarsi come giornalista sportivo durante il ventennio per La Stampa), Bonfantini è uno dei tanti “volontari della libertà” di cui si è persa la memoria. Tranne, forse, gli abitanti della Valdossola che, dopo le vicende narrate nel suo primo romanzo (in seguito, sullo stesso tenore, pubblicò anche una raccolta di racconti intitolata La svolta), lo videro protagonista come uno dei sette commissari che ressero la Giunta provvisoria di Governo dell’Ossola e della Zona liberata, che ancora oggi è considerata «una piccola repubblica modello divenuta leggendaria» (a riguardo si consigliano i volumi scritti da Mario Giarda, in particolare La Resistenza nel Cusio Verbano Ossola del 1975).

È un romanzo strano. È strano perché si concentra solo su un periodo limitassimo (la primavera-esatte del 1944) e tralascia di raccontare le sue scelte, prima e dopo l’armistizio annunciato l’8 settembre 1943, quando decise di entrare, sull’esempio del fratello Corrado, nelle Brigate Matteotti. E sorvola anche sul suo arresto e la sua detenzione nel carcere di San Vittore, di cui però ricorda l’incontro e la breve amicizia con il compagno Giuseppe Verri, uomo di fiducia di Parri. Qui la narrazione diventa angosciante, e rimarca le responsabilità dei tanti eredi mussoliniani che oggi fingono o cercano di dimenticare di cosa si macchiarono, consapevolmente e scientemente, i loro predecessori, alleati dei torturatori nazisti.

Col suo corpo striminzito e il suo magro viso mangiato dai peli d’una barba di dieci giorni e illuminato da due occhi bruni da cui traluceva la leggendaria bontà milanese, ogni volta che [Verri] tornava semivivo e tremante d’orrore da un interrogatorio, io lo confortavo. Lo massacravano di botte per fargli dire come si facesse a trovare Ferruccio Parri [ma Verri] che lo sapeva, sapeva altresì che non l’avrebbe mai detto, anche a costo di farsi ammazzare, [anche a costo] di finire a quel modo, macerato dalle percosse e poi, quando non fosse più che una carcassa, sbattuto contro muro e una palla nel cranio, a ventott’anni, con la sua povera mammetta che avrebbe aspettato il suo ritorno là, nelle loro quattro stanzette di via Fiamma 46.

È uno dei pochi passi in cui Bonfantini sembra pensare al destinatario del suo romanzo (Premio Bagutta nel 1960), ai ragazzi di terza media nella cui collana il romanzo è stato inserito. Ragazzi che difficilmente potevano sapere, immaginare o cercare di immedesimarsi (esattamente con le difficoltà che vivrebbero, purtroppo, oggi, in questi nostri tempi travagliati) nella vita di uomini e donne come lui, che vivevano da anni sotto la cappa del fascismo, con le occhiate inquisitorie per la strada, le perquisizioni notturne, le botte gratuite, le spie, i delatori ad ogni angolo, e una cappa brutale di leggi arbitrarie e liberticide, in sfregio di qualsiasi vivere civile.

Dopo qualche settimana a San Vittore Bonfantini è tradotto nel campo di Fossoli, dove finisce nella “Sezione dei politici” (la sua baracca è la 17A), in cui (a sua detta immeritatamente) viene “eletto” come uno dei capi, figura di riferimento per scelte e decisioni “comunitarie” (anche se non sempre condivise, anzi spesso messe in discussione). Ed è a questo punto della narrazione, davanti ai gruppi di ebrei che continuamente venivano deportati (con la certezza matematica che «i tedeschi tiravano, in un modo o nell’altro, ad eliminarli»), è a Fossoli che nella mente di Bonfantini si fa largo l’idea e poi la decisione di evadere («ne avevo abbastanza di stare in gabbia e volevo rimettermi a far qualcosa prima che finisse la guerra»), cercando di convincere il maggior numero di compagni da cui, inevitabilmente, sarà destinato a dividersi, per sempre (come Mino Steiner, trucidato a Ebensee, un sottocampo di Mauthausen). Perché la brutalità delle SS è spesso improvvisa e non conosce, come sappiamo bene, alcuna pietà.

Eravamo ben lungi da sospettare che di lì a due o tre giorni il nostro Gasparotto sarebbe stato ammazzato come un cane appena fuori dal campo, sull’orlo di una strada, e poco dopo settanta degli altri, massacrati per un capriccio di rappresaglia: cosa che, quando si venne a sapere, finì per tingerci cupamente di sanguigno il ricordo di quel campo di Fossoli che era stato invece per noi, finché c’eravamo rimasti, una sorprendente parentesi di pace e di vita cameratesca.

È un romanzo scritto benissimo, con uno stile narrativo amabile e scorrevolissimo, che evidentemente Bonfantini aveva perfezionato negli anni in cui era stato uno sceneggiatore per il cinema, lavorando fianco a fianco di Mario Soldati, tanto da esser stato premiato al Festival del Cinema di Venezia del 1941 per la miglior sceneggiatura (quella di Piccolo mondo antico di Fogazzaro).

La prima parte del viaggio (fino a Carpi) è in autobus, a gruppi di cinquanta circa per mezzo. Ed è qui che in Bonfantini si fa largo un unico pensiero: fuga, fuga, fuga. All’interno dell’autobus c’è un solo soldato, il guidatore, apparentemente senza armi, e poi altri due: uno posizionato vicino alla porta anteriore, l’altro sul tetto. Sembra un gioco da ragazzi sorprenderli, e scappare: «anche se mi pareva impossibile non fosse già venuto in mente a qualcuno». Tutti concordano, bisogna tentare, ma pochi minuti dopo la partenza, non succede ancora nulla. Un’automobile li tallona, troppo rischioso passare all’azione…

A Carpi, il trasferimento sul vagone merci è immediato. Tutti vengono spinti e obbligati a salire sul loro convoglio, un carrozzone caldo come un forno e quasi senz’aria.

I due portelloni erano stati accuratamente chiusi, assicurati con un grosso gancio e le sole aperture che ci restavano erano due finestrini quadri di meno di mezzo metro di lato. Una delle due finestre era chiusa da una gelosia di ferro inchiavardata a fessure strettissime, e l’altra soltanto era aperta, cui ci affacciavamo a turno boccheggiando, nella terribile afa del mezzogiorno.

Si riparte. Una sosta veloce a Mantova, dove il carrozzone viene ulteriormente sigillato, con filo spinato, poi l’arrivo a Verona, in cui il convoglio staziona parecchio tempo, ore durante le quali il tarlo della fuga continua a martellare. «Non era meglio agire sul posto, nel cuore della notte, aprirsi un varco nel carrozzone e filar via tra i binari ciascuno per conto suo?». I controlli dei tedeschi però sono improvvisi.

L’atmosfera si fece tesa. Drammatica. Fu un gran correre di passi pesanti, chiodati, su e giù lungo il convoglio, con un agitare di lampade elettriche, le quali arrivavano talvolta a infilare col loro raggio il nostro finestrino. [Eppure] bisognava decidere con che sistema saremmo usciti di lì. […] Dunque eravamo proprio decisi ad andarcene ad ogni costo, noialtri, le teste calde. Non avevamo forse sentito, al momento di ingabbiarci lì dentro, quello che aveva detto l’interprete: «E attenti a non tentar di scappare eh! All’arrivo per ognuno che manca ne saran fucilati dieci».

Segue un improvvisato referendum, in cui la minoranza proclama «il diritto di non lasciarci la pelle per la fissazione di qualche esaltato». Ma il dado è tratto, non è più tempo di tentennamenti e indecisioni, anche perché «se si stesse a pensare minutamente a tutte le conseguenze immaginabili e possibili dei nostri atti si finirebbe per non combinare più nulla a questo mondo».

Il resto del romanzo è un po’ sopra le righe, diviso tra le peripezie della fuga (che solo Bonfantini e pochi altri riescono a compiere), un po’ d’introspezione, il racconto dei vari spostamenti, con continui riferimenti alla natura e al paesaggio (come se si trattasse del Viaggio in Italia di Goethe) e rare incursioni verso la fase politica del tempo. Come quando – in due momenti differenti – l’autore, ormai fuggiasco, si ritrova a interloquire con due preti, i due opposti aspetti della Chiesa, quello evangelico e quello politico.

Il primo è Don Giuseppe Ferrari trasferito d’urgenza da Bolzano nel minuscolo paesello di Corné (dopo una predica che ricorda quelle al vetriolo di padre David Maria Turoldo), con cui Bonfantini si ritrova a suo agio, perché per entrambi la politica, anzi l’antifascismo, «è una vocazione, il senso d’una stortura contro cui è necessario combattere, indipendentemente da ogni idea o dottrina».

Aveva incominciato fin da principio, in ogni occasione, in confessionale o in conversazione e persino – con riguardo – nelle prediche, a dimostrare come non si può essere fascisti e restar cristiani, cioè persone dabbene, uomini e non bestie!

Di tutt’altro stampo il secondo prete, don Pietro Inghirani, rintanatosi nella quiete della parrocchia di Prada («quattro casette in tutto»), sicuro che solo la Chiesa, e la fede, possano risolvere i mali del mondo, «i dolori e gli orrori che da troppi secoli l’uomo continua ad infliggere al suo prossimo». Non importa se la Chiesa negli ultimi anni fosse venuta meno a se stessa, evitando di condannare subito «ogni atrocità e violenza, ogni delittuosa dottrina anti cristiana, tutti i fascisti e tutti i nazisti». Soltanto in essa c’è il futuro, e la salvezza. Bonfantini è esausto. Le convinzioni di questo vecchio prete (per quanto non abbia in sé «nulla di gesuitico») lo irritano e lo disgustano.

In quella gran guerra che tutti combattevano contro la Germania nazista, contro tutti gli orrori che non solo il nazismo praticava, ma predicava come giustissimi e sacrosanti, di quale parte, nel faro intimo del suo animo, si augurava lui la vittoria? O almeno, di chi paventava di più la sconfitta? […] Egli vedeva, in sostanza, il pericolo più grave per l’avvenire del cristianesimo, cioè dell’umanità, nella sconfitta del nazismo, perché avrebbe spianato la via al comunismo. Mentre sotto il nazismo, o il fascismo, a dispetto di tanti loro errori, la Chiesa poteva sempre in qualche modo salvarsi.

Sembrerebbe l’amara conclusione di quanti, al posto di un coraggioso salto nel buio, trovano sempre una via d’uscita, di comodo e senza fatica. Invece Bonfantini passa oltre, guarda al futuro, prosegue il suo cammino e cerca la sua rivincita: quella che in un anno solare portò alla vittoria sul nazi-fascismo e alla nascita della Repubblica, con onore, con orgoglio, contro ogni viltà, contro ogni vigliaccheria. «Dopo tutto – è la sua conclusione – bastava un po’ di coraggio per essere liberi».

di Claudio A. Colombo

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