Giovanni De Luna, Una domenica d’aprile. Piazzale Loreto, 1945: una fine, un inizio, UTET, Torino-Milano 2025

Si celebra, quest’anno, un anniversario importante: l’ottantesimo dalla Liberazione. E lo si celebra in un contesto particolarmente difficile: la guerra è ritornata prepotente sul territorio europeo con l’invasione russa dell’Ucraina; la distruzione di Gaza e dei suoi abitanti seguita al massacro del 7 ottobre 2023 non lascia intravvedere speranze; in Italia il ritorno al governo degli eredi del fascismo – cui fa da corollario l’ascesa della destra mondiale, con la deriva trumpista degli USA – sconcerta e impone una forte vigilanza democratica. É dunque un anniversario che chiede una presenza attiva, militante: ognuno con i propri strumenti e le proprie capacità. Anche, e forse soprattutto, gli storici sono chiamati a svolgere appieno il proprio ruolo. È questo, io credo, il senso profondo del nuovo libro di Giovanni De Luna, il quale, riprendendo molte delle sue riflessioni storiografiche, ritorna sul momento conclusivo del fascismo in un volumetto che ripercorre la giornata del 29 aprile 1945 a Milano, cercando di individuarne il significato: fine e inizio, attimo costitutivo dell’Italia post bellica.

È frase comune, spesso ripetuta, che piazzale Loreto sia il voltafaccia di un popolo fino al giorno prima fascista e che si scopre antifascista una volta caduto il dittatore, secondo la “tradizionale” vocazione opportunista degli italiani: la folla acclamante si trasforma nella folla che cerca vendetta, omettendo la propria responsabilità nell’aver garantito il consenso al regime. Ma, e qui è il punto dirimente, è la stessa folla?

De Luna sceglie di tornare dunque sulla “scena finale” del fascismo, ricollocandola sia nel contesto più ampio dell’ultimo anno di guerra, sia ripercorrendo le ore di quella domenica di aprile in una Milano primaverile e finalmente libera. I tre momenti cruciali su cui lo storico si sofferma sono il 10 agosto 1944, con la fucilazione e l’esposizione sacrilega dei corpi dei quindici partigiani, i quindici martiri di piazzale Loreto. I giorni del dicembre successivo, quando Mussolini torna a Milano per tentare una riaffermazione della propria leadership e tiene l’ultimo, famoso discorso al Teatro Lirico. Infine, naturalmente, l’ultima volta di Mussolini in città, con l’esposizione del suo corpo (con quello di Claretta Petacci e alcuni gerarchi) il 29 aprile in piazzale Loreto, ribattezzato piazzale Quindici Martiri. In tutti e tre questi eventi, la folla è protagonista. Ma la folla è composta da individui, e ognuno di questi ha sulle spalle  – oltre al ventennio del regime e ai cinque anni di guerra – i venti terribili mesi dell’occupazione nazista che costringono i milanesi all’esperienza della fame, del freddo, dei bombardamenti, della morte come costante compagna di ogni azione quotidiana (si veda in proposito Marco Cuzzi, Seicento giorni di terrore a Milano. Vita quotidiana ai tempi di Salò, Neri Pozza 2022). Se è pur vero che, nonostante tutto, in città si cerca di continuare a vivere con una certa normalità, è d’altra parte innegabile l’impatto violento dell’occupazione, lo stato di continua tensione, paura, terrore che le forze nazifasciste impongono ai milanesi. In questo “scenario” si collocano i tre momenti scelti da De Luna come eventi in cui si addensano folle di milanesi: «quella attonita e muta del 10 agosto 1944, l’altra festante e in divisa del 16 dicembre 1944 e, infine, quella rabbiosa ed esultante» del 29 aprile (p. 11). Grazie all’uso della documentazione conservata all’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, gli è possibile raccogliere le voci, le sensazioni, i dettagli di chi compone quelle moltitudini, entrando e uscendo da una dimensione che si ricompone continuamente. Analizzarne i comportamenti, gli ondeggiamenti, le composizioni e le scomposizioni è probabilmente l’unico modo per tentare di comprendere il senso di quello che accade il 29 aprile, quando i corpi dei gerarchi vengono esposti: il dileggio, lo spregio, la violenza, gli insulti più volgari, nulla viene risparmiato al duce del fascismo e a Claretta Petacci. Perché? Perché quell’accanimento, quella scena terribile che lo stesso Parri ebbe a definire «macelleria messicana»? Perché se nessun dubbio vi è sulla decisione di giustiziare Mussolini, sono invece molti tra i membri del Comitato di Liberazione Nazionale a mostrare da subito sconcerto e disgusto per quel che accade in piazzale Loreto. Così, se è il sindaco socialista Antonio Greppi a ordinare la rimozione dei corpi, certo la sollecitazione a  intervenire sembra venire da una pluralità di voci: dal cardinale Schuster al CLNAI, da Riccardo Lombardi appena insediatosi come prefetto a un colonnello dell’esercito americano in rappresentanza del governo militare alleato. Come sottolinea De Luna, «da tutte le componenti di quello che presto sarebbe diventato l’ordine costituito (il governo militare alleato, i partiti antifascisti, la Chiesa), arrivò l’alt alla scena granguignolesca di piazzale Loreto» (p. 101).

E dunque cosa accade, in quelle ore, dopo l’arrivo del camion che trasporta i corpi e li scarica in piazzale Loreto, esattamente là dove erano stati esposti i quindici partigiani, con la folla che affluisce da ogni angolo della città? È vendetta? Furia? Ipocrisia? Curiosità macabra? Poiché se è una  «macelleria messicana» a decretare la fine del fascismo, allora a quello scempio è necessario dare un senso: non è pensabile archiviarlo come un evento folle e macabro senza alcun legame con ciò che lo ha preceduto. C’è sicuramente, in quella piazza, in quelle ore, un immediato senso di liberazione che convive con l’idea che finalmente giustizia sia stata fatta. Tra la folla che sembra impazzita – urla, pianti, risate – serpeggia inequivocabilmente sollievo, rivincita, odio. La piazza raccoglie una moltitudine che esiste e «dura soltanto quella frazione di tempo necessaria al compiersi dell’evento ma che affonda le sue radici nella trama normativa della vendetta». Emerge un «ordine antico, tradizionale, un sistema di valori profondamente radicato e trasmesso dai vettori della memoria sociale e culturale» in cui si è certi dell’approvazione sociale in un momento eccezionale che garantisce l’impunità per comportamenti extra-normali (p. 129). Nell’assenza di un potere chiaramente definito, si delinea un “interregno” in cui il vecchio potere dei nazisti e dei fascisti non c’è più mentre il nuovo, quello della Resistenza e degli Alleati, non c’è ancora. In questo intervallo «la folla per un momento si riappropria della sua piena sovranità», si fa istituzione essa stessa e si abbandona ai propri impulsi, fino a che l’ordine costituito non riprende in mano la situazione con l’ordine di rimuovere i corpi. Ancora: è lo stesso spazio ambiguo, “istituzionalmente” vuoto, in cui si muovono le forze partigiane – stremate dai combattimenti, dal caos delle ore della liberazione e della fuga dei tedeschi – che fa da sfondo alla decisione di portare il cadavere del duce in piazzale Loreto. Non è un ordine che arriva dai comandi, è una scelta logica, “naturale”, che si auto impone.

Va sottolineato che nella memoria collettiva così come viene edificata nel dopoguerra, il legame strettissimo – assolutamente evidente alla coscienza dei contemporanei – tra la fucilazione dei partigiani nell’agosto del 1944 e lo scempio del corpo del dittatore va via via scemando. Prevarrà infatti, per un tempo lunghissimo, la rappresentazione di un momento macabro, indegno della storia italiana al quale non deve essere data alcuna legittimità. L’avvenimento scatenante, perciò, viene relegato alla memoria di pochi, ai legami affettivi delle vittime, impedendo così la comprensione profonda dell’evento conclusivo della storia tragica del fascismo italiano. Si rende possibile in questo modo, ancora una volta, la riscrittura della vicenda resistenziale delegittimandola e trasformando i carnefici in presunte vittime. Un tema, questo, che ci rimanda in modo pressante al nostro presente e alla necessità di una continua vigilanza democratica.

In ultimo, però, dobbiamo ricordare che in quel momento di “interregno” prima richiamato, in quella prima domenica di pace, Milano non è solo piazzale Loreto. La folla non accorre solo a toccare con la mano la morte del tiranno.  Verso mezzogiorno le strade si riempiono di folla timidamente festante a salutare l’arrivo, in piazza San Babila, della Brigata partigiana Alfredo Di Dio della Divisione Valtoce. Mentre nel primo pomeriggio, in corso Monforte, accolti con curiosità e momenti di fraternizzazione, fanno la loro comparsa i primi carri armati Sherman appartenenti alla 1a Divisione Corazzata americana, avanguardia della V Armata, che trova la città già liberata che sta ricominciando a vivere, seppure ferita e dolorante.

di Paola Signorino

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