Il nuovo film di Loach racchiude in sé tutti gli ingredienti chiave della poetica del regista britannico, e non delude le aspettative del pubblico. Dopo la presentazione ufficiale al 76° Festival di Cannes, The old oak arriva in sala e propone una storia incentrata sull’integrazione e sullo spirito delle comunità locali. Ambientato nell’Inghilterra del Nord, racconta l’arrivo di un gruppo di rifugiati siriani in una disastrata comunità di ex minatori.

La forza del racconto di Loach non è nell’ottimismo fine a sé stesso, ma nella rappresentazione cruda della realtà. Un pragmatismo fondamentale per chi vuole in buona fede affrontare le tante e delicate questioni legate all’accoglienza dei rifugiati e degli immigrati in generale, senza eccedere nel pietismo ed eludere i temi più scomodi. L’ultimo lavoro del regista sembra infatti volerci avvisare: solo accettando le sconfitte del sistema e sapendo gestire gli aspetti pratici (sociali ed economici in primis), possiamo costruire le basi per l’integrazione culturale. Non mancano le dure critiche al welfare nazionale, per cui le stese comunità ospitanti appaiono in eguali difficoltà economiche, e si sentono abbandonate dallo stato di uno dei paesi più ricchi del mondo.

Seguiremo così le vicende di Yara, giovane siriana rifugiata con la famiglia e appassionata di fotografia, che stringerà una forte amicizia con TJ Ballantine, storico barista di un pub che si porta sulle spalle tutto il peso dei suoi fallimenti, da sommare a quelli dei suoi concittadini. L’orgoglio dei figli di minatori è però ancora forte, come da tradizione locale. In terra di miniere e di aspre battaglie sindacali la comunità oggi disastrata presenta tante e inaspettate similitudini con i rifugiati siriani.

Non tutti però accettano di buon grado di accogliere i nuovi arrivati, e i pregiudizi dilagano, fino a creare spaccature e contrasti persino fra le amicizie più durature. Il razzismo c’è, e cresce come sempre alimentato dalla rabbia e dalla frustrazione per la propria condizione. TJ decide allora, con l’aiuto degli infaticabili volontari delle associazioni della zona, di ospitare una mensa nel suo locale, unico ormai rimasto aperto in città, per dare aiuto a chi ne ha bisogno, rifugiati e cittadini in difficoltà. “Mangiamo insieme, restiamo insieme”, recita infatti un antico detto. E il cibo è sempre un ottimo collante per la socialità, in tutte le culture del mondo.

Fin dai primi esordi nel 1967, Loach è stato considerato fra i più rappresentativi autori di un cinema impegnato, abile nel raccontare la solitudine dei lavoratori, lo sfruttamento, le lotte per la sopravvivenza e per la dignità. Figlio di operai, il regista inglese ha dedicato tutta la propria opera ai meno abbienti, raccontandone spesso il riscatto fra realismo e speranza. In quest’ultimo lavoro si conferma anche il sodalizio con lo sceneggiatore Paul Laverty; fra gli attori principali troviamo invece Dave Turner, Ebla Mari, Claire Rodgerson, Trevor Fox, Chris McGlade.

Fra i titoli più recenti e rappresentativi in questo senso, ricordiamo My name is Joe (1998), Bread and roses (2000), I Daniel Blake (2016) e Sorry we missed you (2019).

Coerentemente con l’impegno politico e sindacale, Ken Loach è stato spesso protagonista di rimostranze e forti prese di posizione a sostegno dei lavoratori. Nel 2016 rifiutò di ricevere il premio al Festival di Torino in aperta polemica con le amministrazioni e la direzione artistica, in solidarietà con i lavoratori sfruttati delle cooperative del settore cultura. Nel 2019, mentre si trovava a partecipare ad una rassegna presso la Cineteca di Bologna, incontrò i riders (le cui condizioni di sfruttamento hanno fatto clamore recentemente) e dei gruppi di operai di un’azienda locale in crisi.

Esponente storico del Partito Laburista, ha sempre mantenuto un ruolo indipendente entrando più volte in contrasto con i dirigenti della sinistra. Rimane ad oggi un attento osservatore delle dinamiche sociali, un artista credibile e stimato dal pubblico.

di Alessandro Calisti

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