Chiara Colombini, Storia passionale della guerra partigiana, Laterza, Roma-Bari 2023
Indagare i sentimenti è un compito che solitamente non è ritenuto di pertinenza degli storici: la letteratura, la poesia, l’arte, la psicoanalisi, sono convenzionalmente considerati gli strumenti più adeguati per sondare paura, coraggio, orgoglio, rabbia, odio, nostalgia, amore. Eppure se, come ci ricorda Marc Bloch, «l’oggetto della storia è per sua natura l’uomo», (Apologia della storia, Einaudi, p. 41), allora l’opportunità – o meglio, la necessità – di occuparsi di ciò che «accade nell’animo e nel comportamento degli esseri umani quando vivono in circostanze eccezionali» (Colombini, p. 3) ci appare del tutto coerente con il lavoro storiografico.
Nella storia della Resistenza le motivazioni ideali e politiche che hanno condotto ad una scelta combattente sono state a lungo analizzate e raccontate poiché sono, naturalmente, fondamentali per ricostruire il grande quadro della guerra partigiana in tutte le sue implicazioni: organizzative, politiche, militari, progettuali. Le grandi passioni che hanno reso possibile quel fenomeno complesso e ricchissimo di esperienze e sfumature che è stata la Resistenza italiana ed europea sono state dunque al centro delle riflessioni successive e della ricerca storiografica, come è giusto che sia. Il libro di Chiara Colombini, Storia passionale della guerra partigiana, evidenzia con grande efficacia come, invece, sia non solo possibile ma anzi necessario un cambio – o meglio, un affiancamento – di prospettiva che permetta di raccontare di nuovo e meglio la vicenda costitutiva della nostra democrazia. Cosa sarebbero gli ideali, le grandi passioni che muovono a scelte radicali, senza i sentimenti che animano ogni individuo nella sua vita concreta, nella quotidiana vicenda che si intesse di relazioni, affetti, gioie, paure, desideri? E ancora, quali possibilità euristiche ci offre l’indagare la lotta partigiana attraverso la lente delle passioni quotidiane? Il punto non è dunque fare la storia o l’analisi di che cosa sia un sentimento, come sottolinea l’autrice (p. 11), ma utilizzare questa categoria nel modo più ampio per comprendere quanto la lotta sia stata intessuta, pervasa, di sentimenti e pulsioni che tutti noi agiamo in quanto esseri umani (e, perciò, immediatamente comprensibili), in una cornice di extra-ordinarietà lunga 20 mesi. Una cornice in cui pubblico e privato, necessità politico-organizzative e sentimenti individuali si sono intrecciati e influenzati a vicenda. Un nuovo modo quindi di ripercorrere la storia della Resistenza che, ormai lontana nel tempo e per questo a tratti disumanizzata, sacralizzata o, al contrario, spesso vilipesa, la riavvicini e la renda nuovamente comprensibile e in grado di essere comunicata meglio. Una storia che diffida della retorica inutile e dannosa, ripresa invece nel suo farsi quotidiano complicatissimo, doloroso, in continua evoluzione, intessuto di paura, esaltazione, desiderio, odio. Una storia che ribolle, da cui scaturisce inarrestabile la necessità, per ogni combattente, di affrontare ogni giorno la trasformazione radicale della quotidianità, in un’interazione continua e fitta tra ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato” e intimo.
Prima – o al fianco – delle grandi cornici politiche, il lavoro dell’autrice s’interroga su cosa abbia comportato, per ogni individuo che decise di «passare dall’altra parte», la scelta di diventare un/a fuorilegge, quale intima trasformazione sia stata necessaria, quale torsione del senso comune e della considerazione di ciò che è ritenuto lecito si sia dovuta operare. Quali sono state, cioè, le umanissime passioni che hanno guidato per 20 mesi, «il tempo che hanno avuto in sorte» (p. 4), uomini e donne in un momento e in una realtà oggettivamente extra-ordinari. Partire dai sentimenti dei combattenti permette così di lasciare sullo sfondo la storia istituzionale, di cui sentiamo in ogni caso la presenza e che riguarda i partiti, le loro differenze, i compromessi politici necessari, le strategie legate alle diverse ideologie, i grandi progetti per il futuro. S’illuminano invece con contorni più netti i timori e le paure, ma anche le speranze, le aspettative che animano il quotidiano di chi combatte. Spesso s’intuiscono la nostalgia degli affetti, del tempo “di prima”, il senso di solitudine e la mancanza dell’amore condiviso e vissuto pienamente, svelando così un obiettivo primario: la speranza di un futuro in cui poter vivere una vita migliore e serena. Emerge come sentimento comune una sorta di «nostalgia della quiete di una normalità», come scrive l’autrice riprendendo una bella definizione di Claudio Pavone, un desiderio di vita di cui poter disporre liberamente che si incarna, con una espressione commovente di rara efficacia, nella necessità di «prendere il fucile per poter andare a ballare» (pp. 118-119).
Il lavoro di Colombini utilizza in larghissima parte fonti note, già ampiamente interpellate dalla storiografia: questo consente di indagarle da una prospettiva inedita muovendosi con sicurezza in un ambito di conoscenze consolidate, concentrandosi in particolare sulle fonti coeve. Le lettere personali, i diari, i carteggi delle formazioni partigiane, ricche di analisi politiche, riportano a volte notazioni intime che sfuggono al controllo, parole che nelle rievocazioni posteriori spesso vengono omesse perché ritenute superflue, o perché inevitabilmente, nel dopoguerra, farà capolino lo sguardo sistematizzante di chi “sa come è andata a finire”. Utilizzare le fonti scritte, evidenzia l’autrice, implica privilegiare chi, nella Resistenza, ha una formazione culturale (e spesso anche politica) che la maggior parte dei partigiani non ha. Ma proprio nella corrispondenza interna al movimento, nelle comunicazioni tra le gerarchie superiori e le bande attive sul territorio, emergono quei dettagli in grado di portare alla luce sentimenti profondi: timori, paure, speranze. Ma anche arrabbiature e incomprensioni, liti furibonde su questioni che a noi oggi possono sembrare marginali, eppure di vitale importanza per le formazioni combattenti poiché implicano la possibilità di continuare ad esistere o la necessità di sciogliersi. Discussioni in cui spesso si devono compiere scelte difficili e dolorose, che contemplano la necessità di uccidere e il rischio di essere uccisi.
Oltre ad essere composta da una maggioranza poco avvezza all’uso della scrittura, la Resistenza è fatta, in gran parte, da giovani. Al fianco della minoranza di antifascisti storici, colti e “anziani”, ci sono migliaia di partigiani poco più che ragazzi, molti ancora adolescenti, che non hanno una cultura politica precedente, cosa di cui a volte i dirigenti si lamentano sottolineando l’orizzonte ideale assai scarso dei loro uomini. La caduta del fascismo nel luglio del 1943, l’armistizio dell’8 settembre con la catastrofe che ne consegue e, in seguito, la chiamata alle armi della Repubblica Sociale, impongono in molti una scelta istintiva, non mediata da analisi intellettuali. “Salire in montagna” è spesso una decisione prepolitica e individuale, tanto che «pochi sanno con precisione cosa vogliono per il futuro». Eppure «tutti sanno esattamente quello che non vogliono»: la guerra, l’occupazione, il fascismo (p. 146). Su questo terreno comune avviene l’incontro tra chi è politicizzato e chi non lo è: una generazione cresciuta nell’assenza della politica matura così una nuova consapevolezza, facendo esperienza di democrazia, elaborando una coscienza politica che verrà traghettata sotto forma di partecipazione collettiva negli anni della ricostruzione. È perciò nel momento in cui la decisione individuale si affianca alla dimensione collettiva, che «l’incontro con la politica acquista il sapore di una scoperta e di una conquista emozionante» (p. 154), facendo emergere l’orgoglio di «sentirsi parte di una realtà che è intessuta di solidarietà, oltre che di coraggio» (p. 118-119). Vi sono alla base, del resto, questioni cruciali, viscerali, verità drammatiche che oggi forse fatichiamo a comprendere. Ci si batte per poter vivere, con un enorme desiderio di vita, e di vita migliore, in un contesto che prevede in ogni istante la possibilità della morte, propria e dei compagni oltre che del nemico. Ci si batte per un futuro migliore, sognato, desiderato, atteso con tutte le forze, sapendo che quel futuro potrebbe non arrivare: «si rischia di morire per poter vivere» (p. 158).
C’è poi la grandissima e ineludibile questione della violenza, sulla quale il richiamo alle pagine fondamentali di Claudio Pavone scorre costantemente sottotraccia (Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati-Boringhieri, Torino 1991). Colombini tuttavia compie un passo ulteriore, riportando nell’alveo della riflessione sulla violenza quale strumento essenziale nella scelta partigiana l’elaborazione individuale che afferisce all’intima coscienza di ognuno, cercando cioè di comprendere come ogni individuo abbia dovuto interiorizzare questo aspetto collocandolo nella propria particolare vicenda biografica. Se la specificità resistenziale risiede nell’operare una scelta di radicale diversità rispetto al nemico anche in relazione all’uso della violenza – il “noi non siamo come loro” che sottintende il rifiuto della brutalità, della vendetta, della rappresaglia, dell’assenza di regole – è chiaro però che per ognuno è necessaria una continua mediazione tra paura, odio, intransigenza, disperazione, sentimenti imposti dal “presente velenoso” che tocca vivere. Prende corpo così una riflessione profonda su quale sia il limite individuale che si è disposti o meno a superare, poiché la scelta di resistere combattendo implica la consapevolezza di dover compiere azioni che peseranno per sempre sulla coscienza di ognuno. Né si deve sottovalutare l’angoscia terrorizzante di essere sempre, in ogni momento, potenziale vittima della brutale violenza nazifascista, della tortura, a cui si accompagna la paura di non sapervi resistere, di “parlare” mettendo in pericolo i compagni, il nucleo affettivo con cui si condivide la vita.
Il percorso attraverso cui il testo, compatto e denso, ci accompagna è imperniato dunque sul racconto delle emozioni – quelle emozioni che riconosciamo come nostre, seppure collocate in un passato ormai distante – raccordandosi con il più generale contesto storico e, spesso, commuovendo profondamente. Le pagine che descrivono l’insurrezione e la Liberazione, quando di nuovo il tempo si fa concitato e improvvisamente accelera, si leggono con grande emozione. E’ chiarissima qui l’urgenza, la febbre, che spinge tutti verso l’obiettivo comune, in una mobilitazione frenetica e al contempo efficace: liberare le città del Nord prima che ci arrivino gli Alleati. L’“arrendersi o perire” lanciato ai fascisti e ai nazisti, prendere in mano il governo delle città liberate, sono condizioni assolute: ogni altra ipotesi è irricevibile, è l’unica opzione contemplata in grado di giustificare i 20 mesi precedenti e che rende possibile, ora sì, il futuro. Ci si commuove, ritrovando un’emozione anch’essa liberatoria che fa scolorire decenni di retorica resistenziale per riportarci in mezzo agli uomini e alle donne che finalmente, nonostante l’altissimo prezzo pagato, sanno di aver compiuto un’impresa di valore inestimabile (p. 164 e segg.). Ripercorrere la storia della Resistenza trovandone il senso «nel concreto della vita delle persone» raccoglie così la domanda di un nuovo discorso pubblico sulla lotta partigiana, rendendo esplicito «come, attraverso quali percorsi e con quali costi abbiano preso forma le regole e le istituzioni che perimetrano il nostro vivere civile» (p. 12). Come conclude l’autrice, smettere di «occuparsene equivale a segare il ramo su cui si sta seduti».
di Paola Signorino