Una mostra alla Camera del Lavoro di Milano sugli IMI

È un tributo. Un tributo alla memoria di quei 650.000 militari italiani che, all’indomani dell’8 settembre 1943, lasciati allo sbando, senza informazioni e senza ordini, vennero “reclutati” dall’esercito tedesco (di fatto erano loro prigionieri), deportati in Germania e internati in vari campi, dove furono costretti a lavorare per il Terzo Reich, diventando una enorme forza lavoro gratuita, da sfruttare senza alcun controllo internazionale e priva di tutele. Migliaia e migliaia di lavoratori coatti (in seguito definiti anche “gli schiavi di Hitler”) che, a distanza di mezzo secolo, hanno iniziato le pratiche per la domanda di risarcimento, a seguito della promulgazione della legge del 2 agosto 2000, con cui la Repubblica Federale Tedesca metteva a disposizione circa 5 miliardi di euro.

La loro storia, quella dei cosiddetti IMI (Internati Militari Italiani), è sempre stata taciuta. Almeno fino ad ora. Giovanni Germi, un collaboratore volontario del Patronato INCA CGIL, ha conservato per anni i fascicoli delle domande di risarcimento di alcuni IMI che il governo federale tedesco, già nel novembre del 2001, decise di escludere dalla legge precedente, respingendo circa 130.000 richieste italiane. Un materiale inedito e prezioso, da poco donato all’Archivio del Lavoro di Sesto S. Giovanni, che si è arricchito di analoga documentazione conservata dall’Associazione “Pio Galli” di Lecco. Sono stati questi due ritrovamenti fortuiti a far scattare la molla che ha spinto un gruppo di ricercatori a dare finalmente giustizia a quanti decisero di non aderire alla Repubblica Sociale Italiana e, per questa decisione, soffrirono la fame, subirono ogni sorta di violenza e poi, nel dopoguerra, furono spesso considerati dei traditori o dei fiancheggiatori dei nazisti, a lungo disprezzati e poi dimenticati.

A loro, e ai loro familiari, in occasione della Giornata della Memoria, gli Archivi Cgil in Lombardia (sedi di Milano, Lecco e Sesto San Giovanni), insieme all’Associazione “Pio Galli” di Lecco e all’Associazione Nazionale ex Internati Militari Italiani, hanno dedicato una mostra molto particolare, frutto di un lungo lavoro di ricerca portato avanti da Roberta Cairoli (Direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Peretta” di Como) e da Debora Migliucci (Direttrice dell’Archivio del Lavoro – Cgil Milano), insieme a un nutrito e qualificato team di collaboratori (Eleonora Cortese, Mauro Del Corpo, Silvia Maresca, Dario Pirovano, Giancarlo Pelucchi, Nadia Tadini). Una mostra speciale, dedicata a quella parte di soldati, gli IMI appunto, di cui si è sempre saputo poco, ma di cui comincia ad essere ricca la storicistica contemporanea. Tra i volumi più recenti, si segnalano quello di Costantino Di Sante, Materiale umano. Testimonianze di militari e civili italiani sui lager, sulle fabbriche e sui campi di lavoro del Terzo Reich, edito da Novalogos, e quello di Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania. 1943-1945 Persecuzione e Deportazione, edito da il Mulino.

La mostra, che condensa in undici pannelli documentali una mole immensa di storie e di memorie, si intitola La scelta, la fame, il silenzio [1] e in quelle tre parole, attraverso i documenti e le immagini ritrovate, ha voluto sintetizzare il percorso che caratterizzò la vita di migliaia di soldati – la maggior parte dei quali era impegnato sul fronte orientale in Jugoslavia, in Albania, in Grecia e nelle isole dell’Egeo – raccontando e ricostruendo quello che accadde dopo l’8 settembre 1943. Allora questi uomini si resero conto che il fascismo di Salò non era la via da seguire e si rifiutarono di continuare a combattere insieme ai tedeschi, nonostante la pressante propaganda e la consapevolezza che seguire la nuova avventura di Mussolini fosse l’unico modo per il ritorno in patria.

Ma, invece di andare in montagna e partecipare attivamente alla Resistenza armata, quei militari vennero fatti prigionieri e trasferiti in poco tempo in Germania, con un viaggio su carri bestiame o vagoni merci affollati, privi dei più elementari servizi igienici (come ci hanno raccontato poi i sopravvissuti). Non finirono in campi di concentramento o in campi di sterminio, ma nei cosiddetti campi di lavoro, perché tutti loro divennero “Internati Militari Italiani”, una “qualifica” inventata da Hitler, che non trovava riscontri nel diritto internazionale né nella Convenzione di Ginevra, che avrebbe garantito loro il soccorso della Croce Rossa internazionale e vietato il lavoro coatto. Invece i nostri soldati vennero rapidamente trasformati proprio in lavoratori coatti, costretti a lavori forzati massacranti a favore dell’industria bellica tedesca. Tanto che, come ben documentato dalla mostra, circa 45.000 di loro perirono a causa della denutrizione, del freddo, del duro lavoro e dei maltrattamenti dei tedeschi oppure furono vittime di fucilazioni sempre più frequenti, soprattutto nella caotica situazione degli ultimi mesi di guerra.

La gran parte degli IMI venne destinata all’industria pesante e degli armamenti, all’industria mineraria e all’edilizia, ai lavori agricoli e allo sgombero di macerie delle città bombardate, ma anche, in alcuni casi, al seppellimento dei cadaveri. Il lavoro coatto durava 12 ore al giorno, per sei giorni alla settimana. Con un vestiario insufficiente, lacero e sporco, la quasi totale assenza di medicinali, le pessime condizioni igieniche (con la conseguente diffusione di cimici e pidocchi e di malattie come la tubercolosi, il tifo e le polmoniti), la distribuzione di poco cibo (“tutti i giorni avevamo il permesso di rovistare nei bidoni della spazzatura per cercare qualcosa da mangiare” si legge in un documento), continue privazioni e soprusi, tra cui sputi e insulti, dentro e fuori dai Lager, anche da parte della popolazione tedesca residente nei pressi dei campi.

Ecco una drammatica testimonianza:

«Si raccoglieva il materiale con le carriole e se lo spargeva per costruire la sede stradale. Tutto questo con bastonature e sevizie di ogni genere. Metri di neve, fame spaventosa, bronchiti, scabbia e pidocchi. Molti prigionieri non ce la facevano più e tentavano la fuga e puntualmente venivano uccisi ed i loro vestiti venivano dati a noi coi buchi dei proiettili».

A poco meno di un anno dal primo “reclutamento”, il 20 luglio 1944 Mussolini e Hitler firmarono un’intesa secondo la quale gli IMI passavano alla condizione di “lavoratori civili”, che gli permetteva di abbandonare il Lager, previa dichiarazione scritta di disponibilità a lavorare nel territorio del III Reich fino alla fine della guerra. Chi non firmava, sarebbe rimasto nei lager fino a nuovo ordine. Complessivamente, il 75% degli IMI si rifiutò di aderire, andando a costituire quella che uno di loro, Alessandra Natta (futuro collaboratore di Berlinguer, e suo successore alla guida del PCI dal 1984 al 1988), ha definito “una scuola di democrazia per una generazione non abituata a scegliere, ma educata solo a credere obbedire e combattere”.

Le cinque sezioni della mostra – La scelta, I lager, La fame, Gli affetti, Il silenzio – sono state studiate per rendere il più possibile visibile e comprensibile a tutti questa tragedia, l’odissea vissuta da migliaia di soldati durante la prigionia. E si comprende molto bene che quello che dovettero sopportare non fu molto diverso da quello che subirono ebrei, detenuti politici e oppositori del nazi-fascismo, in quel sistema concentrazionario che, a differenza degli IMI, la memorialistica contemporanea (libri e cinema) ha raccontato a più riprese.

Ovviamente la narrazione della mostra è una sintesi estrema dei documenti ritrovati. Grazie al lavoro dei ricercatori, la mostra riesce a condensare in pochi pannelli didascalici il contenuto di 350 fascicoli nominativi, corredati da documenti di tipologia diversa: tesserini di riconoscimento, libretti di lavoro, disegni, cartoline postali e lettere ai familiari, memorie in gran parte manoscritte che raccontano, con modalità e stili differenti, le drammatiche condizioni di vita nei Lager nazisti e nelle fabbriche che sfruttavano il lavoro degli internati. In qualche caso, forse cercando di non procurare un’ansia eccessiva ai loro famigliari, qualche internato – nonostante “il filo spinato che circonda l’orizzonte” – sembra quasi rallegrarsi della sua condizione, come fa Alessandro Spada in una postkarte (le cartoline prestampate di cui si potevano servire gli IMI):

«Carissimi genitori, sono arrivato oggi. Faccio di nuovo il contadino. Non potete immaginare la mia felicità. Si lavora, ma almeno si mangia e son fuori di ogni pericolo».

Per il resto, quanto narra la mostra è un racconto ininterrotto di privazioni, di soprusi, di persecuzioni.

«Mi ricordo di un compagno di prigionia sorpreso dalle guardie mentre si riposava durante il suo turno di lavoro; lo avevano colpito molto violentemente alla testa con una lampada, la testa si era gonfiata e dopo qualche giorno di agonia morì. A noi non era stato permesso né di poterlo visitare né di poter alleviare in qualche modo la sua sofferenza; eravamo tagliati fuori dal mondo».

Finita la guerra, l’accoglienza riservata agli IMI in patria fu pressoché silenziosa, se non addirittura “punitiva” per il sospetto, per quanto mai espresso esplicitamente dalle autorità, di collaborazionismo con i nazi-fascisti: i ricordi di quei mesi di prigionia, di brutalità e di lavori forzati si ridussero così a un totale silenzio, che poi divenne oblio. Fino a questa mostra (e alle ricerche che, ci auguriamo, seguiranno), che finalmente rende giustizia e dignità a quei soldati che seppero scegliere da che parte stare.


[1] La mostra si può visitare fino al 28 febbraio nella sede della Camera del Lavoro di Milano in corso di Porta Vittoria 43. Per informazioni e orari: tel. 02 550251.

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