Raccontare l’inenarrabile

SHOAH
La percezione e lo sguardo del contemporaneo nella fotografia e nella grafica d’arte 

Visioni della Memoria V Edizione
Una mostra a cura di Bianca Cimiotta Lami, Toni Garbasso, Giorgia Pilozzi
Promossa dalla FIAP – Federazione Italiana Associazioni Partigiane

Castello Baronale di Riano – Comune di Riano
27 Gennaio 2023 > 26 Febbraio 2023 

Per info e catalogo consultare il sito: https://comune.riano.rm.it/contenuti/1530193/catalogo-pdf



Generazioni: conoscere per crescere
di Pupa Garribba – Testimone

Sono passati un paio di anni da quando ho visto per la prima volta a Roma la mostra La percezione e lo sguardo del contemporaneo nella fotografia e nella grafica d’arte. Da allora, ho sempre davanti agli occhi la foto scattata da Andy Alpern con l’IPhone, nel giugno 2016, a Simcha Weiner di 96 anni. Smagrito, seduto in poltrona, in vestaglia, l’anziano è colto in un momento di profonda tenerezza verso la nipote Nili e il bisnipote Zohar. Sembra raccogliere le sue ultime forze per chinarsi verso il bambino e baciargli la mano; morirà in quello stesso anno. Uno scatto memorabile, una foto di famiglia nella quale il fotografo nato a Chicago, che da anni vive nella mistica città di Tzfat in Alta Galilea, unisce tre generazioni che si sono intrecciate in Israele provenendo da paesi diversi.

Conoscevo in precedenza Andy Alpern e la sua galleria d’arte, ma è stata la didascalia della foto ad informarmi che Simcha Weiner, il cui nome vuole dire gioia in ebraico, è nato in Polonia e che durante la Shoah è stato deportato in un lager nazista con la famiglia d’origine, quasi completamente sterminata. È probabile che nel dopoguerra anche Simcha, come molti superstiti, sia stato travolto da un’ondata di solitudine e di vuoto quando si è reso conto che il mondo di prima era definitivamente scomparso. Ma Simcha ha saputo reagire allo sconforto, si è formato presto una sua propria famiglia ed ha deciso di fare l’aliyah, di andare a vivere in Israele per contribuire alla costruzione di un paese dove finalmente non avrebbe sentito pronunciare la parola ebreo come un insulto – abitudine che purtroppo si mantiene ancora troppo spesso nei nostri stadi, e al giorno d’oggi.

Ho appreso anche che Simcha, divenuto camionista, ha partecipato alla costruzione delle prime strade di collegamento tra l’isolata e verde Galilea nel nord e il lontano e roccioso deserto del Neghev nel sud, luoghi che iniziavano ad essere abitati dagli ebrei scampati alla “soluzione finale” e arrivati dall’Europa ad ondate successive. Mi sono resa conto quindi che Simcha ha fatto parte di quella generazione che, attraverso la piantagione di alberi e la costruzione di case e strade, è riuscita ad integrarsi accompagnando nel contempo la sua nuova patria verso la modernità. La didascalia descrive infine Simcha come un nonno molto disponibile al gioco ed al sorriso, a dimostrazione che mai nome era stato più aderente alla persona alla quale era stato destinato. Se si tiene conto degli orrori in mezzo ai quali egli è vissuto e della sua disponibilità nel rapporto verso gli altri, appare chiaro come la Shoah non sia riuscita ad intaccare il suo spirito.

Dopo quanto ho letto sulla sua vita, mi sono fatta l’idea che Simcha Weiner deve essere stato una persona serena, un padre e un nonno attento a trasmettere la memoria senza troppi traumi legati alla Shoah come spesso è avvenuto, con la conseguenza di lasciare tracce durature nelle propria discendenza. E mentre raccoglievo le idee per scrivere il mio contributo a questo catalogo, mi è venuta in mente la storia opposta di un altro padre e nonno, questa volta un ebreo romano, che fino dall’infanzia era stato invece travolto dai traumi dei suoi genitori. Suo padre e sua madre, infatti, non avevano trovato le parole per spiegare a lui, bambino di 4 anni e al fratellino più piccolo, la verità sull’improvvisa scomparsa della sorellina di 8 anni catturata e deportata in seguito alla razzia del 16 ottobre 1943 insieme alla nonna e allo zio. La giovane coppia aveva deciso allora di fare sparire da casa tutte le tracce della bambina, come se non avesse mai fatto parte della famiglia, come se non fosse mai esistita. Pochi mesi dopo la madre era ricorsa invece alla scusa di un lavoro fuori Roma per giustificare l’improvvisa assenza del papà, che era stato a sua volta catturato per strada a seguito di una spiata. La donna si era messa anche a scrivere finte lettere che fingeva venissero da lontano, per cercare di dare pure in questo caso delle risposte convincenti alle domande dei figli.

Con il passare del tempo le lettere si erano diradate ed erano cessate pure le domande, perché ormai era diventato chiaro che i cari scomparsi non sarebbero tornati. Il bambino di quattro anni, crescendo, aveva continuato a tenere sotto traccia la dolorosa storia familiare; il silenzio era stato mantenuto anche quando si era creato una sua propria famiglia. Lo ha rotto un giorno, all’improvviso, in una scuola elementare dove mi aveva accompagnato insieme ad altri amici per la fine dell’anno scolastico.”Bambini” aveva detto pallido e molto turbato, “vi devo raccontare una cosa che non ho mai detto né a mia moglie né ai miei figli”, ed era venuta fuori tutta la tragica storia di casa sua. I bambini si erano commossi, lo avevano invitato a tornare e lui aveva portato con sé l’ultima foto della sorellina, che era stata poi fatta ingrandire e sistemare nell’atrio della scuola che un anno dopo era stata a lei intitolata.

Nel frattempo alunni, docenti e genitori avevano deciso che la memoria della bambina deportata a 8 anni non doveva rimanere sommersa, e così era nata l’idea di produrre un piccolo film con un vero regista e con attori trovati tramite un casting regolare all’interno della scuola – io stessa ho recitato nel ruolo della 19 nonna. Il piccolo film è circolato molto in Italia ed è stato proiettato anche in Polonia, a Cracovia. Alla prima romana, la figlia maggiore del bambino di quattro anni a lungo traumatizzato ha raccontato il tormento di vivere in un ambiente in cui parte della storia familiare continuava ad essere avvolta nel mistero, e aveva sottolineato le sofferenze sue e dei fratelli che erano state pari a quelle del padre fino a quando la memoria del passato non era stata liberata, e poi rielaborata.

Ho appena raccontato quali sono state le reazioni di fronte a due fotografie. La mia osservando quella dell’anziano Simcha Weiner, che mi è parso volere consegnare la fiaccola delle memorie di famiglia attraverso il tenero bacio sulla mano del nipotino. Quella degli alunni della scuola romana di fronte alla foto della bambina ebrea deportata a 8 anni che, oltre al piccolo film, ha suscitato una quantità di disegni. Sono sicura che la possibilità di fruire della mostra “Shoah – La percezione e lo sguardo del contemporaneo nella fotografia e nella grafica d’arte” susciterà molte riflessioni, e stimolerà lo spirito creativo degli studenti che la visiteranno. Sono sicura anche che attraverso i loro elaborati – in forma visiva, in forma letteraria e/o poetica – potrà essere vivificata e trasmessa con nuovi linguaggi la memoria storica di un periodo a noi ancora vicino, ma che si sta affievolendo con la scomparsa degli ultimi testimoni ed è minacciata dal negazionismo.

Buon lavoro a tutti, di cuore.

 

 

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