Nicola Del Corno
«Quelli che non si arrendono»
Giacomo Matteotti nelle parole di Piero Gobetti e di Carlo Rosselli

Piero Gobetti e Carlo Rosselli ebbero modo di incontrare di persona Matteotti una sola volta, il 20 gennaio 1924 al teatro Scribe di Torino, in occasione di un comizio di Turati per l’apertura della campagna elettorale per elezioni del successivo 6 aprile. Ambedue ebbero modo di ricordare questo incontro, sottolineando alcune peculiarità, caratteriali e fisiche al tempo stesso, del deputato polesano che li avevano particolarmente colpiti. Gobetti lo ricorda così nel suo primo breve articolo dedicatogli Ho conosciuto Matteotti, pubblicato il 17 giugno del 1924 su Rivoluzione liberale: «ho conosciuto Matteotti al discorso di Turati a Torino. Ci si intese subito sull’antifascismo. Anche lui lo sentiva d’istinto. Nella fronte corrugata a serietà, negli occhi fermi, nelle labbra atteggiate a tagliente ironia avvertì un vero stile di oppositore». Dieci anni dopo, nel 1934, in occasione del decennale della morte, in un articolo pubblicato sull’Almanacco socialista e intitolato significativamente, e ossimoricamente, Un eroe tutta prosa, Rosselli così lo descriveva:
quando lo conobbi a Torino insieme a Gobetti, ricordo che entrambi rimanemmo colpiti dalla sua serietà e dal suo stile antiretorico e ci comunicammo questa impressione […]. Era magro, smilzo nella persona, non assumeva pose gladiatorie, rideva volentieri, ma da tutto il suo atteggiamento e soprattutto da certe sue dichiarazioni brevi si sprigionava una grande energia.
Nelle ultime righe di questo ricordo Rosselli scriveva come il fascismo, uccidendo il socialista polesano, avesse indicato quali dovessero risultare «le preoccupazioni costanti e supreme» per l’antifascismo nel contrastare il regime mussoliniano: «il carattere, l’antiretorica, l’azione». Tali qualità emergono sicuramente anche nei due articoli sopraricordati di Gobetti. È nota la sua ostilità nei confronti di D’Annunzio e del dannunzianesimo, palesata in più occasioni: si vedano ad esempio due brevi citazioni tratte dall’articolo Elogio della ghigliottina: «la lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio […]. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio». E in un’altra occasione, sempre sulla sua rivista, l’intellettuale torinese affermava che «in Gabriele D’Annunzio la parola non sempre penetra la realtà, si esprime nelle sue apparenze magiche».
Al retorico e immaginifico D’Annunzio, Gobetti oppone idealmente l’antiretorico e pragmatico Matteotti. Proprio all’inizio di un secondo articolo dedicato a Matteotti, quello più lungo e noto pubblicato sempre su Rivoluzione liberale il 1° luglio 1924, Gobetti ricorda un comizio del maggio 1915 in cui il deputato polesano venne contestato da «una folla in cui fremevano fascisticamente spiriti di dannunzianesimo». Nella sua carriera politica, e nel suo essere socialista, Matteotti si rivelò – per riprendere il titolo di un paragrafo dell’articolo gobettiano – il nemico delle sagre. Quelle sagre che erano la cifra costante di una certa sociabilità socialista, «abitudine ai convegni che terminano in una formidabile pappatoria». Un’abitudine che, sottolineava Gobetti, sarà poi fatta propria anche dal romagnolo Mussolini, che la importerà nel fascismo. Gobetti ricordava come Matteotti risultasse diverso, anche in quello che ai nostri giorni potremmo definire come il look: era infatti agli occhi di Gobetti «severamente elegante, senza distintivi, senza cravatte rosse al vento».
Da un punto di vista più strettamente politico-ideologico, Matteotti era sicuramente antiretorico: sottolinea infatti Gobetti che «non ostentava presunzioni teoriche […] si risparmiava ogni sfoggio di cultura», aveva nella sua opera di difesa dei lavoratori «una passione per il concreto». Come scriveva ancora il torinese, Matteotti sapeva bene che ai lavoratori, soprattutto ai contadini del suo Polesine, occorreva «indicare dei passi progressivi e non dei programmi di inquietudine e di rivoluzionarismo inconcludente». A questo proposito, in altre pagine, Gobetti ricordava come Matteotti non potesse, e non volesse, risultare «l’oratore delle grandi occasioni». Come non si preoccupasse di infiammare l’uditorio e come frequentasse più le Leghe dei Circoli, ossia fosse più attento alla prassi che alla teoria. Una passione per il concreto che lo spinse verso un «socialismo applicato» e non retorico, come puntualizzava Gobetti nella parte finale dell’articolo.
Questo lo portava a non risultare un protagonista nei congressi, dove spesso trionfava «la facile demagogia», dove avevano gioco facile nel mettersi in luce gli «improvvisatori». Insomma il suo non era un socialismo da strapaese a differenza di quello – e Gobetti fa nomi e cognomi ben precisi – di Enrico Ferri, Nicola Bombacci, Arturo Vella, Francesco Zanardi. Campioni di «loquacità provinciale, di fiera della vanità». Così come si dimostrò da subito ben diverso nell’azione difensiva delle classi lavoratrici da quel sindacalismo rivoluzionario “isterico”, ma mai produttivo, quel sindacalismo «da caffè concerto» che secondo Gobetti caratterizzava, ad esempio, un personaggio come Michelino Bianchi, futuro quadrumviro della Marcia su Roma.
Gobetti dedicava ovviamente alcune riflessioni all’antifascismo di Matteotti, abbiamo già ricordato come proprio all’inizio del primo breve articolo lo definisse «antifascista per istinto». Nell’articolo maggiore Gobetti riaffermò come verso Mussolini e il fascismo Matteotti avesse dimostrato un’incompatibilità etica, un’antitesi istintiva, insomma non una contrarietà solo politica e ideologica, ma soprattutto una «questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo». Gobetti faceva un riferimento a quello che probabilmente risulta lo scritto più famoso di Matteotti, ossia Un anno di dominazione fascista, opuscolo antiretorico per eccellenza. A proposito il torinese notava come contro il fascismo Matteotti avesse voluto «fare questione di dati e di documenti», e non solo di ideologia. E così l’Anno rimane nelle considerazioni di Gobetti come «un atto di accusa completo, fatto alla luce dei bilanci e insieme una rivolta della coscienza morale».
Anche da segretario del PSU Matteotti combatté il fascismo «con la più ferma intransigenza», che si manifestò soprattutto quando si oppose con determinazione ad ogni forma di dialogo, e probabilmente di collaborazione, che i sindacalisti della CGL all’interno del PSU volevano intrattenere con Mussolini da poco salito al potere, nella speranza di tutelare maggiormente i diritti dei lavoratori. Matteotti si oppose a questo dialogo, e Gobetti lo sottolineava con vigore: «non si poteva collaborare con il fascismo per una pregiudiziale di ripugnanza morale, per la necessità di dimostrargli che restavano quelli che non si arrendono».
E nel breve articolo Ho conosciuto Matteotti Gobetti, che, come sappiamo, non amava tanto il Partito socialista – per usare un eufemismo – sia nella versione massimalistica, sia in quella riformista, notava come i socialisti avessero avuto una «gran fortuna” – usava proprio questo aggettivo e questo sostantivo – nell’aver trovato per la loro leadership un giovane dalla preparazione tecnico-politica, e dalla integrità morale quale quella di Matteotti. Un uomo – per citare ancora Gobetti – che «non era dotato di qualità decorative (come altri vecchi leader socialisti) ma possedeva l’energia, l’inflessibilità, il fascino».
Il modus operandi politico di Matteotti, appunto anti-retorico per eccellenza, portò Gobetti a tracciarne una sorta di profilo caratteriale. È nota la passione di Gobetti nei confronti del Protestantesimo. E il laico Matteotti diventa nelle osservazioni di Gobetti un protestante, non certo per una questione di fede ma, appunto, per una questione di carattere. Scriveva infatti: «si sapeva che era rigidissimo, sobrio, rettilineo, senza vizi; e così si rispettava la sua severità verso gli altri, il suo fanatismo protestante contro chiunque avesse avuto una debolezza colpevole». Qualche pagina sopra aveva rimarcato come il socialismo di Matteotti si basasse caratterialmente su «virtù conservatrici e protestanti» (l’aggettivo “conservatrici” viene qui usato in senso non politico ovviamente, ma in un’accezione gobettianamente positiva). In altre pagine Gobetti esaltava la sua «ascetica solitudine». Inoltre, Gobetti paragonava in un certo senso la sua impronta famigliare (sebbene fosse ben diversa da un punto sociale e soprattutto economico) con quella di Matteotti, quando notava come provenisse da «una famiglia di risparmiatori inesorabili». E risparmiatori lo furono anche i genitori di Piero, che così poterono offrire un supporto economico alle iniziative editoriali del figlio.
Com’è noto, Rosselli si decise a prendere la tessera del Partito Socialista Unitario come reazione politica, e al tempo stesso emotiva, al barbaro assassinio di Matteotti. La prese ufficialmente nel settembre del 1924, ma è un’idea che gli balenava in testa sin da luglio, secondo quanto aveva scritto proprio a metà di quel mese allo stesso Gobetti, illustrandogli i motivi di una non più procrastinabile decisione:
credo che tra poco entrerò nel PSU, probabilmente in un gruppo con altri amici, tra cui Salvemini e Jahier. Forse anche Torraca. È un tentativo che si deve fare tanto più che è venuta l’ora per tutti di assumere il nostro posto di battaglia in seno ai partiti.
Peraltro, in quegli stessi giorni, nel numero del 15 luglio della Rivoluzione liberale Rosselli, in un articolo in cui illustrava la sua idea di socialismo liberale, ricordava Matteotti come «uno dei martiri più puri della libertà».
Fuggito dal confino, raggiunta Parigi e fondata Giustizia e Libertà, Rosselli avrà modo di ricordare il sacrificio antifascista di Matteotti in più occasioni. Ad esempio lo ricorda, in questa occasione affiancandolo dolorosamente a Gobetti – nel frattempo divento pure lui un martire della violenza mussoliniana – nella deposizione al processo Bassanesi di Lugano del novembre 1930, quando l’atto d’accusa mosso al volo illegale compiuto da Bassanesi – volo che aveva avuto come scopo quello di inondare Piazza del Duomo a Milano di volantini inneggianti a GL – si trasformò mediaticamente in un atto d’accusa nei confronti del regime mussoliniano. Sono parole famose quelle pronunciate da Rosselli, ma che vale la pena di riprendere:
avevo un casa me l’hanno devastata, avevo un giornale e me l’hanno soppresso, avevo un cattedra, l’ho dovuta abbandonare, avevo dei maestri, degli amici – Amendola, Matteotti, Gobetti – me li hanno uccisi.
Nel settembre di quello stesso anno Rosselli si era recato a Bruxelles, dove aveva tenuto una conferenza in ricordo di Matteotti. Di questa conferenza venne pubblicata una sintesi sulla rivista Giustizia e Libertà nel luglio 1937, ossia un mese dopo la morte, sempre violenta e sempre per mano fascista sia pure indiretta, di Carlo e del fratello. Il testo ci restituisce un’immagine forte: quella del morto che è ben più forte del vivo, ossia quella di un Matteotti sempre capace di tenere desta la volontà degli oppositori di Mussolini. Così infatti declamava Rosselli:
Matteotti è là che vieta che le acque stagnino e s’impaludino nei compromessi sapienti, nelle rese miserabili, negli infami baratti: la sua voce tagliente, fustigatrice, che ci si illuse di spegnere col ferro freddo in quel lontano meriggio romano, risuona oggi come tuono nel cuore degli italiani che hanno l’ansia della riscossa e nel cuore di tutti gli uomini liberi, nel vostro cuore, o Belgi, che accompagnate con vostro fervido slancio la nostra dura vigilia.
La conclusione era che se il vivo Mussolini ancora «spadroneggiava» in Italia, il ricordo del morto Matteotti lo «attanagliava» comunque senza soluzione di continuità, a mo’ di monito sulla natura brutale e liberticida del suo regime. «Passano gli anni, e Matteotti rimane», ricordava Rosselli, giudicando pertanto come vano il tentativo compiuto dai fascisti di annullarne, con misure repressive, la memoria presso l’opinione pubblica.
Nel corso della conferenza Rosselli aveva citato quella famosa battuta della tragedia shakespeariana in cui lady Macbeth non riusciva a dimenticare il male compiuto, ossia l’assassinio di Duncan: «tutti i profumi d’Arabia non varranno a lavare questa macchia di sangue», citazione ripresa da Rosselli per ribadire come l’omicidio di Matteotti non potesse venire scordato in fretta. Un riferimento al Macbeth ritorna anche all’inizio del già citato articolo Un eroe tutta prosa, che costituisce il ricordo più importante dedicato da Rosselli a Matteotti. Proprio all’inizio dello scritto, l’autore paragonava l’ombra di Banco – che tormenta Macbeth – a quella di Matteotti che continuamente ricorda al duce il proprio misfatto. Notava Rosselli: «in qualunque riunione si faccia il suo nome il pubblico balza in piedi e applaude […]. Matteotti, come l’ombra di Banco, accompagna Mussolini. E Mussolini lo sa».
Parimenti a quanto già aveva fatto Gobetti, Rosselli sottolineava come l’antifascismo del deputato polesano fosse stato un fatto “istintivo”, «d’ordine morale prima che politico», rimarcando come fra Matteotti e i fascisti vi fossero, in prima battuta e al di là d’ogni contrapposizione d’ordine politico-ideologico, «due concezioni opposte della vita». E ancora, in maniera simile a quanto compiuto dal torinese, anche Rosselli svolgeva alcune riflessioni sullo status socio-economico della famiglia Matteotti per notare – sia pure da una prospettiva diversa rispetto a quella di Gobetti – una certa affinità e comunanza nella traiettoria esistenziale. Come lui stesso, anche Matteotti proveniva da una famiglia ricca – ricordava Rosselli – e ciò gli procurò qualche diffidenza da parte dei compagni e il malcelato sarcasmo da parte degli avversari. Ma, come ricorda Carlo, il socialismo per Matteotti si dimostrò sin da subito «una cosa estremamente seria”. Pertanto, continuava Rosselli, non poteva venir derubricato «all’avventura di romantica del giovane borghese eretico che è rivoluzionario a vent’anni, radicale a trenta, forcaiolo a quaranta». Al contrario, ci teneva a ribadire Rosselli, il socialismo di Matteotti fu «una consapevole e maschia elezione di destino».
Alla stregua di una tragedia shakespeariana, la parte finale del breve articolo si chiudeva con una riflessione che si rivelerà drammatica, se si pensa a cosa successe di lì a tre anni, il 9 giugno 1937, a Bagnoles de l’Orne. Dopo aver considerato come un fatto “fatale” la scomparsa violenta dei maggiori oppositori di Mussolini – e tornava a citare, assieme a Matteotti, Gobetti e Amendola – Rosselli paventava infatti «come dovranno morire, se non li salveremo, Rossi, Gramsci, Bauer e molti altri Matteotti che si sono formati in questi anni». Come è andata a finire lo sappiamo: Rossi e Bauer si sono salvati, Gramsci no, e tanto meno si sono salvati Carlo e suo fratello Nello, assieme a «molti altri Matteotti» uccisi dalla barbarie fascista.
Se come ci ha ben documentato Stefano Caretti, l’efferato omicidio rese Matteotti un mito quale martire del sacrificio antifascista, suscitando immediatamente una forte reazione emotiva, per i due giovani antifascisti Matteotti divenne qualcosa di più di un simbolo: un concreto modello a cui rifarsi per l’analisi e l’azione politica. Nelle parole che Gobetti e Rosselli gli dedicano non è difficile scorgere allora una certa identificazione per cui l’austerità messa in luce da Gobetti, e il volontarismo esaltato da Rosselli, fanno sì che ciò che scrivono su Matteotti possa a posteriori esser letto anche come una sorta di presentazione autobiografica. E il comune destino dei tre rende, allora, ancor più drammatiche queste pagine.