Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Le lettere italiane, Parigi 1938
L’anno prossimo cadono i cinquant’anni anni dalla morte di Lussu (avvenuta a Roma il 5 marzo 1975), ma anche la prima ristampa (per i tipi di Einaudi) di quello che ancora oggi è unanimemente considerato un capolavoro letterario, ma che di fatto rimane un manifesto politico, ovvero la narrazione del modo in cui Lussu, interventista convinto, si trovò a vivere la guerra come realtà disperante e crisi dei valori. Così ne dava un ritratto indelebile Mario Rigoni Stern, un collega, non solo come scrittore, ma anche come militare in quella terribile esperienza bellica che fu la Grande guerra, nell’introduzione per la ristampa del volume del 2000:
Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari, di grande ascendente, rigorosi in primo luogo con sé stessi, che comandano senza urlare, che sanno affrontare con la forza della ragione le situazioni più drammatiche e difficili, che non amano le “gesta eroiche”, che conoscono il valore di ogni esistenza e che vivono la storia. Tra i veri “capitani” Emilio Lussu è stato il più grande. Re pastore, nobile cacciatore, domatore di cavalli, uomo politico in prima linea nei momenti più importanti della storia d’Italia del ‘900, narratore semplice come un classico antico, ma per me capitano. E basta. Così, quando ancora oggi vado a camminare per i luoghi che ci racconta, è come fosse con me a ripetermi cose che non ha scritto.
Nonostante non avesse tenuto un diario, Lussu ricordava bene gli eventi, i drammi di cui era stato protagonista o spettatore e se non fosse stato per Gaetano Salvemini, che lo spronò a scrivere, probabilmente Un anno sull’altipiano non avrebbe mai visto la luce. La sua memoria si trasforma in racconto, non in un diario o in un impasto poetico-riflessivo come è accaduto nella maggior parte dei casi italiani, come un Piero Jahier, un Carlo Emilio Gadda, un Giovanni Comisso. Di quei quattro anni intensi e drammatici, peraltro, Lussu sceglie di raccontarne solo uno, quello passato tra le montagne di Asiago (non la precedente esperienza sull’Isonzo né la successiva sull’altipiano della Bainsizza), facendo in modo che il lettore possa seguire la narrazione attraverso riferimenti montani precisi, come lo Zebio, le Creste del Gallio, il Fior, l’Ortigara, nomi che nel libro ricorrono frequentemente quali teatri di battaglie cruentissime.
E anche se Lussu nella sintetica introduzione avverte il lettore che qui «non troverà né il romanzo, né la storia», in realtà il romanzo è un memoriale emozionante, che difficilmente lascia indifferenti. Dice sempre Lussu prima di aprire lo scrigno della sua memoria: «anche questo libro non sarebbe stato mai scritto senza un periodo di riposo forzato», che per lui è quello passato tra il 1936 ed il 1937 in un sanatorio di Clavadel, nella frazione omonima del comune svizzero di Davos, dopo aver già scritto, entrambi nell’esilio parigino (dove si era trasferito nel 1929 dopo la rocambolesca fuga da Lipari con Carlo Rosselli e Fausto Nitti), altri tre testi cult: La catena (cronistoria della sua scelta antifascista, diffusa clandestinamente in Italia e in Francia nel 1931), Marcia su Roma e dintorni (del 1931, sulla genesi del fascismo in Italia) e Teoria dell’insurrezione (un pamphlet sulle insurrezioni proletarie europee scritto nel 1936, ma edito solo nel 1949). Conflitti di ideali, conflitti di persone, conflitti di nazioni.
Un anno sull’altipiano inizia quando gli Austriaci, compiuta l’offensiva tra il Pasubio e la Val Lagarina, occupano Asiago. Inizia così la terribile battaglia degli altipiani, alla quale segue una controffensiva italiana che porta alla conquista di Gorizia (durante la quale vengono catturati e mandati a morte l’ex deputato socialista trentino Cesare Battisti, Fabio Filzi, Nazario Sauro e Damiano Chiesa). Ma più che sulle conquiste i ricordi di Lussu si fermano sugli eccessi di generali e comandanti. La figura del generale Leone, con «quegli stessi occhi, freddi e roteanti, visti al manicomio della mia città» o quella del colonnello Abbati, che si difende «bevendo, [perché] contro le scelleratezze del mondo un uomo onesto si difende bevendo», sono agghiaccianti. Sono pronti a proclamare non solo che «bello è morire per la patria» e che «la massa deve ubbidire ad occhi chiusi e ritenersi onorata di servire la patria sui campi di battaglia», ma che «il nostro dovere è morire tutti».
Tra i tanti episodi, ne spicca uno in particolare, dove l’ansia della prestazione è evidente:
La fantasia del generale avea voluto che le trombe suonassero l’assalto, sgomento per il nemico, incitamento ai nostri. Quando le note risuonarono, tutti i reparti di prima linea si lanciarono all’assalto. Ma, nello stesso istante, gli austriaci, così avvisati, risposero con un fuoco pronto di mitragliatrici e di fucili. Per qualche minuto fu un assordante frastuono. La sorpresa e l’assalto erano falliti, ma le trombe continuavano a squillare. Sembrava che il generale fosse deciso a conquistare le posizioni a squilli di tromba.
Quello che l’ufficiale di complemento Lussu, presto nominato aiutante maggiore, vede presto davanti a sé non è il conflitto “risorgimentale” che aveva immaginato al momento della partenza per la Brigata Sassari, ma una insana, disumana, condotta militare, fatta di carrierismo e di ottusa insensibilità, con ben poca tattica e strategia, dove ordini e contrordini si accavallano in una grottesca girandola di incapacità e di irresponsabilità, mandando tranquillamente i soldati allo sbaraglio: una carneficina quotidiana.
Una condotta che evidentemente è una caratteristica degli eserciti di tutto il mondo, perché «se noi siamo degli imbecilli, non è detto che di fronte a noi vi siano comandi più intelligenti. L’arte della guerra è la stessa per tutti», dice un veterano. Ce ne si accorge non appena Lussu descrive un assalto degli austriaci, che obbligano i nostri militari a ritirarsi:
Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno credo che li rivedrà in punto di morte. Mentre la nostra mitragliatrice sparava, il bombardamento cessava. Gli austriaci attaccavano in massa, in ordine chiuso, a battaglioni affiancati. Fucile a tracolla, essi non sparavano. Avanzavano sicuri, cantando un inno di guerra, di cui a noi non arrivava che la risonanza del coro incomprensibile. Hurrà!
La nostra linea aprì il fuoco. La nostra artiglieria sparava rabbiosa, senza arresto. Noi vedevamo reparti interi cadere falciati. I compagni si spostavano, per non passare sui caduti. I battaglioni si ricomponevano. Il canto riprendeva. La marea avanzava: Hurrà!.
Hurrà… Nel giro di poche decine di pagine si percepisce il contrasto fra gli ideali che potrebbero giustificare la guerra e la sua terribile realtà, tra ciò in cui Lussu aveva creduto e di cui ormai era disilluso, smentito dalla stupidità, dalla vigliaccheria, dalla inettitudine («vogliono tutti fare carriera, ma i loro galloni sono fatti di morti»), dall’assurdità di cui è impastata tutta la vicenda bellica.
Nell’ordine che c’era stato comunicato era scritto: bisogna rimanere aggrappati al terreno con le unghie e con i denti. La frase, d’odore letterario, rendeva peraltro con sufficiente approssimazione la posizione di ciascuno di noi. Le trincee erano infatti improvvisate, sul terreno nudo, senza scavi profondi, senza sacchetti di terra, senza parapetti. Più che trincee, avevamo trovato scavi individuali, non continui, che ciascuno avea cercato di approfondire, se non proprio con i denti, certo in gran parte, con le unghie. Stavamo stesi, ventre a terra, la testa appena riparata da qualche sasso e da zolle. Ad ogni raffica di mitragliatrice, ad ogni sibilo di granata, istintivamente, noi facevamo ancora uno sforzo per occupare meno spazio e offrire meno vulnerabilità, schiacciandoci sempre più sul terreno, appiattiti fino alla linea del suolo.
Nella sua narrazione Lussu si concentra sull’uomo e sul dramma comune (da una parte e dall’altra del filo spinato), nel quale l’autore e migliaia di soldati si trovarono coinvolti, consenzienti o dissenzienti, fanatici o rassegnati, responsabili o ribelli. Non tralascia nulla: all’inizio c’è l’illusione «della guerra in montagna, come di un riposo privilegiato», dopo la terribile vita di trincea sul Carso, le cui doline costituivano una sorta di «calamita dei tiri di artiglieria di grosso calibro, in cui ci si sprofondava alla rinfusa, uomini e muli, vivi e morti». C’è lo sgomento di fronte allo spettacolo dei profughi dai territori sottoposti all’offensiva austriaca, quando la popolazione dei sette Comuni si riversa in pianura e Lussu annota che «i contadini sembrano naufraghi. Era il convoglio del dolore. I carri, lenti, sembravano un accompagnamento funebre». E poi c’è la vita in trincea, con le sofferenze degli uomini in combattimento («io ricordo l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: SALVARSI» – il maiuscolo è suo), l’atmosfera di paura prima di un assalto e durante i bombardamenti dell’artiglieria avversaria («il dramma della guerra è l’assalto. La coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono»), le enormi perdite per conquistare pochi metri di terreno e trincee avversarie, che vengono quasi regolarmente perdute dopo poco. «Ordini, grida, urla si levavano da ogni parte. V’era dovunque un aspetto di confusione e di terrore».
È forse per questo motivo, per questa narrazione ripetitiva ma diversa, ossessiva e grottesca, a tratti comica (esilarante la descrizione del generale che imita il coltello tra i denti – «i peli dei baffi drizzati sulle labbra mi fecero pensare ad una lontra con un pesce in bocca»), ma sempre tragica, che il futuro esponente antifascista (fondatore con i fratelli Rosselli del movimento Giustizia e Libertà) decise di circoscrivere la sua esperienza militare ad un solo anno solare, ritenendo che quei soli dodici mesi racchiusi fra un inizio e una fine – l’arrivo in Altipiano nel giugno del 1916 e poi la ripartenza, un anno dopo – fossero emblematici ma anche paradigmatici di cosa davvero avviene al fronte durante una guerra, perché un anno è una lunghezza infinita per chi è costretto a vivere al gelo, dentro trincee fredde e fangose, nel continuo confronto con la morte e il dolore. Come quello che investe in pieno Lussu quando, durante un giro di ricognizione notturna, si trova in braccio il corpo esanime dell’amico Mastini, compagno dell’Università, freddato da un cecchino:
Io ho dimenticato molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Io guardavo il mio amico sorridere, fra una boccata di fumo e l’altra. Dalla trincea nemica, partì un colpo isolato. Egli piegò la testa, la sigaretta fra le labbra e, da una macchia rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente, egli piegò su sé stesso e cadde sui miei piedi. Io lo raccolsi morto.
Orrore e sacrifici senza senso. Ecco, in estrema sintesi, il significato di questo volume (244 pagine nell’edizione originaria), che si chiude con inno insensato, quasi un Urlo di Munch contro la barbarie: «Beviamo alla Bainsizza. La guerra ricominciava».
di Claudio A. Colombo