In questi ultimi giorni a Firenze ho avuto notizie dirette sugli orrori commessi dai tedeschi a carico degli ebrei, per distruggere, deliberatamente e scientificamente, loro e i polacchi. Gui [Vittorio, 1885-1975, direttore d’orchestra, compositore e critico musicale stabilitosi a Firenze negli anni Venti, fondatore della Stabile Orchestrale fiorentina nel 1928 e del Maggio musicale nel 1933], che era a Berlino poche settimane fa, mi ha detto che gli ebrei da 350 mila sono ridotti a 30 mila: dentro l’anno devono essere morti tutti. Tutte le notti, autocarri scoperti vanno in giro per i quartieri ebrei, a far razzie: gli ebrei tutte le sere preparano gli indumenti perché può darsi che nella notte il carro dei morti venga a prenderli. Sono portati alla polizia, la valigia gliela pigliano, li mandano «in Polonia». Muoiono durante il viaggio: li lasciano morire di freddo e di fame in qualche stazioncina sperduta della Polonia, chiusi in carri bestiame. A Vienna questi carri che vanno a pigliar gli ebrei ora li fanno circolar di giorno nelle vie centrali per propaganda: sono aperti, e gli ebrei vi stanno ritti, uno accanto all’altro, vecchi cadenti e donne: vanno apposta a gran velocità alle curve, perché quelli siano sbattuti di qua e di là. E la gente vede e inorridisce, ma tace e sopporta.

Piero Calamandrei, 25 dicembre 1942, tratto da Diario II 1942-1945, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015, p. 105.



Mi sono fidato finora della mia memoria per ricordare date e fatti e nomi riferentesi al mio arresto, al processo, al calvario della reclusione, ma devo constatare con rincrescimento che la mia memoria comincia ad infiacchirsi e non vorrei, se dovessi veramente passare dieci anni in una casa di pena, vedere svanire il ricordo di quei fatti e dei particolari di essi, che mi hanno portato a vestire la onorata casacca del “detenuto politico” […]. Il giovedì mattina, 30 ottobre 1930, verso le ore sette sentii suonare il campanello: – Strano! Chi può essere a quest’ora? – pensai […] fui accompagnato al commissariato di via Poma. Fui perquisito; depositai denaro, catena, orologio, penna stilografica; mi si fece togliere cravatta e colletto e fui chiuso in una “camera di sicurezza”, una stanza con un finestrone chiuso da inferriata, alto più di due metri e mezzo dal pavimento, con un tavolaccio e alcune coperte sudicie; un buco, in un angolo, che esalava un tonfo nauseante. Una luce crepuscolare, un freddo tagliente. Erano le otto del mattino. In poco più di un’ora ero passato dal santo rifugio della mia vita al crogiuolo dei delinquenti. Come? Perché? Mistero! Ero calmo, tranquillo, ma una pena infinita mi stringeva il cuore.

Vincenzo Calace, dalla memoria scritta tra il 9 febbraio e il 13 marzo 1932 all’interno della terza sezione del carcere di Pallanza, in parte nella cella n. 40 e in parte nella 72. Militante di Giustizia e Libertà, tradito da una spia, Calace fu arrestato nell’ottobre del 1930, processato e condannato dal Tribunale Speciale a dieci anni di carcere, poi ridotti a cinque. Fu privato della libertà, tra reclusione e confino, per quasi tredici anni. Uscì dalla galera definitivamente il 30 luglio 1943 e aderì al Partito d’Azione. Nel gennaio 1944, il Congresso del CLN di Bari lo elesse membro della Giunta Esecutiva Permanente. Cfr. Vincenzo Calace, Lettere dal carcere e dal confino (1930-1943), raccolta a cura di Felice Pellegrini, Associazione Mazziniana Italiana Bisceglie, Terlizzi, Bari 2015.         

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