Il 28 aprile 1949, quattro anni dopo la Liberazione, Ada Gobetti ricordava così la fine della guerra a Torino con la sconfitta del nazifascismo, prima dell’arrivo degli Alleati.

 Non ci sarebbero più stati bombardamenti, incendi, rastrellamenti, arresti, fucilazioni, impiccagioni, massacri. E questa era una grande cosa. E neanche mi spaventavano le difficoltà pratiche, materiali, che bisognava affrontare per ricostruire un paese disorganizzato e devastato: ché le infinite risorse del nostro popolo avrebbero trovato per ogni cosa le più impensate e impensabili soluzioni. Confusamente intuivo però che incominciava un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta. Si trattava ora di combattere non più contro la prepotenza, la crudeltà e la violenza, – facili da individuare e da odiare -, ma contro interessi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. E si trattava inoltre di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare; per non abbandonarci alla comoda esaltazione di parole e di frasi, ma rinnovandoci tenendoci «vivi». Si trattava insomma di non lasciar che si spegnesse nell’aria morta d’una normalità solo apparentemente riconquistata, quella piccola fiamma d’umanità solidale e fraterna che avevam visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati. Sapevo che – anche caduta, con l’esaltazione della vittoria, la meravigliosa identità che in quei giorni aveva unito quasi tutto il nostro popolo – saremmo stati in molti a combattere questa dura battaglia: gli amici, i compagni di ieri sarebbero stati anche quelli di domani. Ma sapevo anche che la lotta non sarebbe stato un unico sforzo, non avrebbe avuto più, come prima, un suo unico, immutabile volto; ma si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi; e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti, perseguir la propria luce e la propria via. Tutto questo mi faceva paura. E a lungo, in quella notte – che avrebbe dovuto essere di distensione e di riposo – mi tormentai, chiedendomi se avrei saputo esser degna di questo avvenire, ricco di difficoltà e di promesse, che m’accingevo ad affrontare con trepidante umiltà.        

Da Ada Gobetti, Diario partigiano (Einaudi, Torino 1956).

 



Io sono in genere meno pessimista nel giudizio sul PdA di quello che spesso si sente dire in Italia. E cioè, è vero che il Partito d’Azione si è dissolto, che non ha avuto la capacità di mantenere una continuità politica, che abbiamo dovuto cedere il potere alla Democrazia Cristiana […] ma la trasformazione dell’Italia, quello che indebitamente si chiama il miracolo economico italiano, la trasformazione dell’Italia dal ’45 […] è dovuta in parte notevole agli uomini del Partito d’Azione ed è molto più profonda e importante di quello che non si pensi.

Da Franco Venturi, Una società fondata sulla ragione, intervista a cura di Federico Jolli, 23 marzo 1989, pubblicata in «Linea d’ombra», 10/1992, due anni prima della scomparsa di Venturi. Ora in Scritti sparsi, a cura di Guido Franzinetti ed Edoardo Tortarolo, Aragno Editore, Torino 2022.

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