Il 27 giugno 1924, due giorni dopo che Camera e Senato avevano confermato la fiducia al Governo Mussolini, l’assemblea dei gruppi dell’opposizione si riunì a Montecitorio per commemorare Matteotti. Dopo un discorso pronunciato da Turati in ricordo del segretario del PSU, fu approvata una mozione in cui si sosteneva che le opposizioni non avrebbero partecipato ai lavori della Camera fino a quando non sarebbe nato un nuovo esecutivo in grado di ripristinare la legalità. Turati, chiarendo il significato di questa presa di posizione, disse che gli oppositori del fascismo si erano ritirati «sull’Aventino delle loro coscienze», proponendo un parallelismo con la secessione dei plebei sull’Aventino nell’antica Roma. Nel governo si ebbe un rimpasto, Vittorio Emanuele III tuttavia non intervenne come qualcuno, soprattutto fra gli oppositori liberali a Mussolini, aveva sperato. La situazione non cambiò dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti vicino a Roma (16 agosto), anzi Mussolini il 31 agosto attaccò violentemente le opposizioni in un discorso ai minatori del Monte Amiata, definendole «impotenti» e dichiarando di essere pronto a farne «strame per gli accampamenti delle camicie nere». Il PCd’I prima propose di dar vita a una sorta di “anti-parlamento” (metà ottobre), con l’intento di contrapporre alla Camera un’assemblea che rivendicasse la guida politica del paese, poi alla riapertura del Parlamento scelse di abbandonare l’Aventino e di rientrare alla Camera. Il 30 novembre le altre opposizioni, dopo aver ribadito la linea astensionistica, si radunarono a Milano guidate da Giovanni Amendola. La posizione degli aventiniani era stata chiarita l’11 novembre in un manifesto, con il quale era stata ribadita la richiesta di un nuovo esecutivo che potesse ristabilire la legalità e indire nuove elezioni politiche. Nel manifesto, pubblicato il giorno prima che il PCd’I annunciasse che sarebbe rientrato alla Camera nella seduta del 26 novembre, tra l’altro si leggeva:
«le opposizioni parlamentari […] dichiarano al Paese che non interverranno ai lavori parlamentari mentre perdura, aggravata, la situazione che esse formalmente denunciarono il 27 giugno […]. Le opposizioni hanno sperato di mantenere questa lotta entro i confini del dibattito parlamentare, fino al giorno in cui una tragica esperienza dimostrò l’inanità dello sforzo […]. Oggi, a cinque mesi di distanza, il regime fascista grava pesantemente sull’Italia come nel giugno […] le opposizioni non intendono rendersi complici di una finzione per la quale ad una volontà politica che si dichiara indifferente alla manifestazione legale della volontà popolare ed anzi si premura con le armi contro la difesa di essa, viene consentito di nascondersi dietro le apparenze esterne della legalità parlamentare adottata solo quale espediente ad ingannare la pubblica opinione».
Ma nulla di significativo accadde nella parte finale dell’anno: le opposizioni, divise, non riuscirono ad incidere concretamente e Vittorio Emanuele III, come aveva fatto alla fine di ottobre del 1922 dopo la Marcia su Roma, diede fiducia a Mussolini. Il duce, il 3 gennaio 1925, in un violento discorso alla Camera dichiarò di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto» in tutto il periodo del suo governo, compresa la seconda metà del 1924. Tra l’altro, giudicò l’Aventino un «risveglio sovversivo» e minacciò di eliminare definitivamente le opposizioni con la forza, scatenando contro di loro i fascisti che stavano premendo per ulteriori misure repressive. Giovanni Amendola sarebbe morto in una clinica di Cannes il 7 aprile 1926 per i postumi di un violento pestaggio subito dai fascisti il 25 luglio 1925 (il terzo dell’anno), sulla strada fra Montecatini e Pistoia.