Caro Eugenio, pensavo che tu fossi morto, non avendo avuto risposta alle diverse missive che ti ho mandato, dalla liberazione in poi, quando l’altro giorno ho finalmente ricevuto la tua cartolina. Noi siamo tutti vivi; voi di «laggiù» non potrete mai comprendere cos’è stato questo periodo per noi e come si possa considerare fortunato chi l’ha scampata. Io più d’ogni altro ho ragione di dir questo, ché la mia vita in quest’ultimo anno è stato un susseguirsi di peripezie: sono stato partigiano per tutto questo tempo, sono passato attraverso un inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato, anzi avrei voluto fare di più.

Da una lettera di Italo Calvino a Eugenio Scalfari, spedita da Sanremo a Roma il 6 luglio 1945 

Devoto all’etica del dovere, Parri non si considerò mai un eroe. Parafrasando il titolo gobettiano, la sua fu una «Resistenza senza eroi». Se parlava di sé nei pubblici discorsi era per scusarsi delle molte sue inettitudini. Non era un oratore, non aveva mai avuto vera vocazione per la politica, era stato più volte colpevole di inescusabile ingenuità. Non aveva alcuna esperienza di governo e chiedeva scusa in anticipo dei suoi eventuali errori. Nel momento in cui deve contare sulle forze degli altri partiti, si accorge di essere rimasto solo: «Ero uno spaesato, uno spaesato inquieto». Ma anche nel momento della resa dei conti ai partiti che lo avevano lasciato solo, non si considerò mai uno sconfitto. Né tanto meno abbandonò la battaglia politica, che proseguì con serietà, senza tregua, sempre presente quando c’era da difendere l’onore dei combattenti per la libertà, sino agli ultimi anni. Nelle sue idee fu sempre fermissimo. Apparteneva all’etica del dovere, al cosiddetto «doverismo», la coerenza. Nonostante gli inganni e i disinganni, anche quando continuò a condurre un’azione politica in gruppi di minoranza il cui spazio di azione era diventato via via più ristretto, anche se non sempre irrilevante, non desistette dal credere nella forza delle idee. Il suo ideale costante, tenacemente perseguito, e adatto al mutare delle situazioni e degli schieramenti, fu la democrazia, contro ogni possibile deviazione: venisse dall’estrema destra o dall’estrema sinistra […]. Era un uomo semplice. Detestava la retorica, «l’inflazione declamatoria». Pur essendo un uomo di sinistra si sentiva urtato da «un sinistrismo generico e frasaiolo». Anche rispetto alla Resistenza, che difese sempre dagli attacchi e dalle incomprensioni, si oppose al reducismo querulo e dichiarò una volta per tutte di non essere disposto a fare «la guardia perpetua del Santo Sepolcro» […]. Non mi si è mai cancellato dalla mente il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova, quando Parri, allora presidente del Consiglio, venne a consegnare all’Università la medagli d’oro della lotta di liberazione. Lo accolse il rettore Egidio Mereghetti, uno dei protagonisti della Resistenza veneta. Attorno, gli studenti lo acclamavano a gran voce: «Maurizio! Maurizio!». Mi piace di tanto in tanto tornare col ricordo a quella giornata. Non per nostalgia, sarebbe ridicolo. Ma per ritrovare ancora la forza per non disperare nel nostro Paese.

Norberto Bobbio su Ferruccio Parri, da uno scritto intitolato La forza delle idee e pubblicato su «Storia e memorie», a. I, n. 1, 1992

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