Sandro Pertini, già condannato a otto mesi di carcere nel 1925 per il suo impegno contro il fascismo, fu costretto all’esilio a Parigi e a Nizza per evitare una seconda condanna a dieci mesi, per aver collaborato all’espatrio di Turati in Francia nel dicembre 1926. Rientrato in Italia sotto falso nome nel 1929, fu condannato dal Tribunale Speciale a 10 anni e nove mesi di carcere. Dal 1935 fu confinato a Ponza e, dopo un periodo alle Isole Tremiti, a Ventotene. Liberato nell’agosto 1943, fu nuovamente arrestato con Saragat nell’ottobre 1943 e condannato a morte. Fuggì in modo rocambolesco da Regina Coeli nel gennaio 1944 grazie a un’ardita operazione dei partigiani delle Brigate Matteotti. Fu uno dei protagonisti della Resistenza e della storia socialista nel secondo dopoguerra. Dopo la condanna del 1929 fu internato prima a Roma, poi a Turi (dove divenne amico di Gramsci) e a Pianosa. Qui seppe che sua madre, preoccupata per le cattive condizioni di salute del figlio, aveva inoltrato al presidente del Tribunale speciale una domanda di grazia a cui, coerentemente con il suo carattere intransigente e i suoi ideali di libertà, reagì con indignazione scrivendo al presidente del tribunale e alla madre. Si riproducono qui le due lettere del 1933, che ben restituiscono la forte personalità mostrata da Pertini anche durante l’Italia repubblicana.

Lettera del 23 febbraio 1933 al Presidente del Tribunale Speciale:
La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente. Non mi associo, quindi, a simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme.
Il recluso politico Sandro Pertini

Passi della lettera alla madre del 26 febbraio 1933:
Mamma, con quale animo hai potuto fare questo? Non ho più pace da quando mi hanno comunicato che tu hai presentato domanda di grazia per me. Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto, ti pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda. Debbo frenare lo sdegno del mio animo, perché sei mia madre e questo non debbo dimenticarlo. Dimmi mamma, perché hai voluto offendere la mia fede? […]. Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna – quale smarrimento ti ha sorpresa, perché tu abbia potuto compiere un simile atto di debolezza? E mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà […]. La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di questo tradimento, che si è osato proporre a me. Nulla può giustificare questo tuo imperdonabile atto. Lo so, più di te sono colpevoli coloro, che ti hanno consigliata di compierlo […]. Mi si lasci in pace, con la mia condanna, che è il mio orgoglio e con la mia fede, che è tutta la mia vita. Non ho chiesto mai pietà a nessuno e non ne voglio. Mai mi sono lagnato di essere in carcere e perché, dunque, propormi un così vergognoso mercato? E tu povera mamma ti sei lasciata persuadere, perché troppo ti tormenta il pensiero che io non ti trovi più al mio ritorno. Ma dimmi, mamma, come potresti riabbracciare tuo figlio, se a te tornasse macchiato di un così basso tradimento? Come potrei viverti vicino, dopo aver venduto la mia fede, che tu hai sempre tanto ammirata?

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