Elena Savino

Paolo Bagnoli, La Rivoluzione della Libertà. Gobettismo, giellismo, azionismo: il filo storico della “rivoluzione democratica”, Biblion, Milano, 2023

Quest’ultimo lavoro dell’instancabile Paolo Bagnoli è composto di scritti apparsi tra il 1988 e il 2023 legati tutti dalla ricerca intorno al concetto di libertà, elemento unificatore della tradizione gobettiana giellista e azionista. La presentazione Al lettore è apertamente polemica sul presente. La rivoluzione democratica, che è il progetto globale di una rifondazione dello Stato liberale modellata sugli elementi del socialismo aggiornati dalla tradizione politica in oggetto, è – scrive l’autore – “da sempre assente nella storia del nostro paese”. Lo sguardo è rivolto a maestri e compagni che ispirano le pagine del libro: Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, Tristano Codignola, Paolo Vittorelli.

            Nel primo saggio appare Piero Gobetti con le qualità che lo distinguono; quelle che egli stesso si è attribuito e le altre usate da critici e interpreti: aridezza, volontà, eresia, competizione, consapevolezza, serietà, autonomia, “spirito rude”, “inquietudine di un barbaro”, buon combattente. Sono elencati poi i nuclei del pensiero gobettiano e in particolare la corrispondenza tra teoria dello Stato e teoria della società, e la proposta di una riforma globale intesa come crescita, conoscenza e coscienza individuale e collettiva, e cioè libertà dell’individuo e della collettività insieme. Si legge tra le righe una certa analogia tra la constatazione gobettiana del fallimento del Risorgimento, che non ha saputo costruire uno Stato liberale, e il fallimento della Resistenza, che non ha dato vita alla Rivoluzione democratica giellista e azionista.

            Il secondo saggio piuttosto didascalico offre un breve excursus della riflessione di Carlo Rosselli a partire dagli anni giovanili. Il liberalismo socialista degli esordi, che si nutriva di studi su il sindacalismo operaio, gli economisti liberali, il laburismo inglese, e trovava compimento nel Socialismo liberale – pubblicato a Parigi nel 1930 – che era una sintesi già matura del revisionismo del socialismo democratico di Eduard Bernstein, Filippo Turati, Claudio Treves.

            Rosselli era partito dal rifiuto della dimensione prefascista della politica e dei partiti, e dalla critica dei limiti del socialismo nostrano: il classismo, il determinismo marxista, la relativa importanza attribuita alla libertà, e infine l’errata e semplicistica valutazione del fascismo come reazione di classe. Occorreva fare piazza pulita del prefascismo: uomini e idee, come viene ripetuto anche nei saggi successivi dedicati al movimento Giustizia e Libertà, fondato da Rosselli nel 1929. L’idea ambiziosa era porre le basi teoriche e pratiche della rifondazione dello Stato, dove i termini libertà e giustizia erano pensati nel quadro di una nuova democrazia socialista e dovevano essere riempiti da tre riforme: agraria, industriale, bancaria.

            Bagnoli riflette sull’eredità rosselliana e sulla riformulazione moderna del socialismo contenuta nel manifesto di Giustizia e Libertà, che prendeva le mosse dalla rottura col prefascismo e dunque dalla necessità di “archiviare le tessere e allargare gli orizzonti”. Il socialismo della tradizione turatiana – avverte l’autore – era morto con l’ascesa di Mussolini e Rosselli partiva proprio dal ripensamento di questo socialismo e dei suoi massimi teorici superati dagli eventi. Nel pensiero rosselliano si avvertono anche altri fattori politici: presenze di origine amendoliana e repubblicana e figure a lui vicine negli anni dell’esilio parigino: Alberto Cianca, Leo Valiani, Emilio Lussu, Paolo Vittorelli.

            Il quinto saggio dal titolo La libertà socialista liberale è forse il più originale. Bagnoli parte dalla critica del concetto di libertà di origine settecentesca come declinato oggi in senso liberista economico da coloro che definisce anarco-capitalisti. La libertà di questi cattivi epigoni è intesa in senso individualista e i due elementi principali che la caratterizzano sono la separazione tra etica e politica e la svalutazione del ruolo dello Stato, strada che porta a una libertà pressoché illimitata e allo scollamento dell’individuo dalla collettività e dalle istituzioni. Il saggio di Bagnoli punta il dito contro una legislazione che separa, dove il privato esclude in nome di una libertà individualista, relegata in spazi chiusi, non condivisi. Sulla base di tale premessa l’autore suggerisce risposte concrete per correggere una deriva fin troppo evidente nel mondo contemporaneo. In generale occorre ripartire dal nesso tra etica e politica e dal pensiero di Rosselli.

            Nella parte propositiva vi è uno sviluppo originale del concetto di libertà che sulla scia delle riflessioni rosselliane concepisce la libertà come autonomia, libertà dal bisogno, libertà come mezzo e come fine insieme. Occorre concepire una legislazione che consideri l’individuo parte della comunità in un rapporto dove pubblico e privato non sono separati. Contribuisce in questo approccio anche la riflessione di Francesco Saverio Merlino di una libertà come convivenza, reciprocità, redistribuzione e cioè giustizia redistributiva per arrivare a un’idea di libertà che significa capacità concreta e positiva, non libertà da ma libertà di. Sia Rosselli che Merlino, e con loro l’autore, sfuggono a una concezione astratta della libertà legandola a due condizioni: la tensione verso una redistribuzione che miri alla eliminazione di ineguaglianze economiche stridenti e il ruolo indispensabile delle istituzioni, garanti di una libertà vera affiancata dell’associazionismo e dalla cooperazione economica ed etica. Questa complessa idea di libertà è sostenuta da uno slancio morale ben evidente nel pensiero di Rosselli e Merlino. La prospettiva spiegata da Bagnoli, anche attraverso le riflessioni dell’economista e filosofo morale indiano Amartya Sen, pone alla base della libertà la giustizia e il ruolo regolatore delle istituzioni che assicurano e garantiscono una “libertà stabile e legittima”.

            In definitiva questa moderna idea di libertà secondo l’accezione socialista liberale poggia su alcune condizioni irrinunciabili: la prima è la cooperazione che sta alla base della convivenza e delle istituzioni, la quale “per dispiegarsi deve essere libera da impedimenti”; la seconda “si articola, in modo precipuo, rispetto alla società e presuppone una centralità delle istituzioni e la qualificazione per ogni individuo a contribuire alla produzione delle norme che le regolano”, quindi una libertà positiva che si realizza in una condizione di indipendenza materiale che fa “della titolarità dei diritti una vera e propria capacità, ovvero una possibilità effettiva e piena di fare, contrapposta ad ogni titolo o status meramente formale cui non corrisponda un adeguato potere di azione”; la terza condizione rimanda alla libertà definita all’interno di “un rapporto solidale di tutti gli individui fra loro e degli individui con le istituzioni”. (pp. 74-75)

            In sintesi la libertà nel pensiero di Rosselli e dei suoi più vicini eredi si connota per tre caratteristiche fondamentali: “è connessa con il concetto di eguaglianza e tale connessione è regolata da principi di giustizia con una specifica valenza etica; si traduce in un’effettiva capacità di esercitare in modo pieno le facoltà connesse a tale libertà; struttura un complesso di regole che garantiscono la convivenza pacifica degli individui, salvaguardando le loro peculiarità e la loro assoluta eguale dignità”. (p. 74)

            A questo saggio particolarmente ricco e intenso si collega il successivo – Contrattualismo socialista liberale – che propone una rivalutazione del pensiero contrattualista inteso come esigenza di giustizia secondo la sistemazione teorica di John Rawls nel libro che ha per titolo Una teoria della giustizia (a cura di Sebastiano Maffettone, Feltrinelli, 1982). Bagnoli sulla scia del filosofo statunitense ripropone la teoria contrattualista come una vera e propria teoria della democrazia o anche come una teoria della giustizia. La rivisitazione di Rawls, il quale si presenta con un understatement, sostenendo di non dire molto di nuovo rispetto ai grandi che lo hanno preceduto – Locke, Kant, Rousseau -, ha il pregio di voler dare una risposta alla crisi del mondo contemporaneo che pone l’esigenza inderogabile di una filosofia della pratica, ossia di una teoria capace di rinnovare la legittimità delle istituzioni democratiche.

            Bagnoli nel ripensamento della teoria contrattualista di matrice settecentesca si appoggia anche alla riflessione di Salvatore Veca che nel libro Una filosofia pubblica del 1986 distingue tra giustizia allocativa e giustizia distributiva, dove quest’ultima è basata su principi etici che modellano la convivenza civile. Per questa strada superando le cornici ideologiche proprie del passato si arriva così al rapporto simbiotico tra liberalismo e socialismo, dove da un lato si rigetta l’individualismo proprio delle prime teorie liberali e dall’altro si scarta il socialismo collettivista delle origini.

            Gli ultimi due saggi di questa raccolta sono dedicati a Leo Valiani e all’evoluzione politica del pensiero giellista fino alla nascita del Partito d’Azione nel giugno del 1942. Sfilano per cenni le radici profonde dell’azionismo, ossia “le radici lontane”: Benedetto Croce, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Amendola, evocati da Valiani con elementi critici, specie in riferimento al “tentativo meritorio” di Amendola di sbarrare la strada all’ascesa di Mussolini, condizionato però da un certo attaccamento alla tradizione liberale democratica, morta sotto le manganellate del fascismo. Secondo i fondatori del PdA, superata tutta la tradizione prefascista, occorreva dar vita alla rivoluzione democratica che doveva essere una rivoluzione non di classe, ma autonomista, volta a conquistare lo Stato e a riformarlo ab imis. Il Partito d’Azione doveva essere lo strumento di tale rivoluzione.

            Di fronte alla complessità e alla modernità del pensiero giellista e azionista rimane la domanda sulle ragioni della frantumazione del partito nel Congresso del 1946, cui succede il magro risultato alle elezioni della Costituente e lo scioglimento nel 1947, seguito da una diaspora a ranghi sciolti. La fine del Partito d’Azione durato l’espace d’un matin non ha significato però il fallimento della sua cultura politica che infatti continua ad essere viva dopo decenni.

            Già all’indomani della elezione della Costituente Valiani era però in grado di enucleare le principali ragioni del fallimento azionista e innanzitutto il mancato appoggio dei socialisti. Nenni aveva scelto l’alleanza col PCI, di fatto consegnando il pensiero socialdemocratico nell’alveo comunista a quel tempo dipendente dall’Urss. Nell’immediato dopoguerra pesava poi la mancanza di una tradizione azionista consolidata, essendo il PdA una formazione giovanissima vissuta in un periodo di libertà conculcata. Il partito della Resistenza poi non aveva dietro le masse, per le sue dichiarate posizioni aclassiste, né l’appoggio dei ceti medi, allora fascisti e cattolici, ostili all’intransigenza morale degli azionisti, che avrebbero voluto una severa epurazione. Un partito giacobino insomma che non poteva certo piacere alla media e piccola borghesia che era stata connivente e assolutoria durante il ventennio.

            La Rivoluzione democratica nel pensiero di Rosselli e dei suoi eredi presupponeva la saldatura fra civiltà liberale e movimento operaio: i liberali democratici avrebbero dovuto fare proprie le istanze di giustizia sociale delle sinistre e i nuovi socialisti avrebbero dovuto abbracciare il liberalismo, ma questa saldatura era mancata. Pochi avevano capito che il socialismo liberale era lo sbocco naturale dei partiti socialisti europei, perché libero dalle ipoteche del marxismo e dell’esclusivismo classista.

            Il contesto storico dell’Italia del secondo dopoguerra e le ragioni contingenti che Valiani suggeriva avevano decretato la fine del Partito d’azione, ma non la fine dell’immensa eredità politica ed etica giellista e azionista. Bagnoli non dimentica nemmeno alcune figure dell’Ottocento che costituiscono le radici antiche e profonde dell’idea di rivoluzione democratica: Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Giuseppe Montanelli. La rivoluzione liberale di Gobetti doveva colmare le insufficienze del Risorgimento e innanzitutto formare una nuova classe dirigente, e risulta chiaro in questo denso librino il nesso tra rivoluzione liberale e rivoluzione democratica. L’autore dimostra la coincidenza del pensiero di Gobetti e di Rosselli uniti dal sentimento di una libertà solidale, di una libertà come metodo liberale. Coincidenza confermata dalla risposta che Rosselli dava nel 1932 alla critica di Giorgio Amendola: “Quando anni or sono, alcuni di noi riassumevano come voi nella parola rivoluzione liberale il loro programma rinnovatore […] essi postulavano l’autonomia morale per l’individuo e il libero urto di gruppi e di classi: additavano come loro ideale un processo lento e faticoso di autoelevazione e di autoeducazione delle masse, per il quale l’ambiente e il metodo della libertà severamente concepiti erano e restano fondamentali”. (pp. 134-135) Conclude l’autore di questi saggi: “il metodo liberale è insito nella formula della rivoluzione liberale, di quanto la motiva sul piano storico e politico, nell’idea di un processo storico-politico fondato sulla libertà, sul principio dell’autonomia critica […] su una visione per la quale la morale sta a fondamento della politica…”. (p. 135)

Emerge in queste pagine la durata di figure ancora vive idealmente, ma scomode. Sfilano in rapida sequenza personalità del mondo azionista che mi piace ricordare: Ugo La Malfa, lucido teorico del partito, Mario Boneschi, uno dei fondatori e animatori de “Lo Stato Moderno”, e poi Carlo Ludovico Ragghianti, Alberto Cianca, Federico Comandini, Riccardo Bauer, Manlio Rossi Doria, Adolfo Battaglia, Tristano Codignola. Quest’ultimo è stato per Bagnoli un maestro, un amico, un compagno, ed è lui che ispira il profilo socialista liberale del Partito d’azione nelle ultime pagine: “un partito rivoluzionario nel nome della libertà e della giustizia sociale”; un partito socialista perché “soggetto di un socialismo nuovo rispetto alle ideologie del passato”; un partito tributario delle avanguardie rappresentate a Firenze da Gaetano Salvemini, Carlo e Nello Rosselli, che hanno raccolto l’eredità di Gobetti e di Antonio Gramsci. (pp. 163-154). Bagnoli quasi confonde il suo pensiero con quello di Codignola e ci lascia una toccante, composita sintesi delle origini e degli ideali che hanno sorretto la nascita di GL e del Partito d’Azione.

Il secondo saggio piuttosto didascalico offre un breve excursus della riflessione di Carlo Rosselli a partire dagli anni giovanili. Il liberalismo socialista degli esordi, che si nutriva di studi su il sindacalismo operaio, gli economisti liberali, il laburismo inglese, e trovava compimento nel Socialismo liberale – pubblicato a Parigi nel 1930 – che era una sintesi già matura del revisionismo del socialismo democratico di Eduard Bernstein, Filippo Turati, Claudio Treves. 

Rosselli era partito dal rifiuto della dimensione prefascista della politica e dei partiti, e dalla critica dei limiti del socialismo nostrano: il classismo, il determinismo marxista, la relativa importanza attribuita alla libertà, e infine l’errata e semplicistica valutazione del fascismo come reazione di classe. Occorreva fare piazza pulita del prefascismo: uomini e idee, come viene ripetuto anche nei saggi successivi dedicati al movimento Giustizia e Libertà, fondato da Rosselli nel 1929. L’idea ambiziosa era porre le basi teoriche e pratiche della rifondazione dello Stato, dove i termini libertà e giustizia erano pensati nel quadro di una nuova democrazia socialista e dovevano essere riempiti da tre riforme: agraria, industriale, bancaria.

Bagnoli riflette sull’eredità rosselliana e sulla riformulazione moderna del socialismo contenuta nel manifesto di Giustizia e Libertà, che prendeva le mosse dalla rottura col prefascismo e dunque dalla necessità di “archiviare le tessere e allargare gli orizzonti”. Il socialismo della tradizione turatiana – avverte l’autore – era morto con l’ascesa di Mussolini e Rosselli partiva proprio dal ripensamento di questo socialismo e dei suoi massimi teorici superati dagli eventi. Nel pensiero rosselliano si avvertono anche altri fattori politici: presenze di origine amendoliana e repubblicana e figure a lui vicine negli anni dell’esilio parigino: Alberto Cianca, Leo Valiani, Emilio Lussu, Paolo Vittorelli.  

Il quinto saggio dal titolo La libertà socialista liberale è forse il più originale. Bagnoli parte dalla critica del concetto di libertà di origine settecentesca come declinato oggi in senso liberista economico da coloro che definisce anarco-capitalisti. La libertà di questi cattivi epigoni è intesa in senso individualista e i due elementi principali che la caratterizzano sono la separazione tra etica e politica e la svalutazione del ruolo dello Stato, strada che porta a una libertà pressoché illimitata e allo scollamento dell’individuo dalla collettività e dalle istituzioni. Il saggio di Bagnoli punta il dito contro una legislazione che separa, dove il privato esclude in nome di una libertà individualista, relegata in spazi chiusi, non condivisi. Sulla base di tale premessa l’autore suggerisce risposte concrete per correggere una deriva fin troppo evidente nel mondo contemporaneo. In generale occorre ripartire dal nesso tra etica e politica e dal pensiero di Rosselli.

Nella parte propositiva vi è uno sviluppo originale del concetto di libertà che sulla scia delle riflessioni rosselliane concepisce la libertà come autonomia, libertà dal bisogno, libertà come mezzo e come fine insieme. Occorre concepire una legislazione che consideri l’individuo parte della comunità in un rapporto dove pubblico e privato non sono separati. Contribuisce in questo approccio anche la riflessione di Francesco Saverio Merlino di una libertà come convivenza, reciprocità, redistribuzione e cioè giustizia redistributiva per arrivare a un’idea di libertà che significa capacità concreta e positiva, non libertà da ma libertà di. Sia Rosselli che Merlino, e con loro l’autore, sfuggono a una concezione astratta della libertà legandola a due condizioni: la tensione verso una redistribuzione che miri alla eliminazione di ineguaglianze economiche stridenti e il ruolo indispensabile delle istituzioni, garanti di una libertà vera affiancata dell’associazionismo e dalla cooperazione economica ed etica. Questa complessa idea di libertà è sostenuta da uno slancio morale ben evidente nel pensiero di Rosselli e Merlino. La prospettiva spiegata da Bagnoli, anche attraverso le riflessioni dell’economista e filosofo morale indiano Amartya Sen, pone alla base della libertà la giustizia e il ruolo regolatore delle istituzioni che assicurano e garantiscono una “libertà stabile e legittima”.

In definitiva questa moderna idea di libertà secondo l’accezione socialista liberale poggia su alcune condizioni irrinunciabili: la prima è la cooperazione che sta alla base della convivenza e delle istituzioni, la quale “per dispiegarsi deve essere libera da impedimenti”; la seconda “si articola, in modo precipuo, rispetto alla società e presuppone una centralità delle istituzioni e la qualificazione per ogni individuo a contribuire alla produzione delle norme che le regolano”, quindi una libertà positiva che si realizza in una condizione di indipendenza materiale che fa “della titolarità dei diritti una vera e propria capacità, ovvero una possibilità effettiva e piena di fare, contrapposta ad ogni titolo o status meramente formale cui non corrisponda un adeguato potere di azione”; la terza condizione rimanda alla libertà definita all’interno di “un rapporto solidale di tutti gli individui fra loro e degli individui con le istituzioni”. (pp. 74-75)

In sintesi la libertà nel pensiero di Rosselli e dei suoi più vicini eredi si connota per tre caratteristiche fondamentali: “è connessa con il concetto di eguaglianza e tale connessione è regolata da principi di giustizia con una specifica valenza etica; si traduce in un’effettiva capacità di esercitare in modo pieno le facoltà connesse a tale libertà; struttura un complesso di regole che garantiscono la convivenza pacifica degli individui, salvaguardando le loro peculiarità e la loro assoluta eguale dignità”. (p. 74)

A questo saggio particolarmente ricco e intenso si collega il successivo – Contrattualismo socialista liberale – che propone una rivalutazione del pensiero contrattualista inteso come esigenza di giustizia secondo la sistemazione teorica di John Rawls nel libro che ha per titolo Una teoria della giustizia (a cura di Sebastiano Maffettone, Feltrinelli, 1982). Bagnoli sulla scia del filosofo statunitense ripropone la teoria contrattualista come una vera e propria teoria della democrazia o anche come una teoria della giustizia. La rivisitazione di Rawls, il quale si presenta con un understatement, sostenendo di non dire molto di nuovo rispetto ai grandi che lo hanno preceduto – Locke, Kant, Rousseau -, ha il pregio di voler dare una risposta alla crisi del mondo contemporaneo che pone l’esigenza inderogabile di una filosofia della pratica, ossia di una teoria capace di rinnovare la legittimità delle istituzioni democratiche.

Bagnoli nel ripensamento della teoria contrattualista di matrice settecentesca si appoggia anche alla riflessione di Salvatore Veca che nel libro Una filosofia pubblica del 1986 distingue tra giustizia allocativa e giustizia distributiva, dove quest’ultima è basata su principi etici che modellano la convivenza civile. Per questa strada superando le cornici ideologiche proprie del passato si arriva così al rapporto simbiotico tra liberalismo e socialismo, dove da un lato si rigetta l’individualismo proprio delle prime teorie liberali e dall’altro si scarta il socialismo collettivista delle origini.

Gli ultimi due saggi di questa raccolta sono dedicati a Leo Valiani e all’evoluzione politica del pensiero giellista fino alla nascita del Partito d’Azione nel giugno del 1942. Sfilano per cenni le radici profonde dell’azionismo, ossia “le radici lontane”: Benedetto Croce, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Amendola, evocati da Valiani con elementi critici, specie in riferimento al “tentativo meritorio” di Amendola di sbarrare la strada all’ascesa di Mussolini, condizionato però da un certo attaccamento alla tradizione liberale democratica, morta sotto le manganellate del fascismo. Secondo i fondatori del PdA, superata tutta la tradizione prefascista, occorreva dar vita alla rivoluzione democratica che doveva essere una rivoluzione non di classe, ma autonomista, volta a conquistare lo Stato e a riformarlo ab imis. Il Partito d’Azione doveva essere lo strumento di tale rivoluzione.

Di fronte alla complessità e alla modernità del pensiero giellista e azionista rimane la domanda sulle ragioni della frantumazione del partito nel Congresso del 1946, cui succede il magro risultato alle elezioni della Costituente e lo scioglimento nel 1947, seguito da una diaspora a ranghi sciolti. La fine del Partito d’Azione durato l’espace d’un matin non ha significato però il fallimento della sua cultura politica che infatti continua ad essere viva dopo decenni.

Già all’indomani della elezione della Costituente Valiani era però in grado di enucleare le principali ragioni del fallimento azionista e innanzitutto il mancato appoggio dei socialisti. Nenni aveva scelto l’alleanza col PCI, di fatto consegnando il pensiero socialdemocratico nell’alveo comunista a quel tempo dipendente dall’Urss. Nell’immediato dopoguerra pesava poi la mancanza di una tradizione azionista consolidata, essendo il PdA una formazione giovanissima vissuta in un periodo di libertà conculcata. Il partito della Resistenza poi non aveva dietro le masse, per le sue dichiarate posizioni aclassiste, né l’appoggio dei ceti medi, allora fascisti e cattolici, ostili all’intransigenza morale degli azionisti, che avrebbero voluto una severa epurazione. Un partito giacobino insomma che non poteva certo piacere alla media e piccola borghesia che era stata connivente e assolutoria durante il ventennio.

La Rivoluzione democratica nel pensiero di Rosselli e dei suoi eredi presupponeva la saldatura fra civiltà liberale e movimento operaio: i liberali democratici avrebbero dovuto fare proprie le istanze di giustizia sociale delle sinistre e i nuovi socialisti avrebbero dovuto abbracciare il liberalismo, ma questa saldatura era mancata. Pochi avevano capito che il socialismo liberale era lo sbocco naturale dei partiti socialisti europei, perché libero dalle ipoteche del marxismo e dell’esclusivismo classista.

Il contesto storico dell’Italia del secondo dopoguerra e le ragioni contingenti che Valiani suggeriva avevano decretato la fine del Partito d’azione, ma non la fine dell’immensa eredità politica ed etica giellista e azionista. Bagnoli non dimentica nemmeno alcune figure dell’Ottocento che costituiscono le radici antiche e profonde dell’idea di rivoluzione democratica: Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Giuseppe Montanelli. La rivoluzione liberale di Gobetti doveva colmare le insufficienze del Risorgimento e innanzitutto formare una nuova classe dirigente, e risulta chiaro in questo denso librino il nesso tra rivoluzione liberale e rivoluzione democratica. L’autore dimostra la coincidenza del pensiero di Gobetti e di Rosselli uniti dal sentimento di una libertà solidale, di una libertà come metodo liberale. Coincidenza confermata dalla risposta che Rosselli dava nel 1932 alla critica di Giorgio Amendola: “Quando anni or sono, alcuni di noi riassumevano come voi nella parola rivoluzione liberale il loro programma rinnovatore […] essi postulavano l’autonomia morale per l’individuo e il libero urto di gruppi e di classi: additavano come loro ideale un processo lento e faticoso di autoelevazione e di autoeducazione delle masse, per il quale l’ambiente e il metodo della libertà severamente concepiti erano e restano fondamentali”. (pp. 134-135) Conclude l’autore di questi saggi: “il metodo liberale è insito nella formula della rivoluzione liberale, di quanto la motiva sul piano storico e politico, nell’idea di un processo storico-politico fondato sulla libertà, sul principio dell’autonomia critica […] su una visione per la quale la morale sta a fondamento della politica…”. (p. 135)

Emerge in queste pagine la durata di figure ancora vive idealmente, ma scomode. Sfilano in rapida sequenza personalità del mondo azionista che mi piace ricordare: Ugo La Malfa, lucido teorico del partito, Mario Boneschi, uno dei fondatori e animatori de “Lo Stato Moderno”, e poi Carlo Ludovico Ragghianti, Alberto Cianca, Federico Comandini, Riccardo Bauer, Manlio Rossi Doria, Adolfo Battaglia, Tristano Codignola. Quest’ultimo è stato per Bagnoli un maestro, un amico, un compagno, ed è lui che ispira il profilo socialista liberale del Partito d’azione nelle ultime pagine: “un partito rivoluzionario nel nome della libertà e della giustizia sociale”; un partito socialista perché “soggetto di un socialismo nuovo rispetto alle ideologie del passato”; un partito tributario delle avanguardie rappresentate a Firenze da Gaetano Salvemini, Carlo e Nello Rosselli, che hanno raccolto l’eredità di Gobetti e di Antonio Gramsci. (pp. 163-154). Bagnoli quasi confonde il suo pensiero con quello di Codignola e ci lascia una toccante, composita sintesi delle origini e degli ideali che hanno sorretto la nascita di GL e del Partito d’Azione.

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