Renato Giorgi, Marzabotto parla (Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1955)
Quindici anni fa l’eccidio di Marzabotto del 1944 è stato raccontato, in maniera magistrale, attraverso gli occhi della piccola Martina, una delle pochissime sopravvissute, nel film L’uomo che verrà. Qui, scriveva Goffredo Fofi su «Avvenire»,
il regista Giorgio Diritti sa dosare con rara capacità di controllo quel che va mostrato e quel che va accennato e lascia a noi di tirare le somme, a noi che seguiamo l’azione con gli occhi di una bambina muta di otto anni di età. Il coro dei personaggi e la pluralità degli ambienti, il prima e il durante, il succedersi e il crescendo degli eventi e il loro spegnersi nel lutto, non riguardano soltanto un fatto specifico, bensì mille, migliaia, milioni di altri fatti consimili di ieri e di oggi, in ogni parte del mondo.
Il libro che Renato Giorgi, figura simbolo della Resistenza in Emilia-Romagna, dedicò alla “strage di Monte Sole” (quando ancora erano calde le prime ignobili sentenze di assoluzione di alcuni ufficiali tedeschi) sembra parlare da solo, fin dal titolo, Marzabotto parla, alludendo alle testimonianze che, in 149 pagine (di cui 24 fitte con i nomi di tutti i caduti e l’elenco delle distruzioni paese per paese), servono a fare chiarezza su una delle pagine più tragiche della Seconda guerra mondiale nel nostro Paese, tanto che il 25 settembre 1949 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi non ebbe dubbi a insignire Marzabotto della Medaglia d’Oro al Valore Militare.
La lettura di queste pagine fa rivivere con un brivido di orrore quello che fu il martirio di Marzabotto. Ciò era necessario a scolpire le colpe e le responsabilità, a denunziare un metodo, a provare che il delitto fu studiato, voluto, premeditato. Non fu gesto sconsiderato di un singolo o di pochi: fu il proposito calcolato e deliberato di distruggere tutta una popolazione, persino nelle nuove vite che sorgevano nel grembo delle madri.
Forse basterebbe anche solo la prefazione di Giuseppe Dozza per introdurci nell’abominio commesso in quei giorni d’inizio autunno del 1944, ma sono soprattutto le crude testimonianze che si trovano nel volume a darci il senso compiuto di una vera ecatombe, ricostruita attraverso i ricordi strazianti di quei pochi sopravvissuti che sfiorarono la morte.
Pensavamo che vecchi, donne e bambini potevano stare in chiesa, ritenuta più che sicura col prete don Uboldo Marchionni… ma con terrore notammo che i nazisti non rispettavano per nulla donne e bambini (Adelmo Benini); continuavano a ridere mostrando il mitra (Elena Ruggeri); piangendo un bimbo cerca pietà, ma viene finito con un colpo al cranio (Medardo Fabbri); tutti eravamo rassegnati. C’era un grande silenzio, nel buio arrivava distinto lo scatto degli otturatori per mettere le pallottole in canna. Poi le raffiche e gli scoppi delle bombe a mano (Gioacchino Piretti).
Oggi, a ottant’anni di distanza, a rileggere quanto Renato Giorgi (già autore di Sette stelle d’argento – sui fratelli Cervi – e dei Racconti della Resistenza) riuscì a recuperare dalla viva voce dei sopravvissuti c’è da rabbrividire. Marzabotto non era che l’ultima di una lunga serie di stragi, iniziate il 24 marzo a Roma con le Fosse Ardeatine (335 uomini fucilati per rappresaglia dopo l’attentato di via Rasella contro i tedeschi), e proseguite con quella che viene ricordata come “la marcia della morte” che, attraversando Versilia e Lunigiana, raggiunse il Bolognese. Lo scopo era fare “terra bruciata” attorno alle formazioni partigiane nelle retrovie della linea gotica, sterminando le popolazioni che le appoggiavano, perché – era l’infame pretesto – si diceva che tutti sono nemici perché aiutano o sono sospettati di aiutare i partigiani.
Dopo l’eccidio di Civitella Val di Chiana, in provincia di Arezzo, avvenuto il 29 giugno 1944 (con un bilancio di 244 morti) e la strage di Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca, perpetrata il 12 agosto (dove in poco più di tre ore furono massacrate 560 persone, tra cui molti bambini), le truppe naziste arrivarono sulla strada Nazionale 64 della Porrettana, in quella porzione di territorio collinare, a venti chilometri di Bologna, che un cartografo potrebbe condensare in quasi un triangolo «con il vertice a nord, a Sasso Marconi, e i lati segnati dal fiume Reno e dal torrente Setta, in un susseguirsi di gallerie buie, di arditi ponti sopraelevati, di caselli e piccole stazioni linde e razionali».
Questo fu il teatro del più vile sterminio di popolo, avvenuto tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, quando militari nazisti (sotto il comando del maggiore Walter Reder), affiancati da fascisti e camicie nere («non erano solo nazisti, c’erano anche fascisti delle Brigate nere perché ci segnavano a dito e parlavano il nostro dialetto», ricorda Carlo Cardi, che vede massacrare l’intera sua famiglia), si macchiarono di quello che comunemente è noto come l’eccidio di Marzabotto, dove vennero trucidati 1.830 civili innocenti, vecchi, donne e bambini, abitanti indifesi del circondario comprendente le frazioni di Caprara, Casaglia, Cerpiano, Cadotto, Sperticano, Villa Ignano, San Martino, Grizzana, Vado di Monzuno, Salvaro e Creda di Grizzana.
Le pagine di Marzabotto parla sono un monolitico memorandum delle storture della guerra, della barbarie, della disumanità, della malvagità, che sembrano albergare nel cuore dell’uomo per acuirsi e crogiolarsi nell’abominio quando si avvicina la resa dei conti. «Tutti fare kaput» è la frase che ricorre in molte delle testimonianze, un ordine che sembra dato con fiera indifferenza, senza curarsi delle conseguenze. Anzi no, proprio nella consapevolezza che un ordine di questo tipo può ampliare la gamma di brutalità, come quella di lanciare in aria un neonato (di Casaglia) come bersaglio per i fucili, oppure di freddare senza pietà quelli che si lamentavano.
Due donne saltarono dalla finestra e si diedero alla fuga. Una era vecchia e si nascose in un campo di granoturco. Un nazista andò a cercarla. Lei si alzò e corse, il tedesco la inseguì, l’afferrò per i capelli e l’uccise con la pisola. Ricorderò sempre la macchia rossa del suo vestito attraversare i campi fino al fosso.
L’orrore gratuito. Un orrore che ci si porta dentro per sempre, anche solo indugiando con lo sguardo su quelle valli, camminando su quella terra, dove ogni famiglia ha avuto il suo cimitero nel campo vicino a casa. Il perché lo spiega bene Renato Giorgi:
Le persone furono sterminate nelle case, nei fienili e nelle stalle: prima fucilate e bruciate, poi i resti minati. Mine sparse attorno e interrate tra le ossa, in agguato, per i sopravvissuti, quando andranno a seppellire i parenti.
Nel giro di una settimana, dopo i massacri, le sevizie, la violenza, la ferocia, l’ignobile spedizione dei nazifascisti è terminata. Ma la fisionomia di quel triangolo di valli e paesini è cambiata per sempre, perché i soldati della Wermacht e le SS avevano attuato l’ordine del Feldmaresciallo Kesselring, a capo delle truppe tedesche in Italia: fare terra bruciata.
Come possiamo comprendere bene dall’angosciata testimonianza di Attilio Comastri:
Finalmente mi ritrovai all’imbocco della vallata. Per tutto l’orizzonte, fin dove i miei occhi potevano arrivare, non una casa in piedi, non un campanile a segnare un villaggio noto; campi sconvolti da enormi crateri, macerie, polvere di morte ovunque. Su tutto un silenzio denso, pesante, reale, che è nelle cose, poi il fetore insopportabile dei cadaveri insepolti: dovevo camminare guardingo per non pestare le ossa nere dal fuoco.
L’anniversario della strage di Monte Sole arriva in un momento cruciale per il nostro Paese, dove pare prendere sempre più forma, sempre più forza, una politica revanscista, che non è ricerca di una memoria condivisa, ma la negazione della memoria stessa. La presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al sacrario di Marzabotto servirà a fortificare il sacrificio di tanti innocenti, amplificando il monito che ancora oggi si irradia dall’epigrafe di Salvatore Quasimodo:
Questa è memoria di sangue
di fuoco, di martirio,
del più vile sterminio di popolo
voluto dai nazisti di von Kesselring
e dai loro soldati di ventur
dell’ultima servitù di Salò
per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano
fucilati ed arsi
da oscura cronaca contadina e operaia
entrano nella storia del mondo
col nome di Marzabotto.
Terribile e giusta la loro gloria:
indica ai potenti le leggi del diritto,
il civile consenso
per governare anche il cuore dell’uomo,
non chiede compianto o ira,
onore invece di libere armi
davanti alle montagne e alle selve
dove il Lupo e la sua Brigata
piegarono più volte
i nemici della libertà.
La loro morte copre uno spazio immenso,
in esso uomini di ogni terra
non dimenticano Marzabotto,
il suo feroce evo
di barbarie contemporanea.
di Claudio A. Colombo