La strategia dei fascisti è sempre stata quella di farci credere che non ci sia un’alternativa, di costringerci a tacere e di farci dimenticare che c’è stata una storia di resistenza nel mondo, dice la scrittrice etiope Maaza Mengiste, autrice del romanzo Il re ombra, che torna in una nuova edizione.

Il 1974 è stato un anno cruciale per l’Etiopia. Hailé Selassiè, imperatore dal 1930 – esclusi i 6 anni di dominazione coloniale italiana – veniva detronizzato, accusato di essere a capo di un governo corrotto e accentratore. L’avvento al paese dei militari, purtroppo, spinse il Paese in una drammatica guerra civile. Nello steso anno nasce ad Addis Abeba Maaza Mengiste, autrice di Lo sguardo del leone (Neri Pozza) e Il re ombra (Einaudi), considerati tra i migliori libri di letteratura africana post-coloniale. Costretta con la famiglia a lasciare il suo paese, dove nessuno era più al sicuro, dall’età di tre anni Mengiste vive in America, dove tuttora insegna scrittura creativa presso l’Università di New York. Ambedue i libri, in modo diverso, fanno riferimento al 1974: il primo è ambientato nel turbolento periodo successivo alla caduta dell’imperatore, mentre il secondo dedica a quei giorni alcune pagine all’inizio e alla fine del racconto per poi immergersi, come in un lungo flashback, negli anni della resistenza del popolo etiope durante il colonialismo e dell’occupazione italiana dell’Etiopia.

Il re ombra, vincitore per la narrativa del Premio The Bridge, del Gregori von Rizzori di Firenze e finalista del prestigioso Booker Prize è stato recentemente ripubblicato e presentato alla Casa della Memoria e della Storia di Roma. Magistralmente tradotto da Anna Nadotti, il racconto prende lo spunto da alcune fotografie scattate durante il dominio coloniale in Africa, l’antico obiettivo che l’Italia perseguiva già dopo aver raggiunto l’unità e che, nonostante gli insuccessi, era stato ripreso da Benito Mussolini, con l’assenso dei Savoia, per riportare l’impero sui colli fatali di Roma, come declamò all’indomani della caduta di Addis Abeba, il 9 maggio 1936. Si aprì, per l’imperatore Selassiè, un periodo di esilio in Inghilterra, terminato nel 1941, quando le forze alleate liberarono il Paese.

La fotografia, come il cinema, è stato uno strumento molto utilizzato per la diffusione delle narrazioni dei vincitori ma stavolta le immagini, sotto l’acuto sguardo della scrittrice, hanno riportato alla luce la resistenza etiope.

Dopo anni di un lungo lavoro di ricerca e di scrittura, Maaza Mengiste racconta una pagina di storia dimenticata, in particolare attraverso le donne, doppiamente violate durante le guerre e di cui non si parla o se ne parla troppo poco: Hirut, la giovanissima serva nella ricca casa del comandante Kidane, sua moglie Aster, e la silenziosa cuoca, figura preziosa e sempre attenta a quello che accade. Sono Hirut e Aster che di fronte all’occupazione straniera, superando ruoli e tradizioni patriarcali, diventano in grado di scegliere da che parte stare, cioè quella della difesa del proprio territorio, ritrovandosi a fianco degli uomini, senza più paura. La ricostruzione della resistenza del popolo etiope consente di ricostruire una storia diversa da quella raccontata dai vincitori, scardinando inoltre quel mito di “italiani brava gente” come ha già fatto lo storico Filippo Focardi sulle pagine di questo giornale e è stato dimostrato dall’uso dei gas nervini (L’Italia si ostinerà a negarlo sino al 1996) e dai massacri indiscriminati per fiaccare la resistenza degli etiopi.  La magnifica scrittura di Maaza Mengiste non mette in confronto storie di popoli e nazioni ma racconta gli oppressi – chi si trova espropriato del proprio territorio – e gli oppressori, obbedienti esecutori del progetto di colonizzazione italiano. Tra gli italiani, l’autrice si sofferma su Ettore Navarra, veneziano, ebreo, il militare fotografo incaricato di immortalare le immagini della conquista dell’Etiopia e che, per la sua religione, verrà a sua volta discriminato perché per le leggi razziali non può più far parte dell’esercito. Le foto che Ettore Navarra scatta, sono il filo che lo lega a Hirut la cui immagine ha fissato tante volte, quando da donna-soldato qual era diventata, era stata fatta prigioniera e che nonostante le violenze alle quali era stata sottoposta, aveva mantenuto la dignità che derivava dalla sua scelta. Ed è lui che, a differenza di Hiru, dopo tanti anni, si rivela incapace di separarsi da quel passato. In occasione della presentazione di Il re ombraabbiamo posto alcune domande a Maaze Mengiste, che ringraziamo per la cortese disponibilità.

Il suo libro Il Re Ombra propone tanti e diversi piani di lettura e vorremmo chiederle di analizzarne alcuni. Il rapporto tra memoria e storia è diverso per gli oppressi e per coloro che si presentano come dominatori?

La storia è la narrazione del potere, creata da chi detiene il potere, che fa errori, fatti volutamente e deliberatamente. E’ un insieme di prospettive e di omissioni. La memoria è la narrazione della collettività e una serie di storie individuali che raccontano una nazione.

Penso alla storia come un prisma con tantissime sfaccettature che riflettono la luce secondo il modo in cui vengono esposte facendo nascere nuove narrazioni che nascono da questi nuovi riflessi. Ed è così che ho voluto strutturare il mio libro, come un prisma per poter comprendere tutte le varie sfaccettature.

In una sua intervista, Lei che conosce molto bene la letteratura italiana, ricorda che nel libro Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, uno dei pochissimi romanzi ambientati durante il colonialismo, il protagonista non cerca mai un rapporto umano con le popolazioni etiopi, come se fossero uno sfondo passivo, senza emozioni. Ci sono analogie tra il protagonista di Ennio Flaiano e Ettore Navarra il fotografo militare del libro?

Ho letto il libro Tempo di uccidere anni fa e mi ha fatto arrabbiare perché la storia della ragazza etiope, ma anche del popolo etiope, erano state rimosse rese inesistenti. Nel libro di Flaiano la ragazza diventava, per il protagonista del libro, come un territorio da conquistare e che poteva essere usata come qualcosa di cui poter disporre liberamente: un atteggiamento che posso definire solo con il termine: vergogna. Quando scrivevo del mio protagonista Ettore Navarra, volevo analizzare quella vergogna e come si rivelasse drammaticamente inutile perché incapace di costringerlo a interrogarsi sul suo ruolo, sulle sue azioni. Ettore Navarra invece si aspetta il perdono per quello che ha fatto, da chi ha subito le violenze alle quali lui ha partecipato. E’ una vergogna riferita esclusivamente a se stesso e per questo, appunto, del tutto inutile. perché

Tra i personaggi del suo romanzo le donne, per reagire alla violenza che deriva dall’occupazione del loro Paese e dei crimini commessi dai militari italiani, lottano come non avrebbero mai immaginato… E’ la violenza subita che le rende capaci di trovare la forza di reagire, di cercare una speranza?

Forse tutto questo accade in modo particolare durante le guerre ma secondo me, alle donne viene insegnato di combattere sin da quando sono bambine. Alle ragazze si dice Non camminare in quel modo, non andare per strada. Diventiamo soldati del nostro proprio corpo dal momento in cui nasciamo. La guerra in questo senso ha dato l’opportunità a Hirut e Aster ma anche alla cuoca di andare oltre e di cambiare, perché hanno sempre combattuto, anche prima della guerra.

Il suo modo di scrivere sembra seguire il movimento e la percezione dei pensieri, descrivendo, come ha già detto, “l’invisibile che si nasconde nel visibile”. Nel libro c’è la presenza del coro che commenta gli eventi e rimanda alle tragedie greche.  Che cosa rappresenta il coro, oggi?

In Etiopia abbiamo ancora il coro nella nostra cultura, che si chiama Asmari. Nei piccoli bar di ogni comunità si trovano personaggi che ricordano chi si sposa, chi muore, chi è andato a combattere, le nascite, le partenze, che raccontano anche i pettegolezzi sulle persone. Fanno parte di una antica tradizione che risale ad un periodo precedente a quello della cultura greca; sono i portatori della memoria. ancora più antica della cultura greca e sono i portatori della memoria. Il coro nel libro rappresenta questi Asmari che troviamo in tutta l’Africa e anche in Asia. Asmari è il potere della storia orale, contro la Storia ufficiale del Paese.

La dittatura, per sopravvivere, sembra aver bisogno costantemente di un nemico da cui difendersi e da attaccare: in Italia, durante il fascismo, il passaggio dall’eliminazione del dissenso alla emarginazione delle donne; dal colonialismo  alle leggi razziali… E’ possibile un pensiero diverso?

Se esiste un’alternativa? Il ruolo del fascismo è di farci credere che non c’è alternativa. Di farci stare zitti e di dimenticare che c’è stata una storia di resistenza nel mondo. Quando penso a quello che sta accadendo in Palestina e a Gaza, anche se la situazione appare disperata, è fondamentale resistere e protestare si deve cercare di creare un reale ruolo alla resistenza senza speranza resistere e protestare, dobbiamo cercare di creare un reale ruolo alla resistenza. Il ruolo del fascismo è tentare di cancellare la memoria della Resistenza.

Il mondo ha ripreso la strada della violenza. La ricerca continua della

Pace sembra si sia fermata, e ci troviamo a casa la tragedia delle guerre osservate attraverso un asettico schermo televisivo. Quale può essere la funzione dello storico, in questa situazione? 

Non c’è niente di nuovo in questo tempo: è una battaglia tra la storia raccontata dall’autorità e la storia raccontata dalle persone che vivono nel territorio. La storia delle armi sarà raccontata dai militari; per contro ci sarà quella raccontata da operatori sanitari, giornalisti, docenti, E’ quello che sta succedendo a Gaza, in Palestina,

Walter Benjamin diceva. “Se il nemico vince neanche i morti saranno al sicuro”. E’ quello che  stiamo vedendo. Dobbiamo proteggere i morti, non solo i corpi, ma anche il ricordo di quei morti.

Questa intervista è stata pubblicata su Left.it in data 1° agosto 2024.

di Sonia Marzetti

Loading...