A distanza di settant’anni sono pochi quelli che oggi ricordano quel giorno, e pochissimi quelli che possono testimoniare di essere stati lì, in rigoroso silenzio, per ascoltare quelle parole. Ma chi c’era non ha mai dimenticato il significato di quel discorso, evocativo e commovente come le parole di “Bella ciao”, divenuto l’inno dell’antifascismo e della libertà in tantissime nazioni, anche extra-europee. Quello che Piero Calamandrei tenne il 26 gennaio del 1955 “In difesa della Costituzione” è il discorso che ancora oggi incarna più di ogni altro lo spirito del nostro Paese, perché in quelle parole (che pochi anni dopo vennero incise in un 33 giri, ormai introvabile, per la Collana Letteraria della Cetra) si combinano e si compenetrano i valori del Risorgimento con i fondamenti della nostra Costituzione: libertà, giustizia, democrazia. Diritti e doveri. Ammoniva Calamandrei:

In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui negli articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli”, “ma questo è Mazzini! Questa è la voce di Mazzini. O quando io leggo nell’articolo 8: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge” ma questo è Cavour! O quando io leggo nell’articolo 5 “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” ma questo è Cattaneo! O leggo all’articolo 27 “Non è ammessa la pena di morte” ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani.

Il suo intervento non fu casuale, ma un appuntamento fortemente auspicato. A dieci anni dalla fine della dittatura fascista, infatti, un gruppo di studenti universitari aveva sentito il bisogno di chiamare alcuni dei più illustri giuristi e cultori del diritto (tra cui Domenico Peretti Griva, Paolo Barile, Umberto Segre) per spiegare la Costituzione italiana, in modo che si potessero illustrare, in un modo accessibile a tutti, i principi morali e giuridici che stavano consolidando la società italiana uscita stremata da un ventennio di violenze e leggi liberticide. Quel gruppo di giovani era di una generazione che aveva vissuto la guerra da ragazzi, con opinioni politiche anche contrastanti: giovani che all’indomani della Liberazione avevano sentito la necessità, anzi il dovere, di orientarsi nell’Italia repubblicana, così diversa dal paese dei loro genitori. La scuola purtroppo non dava loro gli strumenti culturali per capire e certi argomenti, come la Costituzione, erano addirittura considerati tabù.

Ci voleva una sede adatta allo scopo, un luogo-simbolo per parlare di quella che Roberto Benigni ama chiamare “la Costituzione più bella del mondo”. Non si scelse l’aula magna dell’Università Statale o la platea del Piccolo Teatro: si scelse invece il Salone degli Affreschi della Società Umanitaria, una delle istituzioni che nel 1955, nell’Italia del miracolo economico, stava finendo di completare la sua ricostruzione, dopo che i bombardamenti alleati del 1943-44 ne avevano distrutto quasi l’80 per cento della sede. Una istituzione che non si era arresa nemmeno dopo i lunghi anni di commissariamento imposto dalle camicie nere e che si era rimessa al lavoro in fretta, per ridare sostanza al proprio statuto, in vigore dal 1893: “Aiutare i diseredati, senza distinzione, a rilevarsi da sé medesimi procurando loro appoggio, istruzione e lavoro”. Uno statuto che in quelle tre parole-chiave (appoggio, istruzione, lavoro) e in quei due verbi (aiutare e rilevarsi) aveva in qualche modo anticipato l’articolo 3 della Carta costituzionale: ovvero “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

La partecipazione, e la scelta, di Calamandrei non fu casuale anche perché alla testa dell’Umanitaria c’era un personaggio incredibile, un altro padre della patria, un altro edificatore della nostra Repubblica: Riccardo Bauer. Uno che aveva provato sulla propria pelle cosa aveva voluto dire vivere sotto la cappa di piombo di una dittatura, finendo in carcere e al confino, per quasi quindici anni (dal 1926 al 1943), per difendere le proprie idee, inflessibile nelle sue scelte, al fianco di quei combattenti per la libertà (Matteotti, Gobetti, Parri, i Rosselli, Ceva, Rossi, Pertini, gli Amendola, Lussu e tanti altri) che avevano voluto reagire di fronte al dilagante conformismo di una nazione che si stava piegando di fronte alla nascente dittatura mussoliniana.

Diceva Calamandrei:

La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai. E vi auguro, di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno, che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

Calamandrei e Bauer erano quasi coetanei: il primo era nato nel 1889, il secondo nel 1896, ed entrambi erano stati antifascisti della prima ora, esponenti del movimento clandestino Giustizia e Libertà (di cui Bauer era stato uno dei fondatori in Italia), avevano poi fatto parte del Partito d’Azione, erano stati membri della Consulta Nazionale, l’assemblea legislativa provvisoria istituita nel 1945 con lo scopo di sostituire il regolare Parlamento fino a quando non fosse stato possibile indire regolari elezioni politiche. E poi entrambi scrivevano sulla rivista Il Ponte, una rivista con un titolo fortemente simbolico, che stava a indicare l’esigenza del passaggio dall’Italia fascista, dominata dal partito unico, all’Italia democratica con un pluralismo di partiti: Calamandrei ne era il direttore, Bauer uno dei collaboratori più illustri. Di notevole interesse, tra i tanti pubblicati, il suo scritto Il regime carcerario italiano, uscito nel marzo del 1949.

Con la sua “fresca” parlata toscana, pervaso da una grande passione civile, a tratti anche commovente, quel 26 gennaio 1955 Calamandrei avrebbe incantato la platea, lasciando nella memoria di tutti un segno indelebile, quello di una generazione di uomini e donne

che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

Gli succedeva spesso di colpire nel segno, perché era dotato di una straordinaria eloquenza, di cui aveva dato dimostrazione anche il 4 marzo 1947 davanti ai colleghi dell’Assemblea Costituente, a pochi mesi dalle prime libere elezioni del 2 giugno del 1946, dove anche le donne finalmente avevano potuto recarsi al voto:

Io mi domando come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne, come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia. E si immagineranno che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti […] a tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana.

La Costituzione sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 1948, abbandonando definitivamente il vecchio Statuto Albertino (elargito nel 1848). Sette anni più tardi, in soli quindici minuti o poco più, Piero Calamandrei parlava ai giovani della Costituzione – la sua voce, vibrante e potente, si può ascoltare al link https://www.youtube.com/watch?v=aIVhxtW_hoE&t=0s –, delineandone i valori, i principi-guida, ma anche segnalandone i punti deboli e le questioni aperte da risolvere. Il suo discorso partiva proprio dall’articolo 3, quello che ancora oggi, purtroppo, non è totalmente compiuto.

Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica. Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinnanzi!

Al suo fianco, mi piace immaginare Bauer assentire guardingo. Soprattutto nei punti in cui il fine giurista si soffermava sui doveri dei cittadini, sulla parola “responsabilità”, la responsabilità che gli italiani avrebbero dovuto dimostrare – e dovremo continuare a farlo – di saper affermare, affinché lo spirito della Costituzione non venga ignorato e disperso al vento, o sopraffatto da chi preferisce una pigra accondiscendenza alla libera circolazione delle idee. Proprio recentemente, portando a termine un altro tassello del riordino e dell’inventariazione del Fondo Riccardo Bauer (conservato all’Umanitaria), abbiamo trovato alcuni testi e appunti di Bauer che sono stati momentaneamente raggruppati in un fascicolo dal titolo “Costituente, costituzione, monarchia e Repubblica” (Busta 64, fasc. 8). In uno di questi dattiloscritti, del 1958 (due anni dopo la scomparsa di Calamandrei), consapevole dei danni prodotti dal fascismo nelle coscienze, in particolare dei giovani, dove aveva lasciato “un diffuso senso di degradazione spirituale” e “avvilimento di carattere”, il grande educatore civile rinnovava quello che riteneva un impegno quotidiano, ovvero sostituire all’ignoranza, alla indifferenza, all’opportunismo conformista, che non era scomparso con la caduta del regime fascista, lo spirito critico, il libero confronto delle idee, la partecipazione, la persuasione razionale nella democrazia deliberativa.

La democrazia non è un regime comodo. Comoda è la dittatura, perché all’ignavo ed al conformista consente di evitare ogni responsabilità. La democrazia, ripeto, è un continuo travaglio, implica un costante attento controllo e studio di problemi concreti; è rivendicazione di libertà e la coscienza di questa libertà costituisce essa stessa un continuo travaglio del nostro spirito […]. La Costituzione italiana raccoglie e solennemente proclama i nostri diritti di libertà, che sono l’ossigeno stesso del nostro vivere politico e sociale quotidiano. La Costituzione va considerata anzitutto e soprattutto per la coscienza – da cui è stata generata – del valore umano che quei diritti hanno, per cui il prezzo pagato non poté e non può essere ritenuto troppo alto o rimpianto. Esso non fu che la condizione di una più alta dignità per tutti, la condizione per l’acquisto di un patrimonio di civiltà che realmente ci ha rifatti uomini da servi che eravamo. È un patrimonio che deve rimanere integro, che dobbiamo rivendicare e difendere giorno per giorno, ora per ora, in un costante affinamento del nostro spirito, rifacendoci sempre a quell’ansia di eguaglianza, di fraternità, di universale dignità che, pur tra tanti errori e ritorni, muove l’umanità intera in un entusiasmante progresso.

Per Calamandrei, per Bauer e per quella schiera di donne e uomini con la schiena dritta, che lottarono e si sacrificarono per un’altra Italia, la Costituzione è “la Carta della propria libertà”. Continuiamo a vigilare perché a nessuno venga soltanto in mente di stravolgerla per fini elettorali, dimenticando che alla base della carta costituzionale c’è un testamento – così terminava Calamandrei il suo discorso ai giovani – “un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati; dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.

di Claudio A. Colombo

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