Claudio A. Colombo
Lo sguardo disincantato dell’esule socialista
Pietro Nenni, Taccuino 1942 (Edizioni Avanti!, Roma 1955)
Aveva superato da poco la boa dei cinquant’anni, nel bel mezzo del quarto anno di una conflagrazione globale, di cui – da navigato giornalista – era in grado di seguire ogni avanzamento, ogni ripercussione. Era il 1942 e quasi un terzo della sua vita era stato costretto a passarla lontano dal suo paese e da sua madre (il padre l’aveva perduto a soli 5 anni), vivendo spesso borderline, sempre in linea con una forma mentis che non ammetteva ripensamenti, ma solo prese di posizione nette e atti di coraggio adamantini. Aveva cominciato presto a battersi per i diritti degli altri, gli umili, i disperati, i senza voce: era appena maggiorenne quando entrò nel movimento operaio come Segretario di una Lega di braccianti a Bagnacavallo di Romagna e tre anni dopo, giovane Segretario dei braccianti alla Camera del Lavoro di Forlì, era ritto insieme al popolo del Quarto Stato per scioperare contro l’impresa coloniale di Tripoli, per poi passare nelle trincee della Grande guerra (ne riceverà una Croce di guerra al valor militare) e poi scegliere un nuovo interventismo, di natura politica, come dirigente socialista, e giornalistica, dalle colonne dell’Avanti!, prima come corrispondente da Parigi e poi come direttore, incarico che mantenne ininterrottamente fino alla fine degli anni Sessanta.
“Non era destinato alla pubblicazione”. È l’inizio lapidario con cui Pietro Nenni, quello che era considerato il leader del socialismo italiano e uno dei più irriducibili antifascisti, presentava il suo Taccuino 1942, un volumetto in formato tascabile, centosessanta pagine divise in 15 capitoletti (più premessa e indice dei nomi), dedicati alle vicende vissute in prima persona in quell’anno (con una piccola appendice nel 1943), durante l’ultima parte del suo esilio volontario all’estero. Un esilio iniziato in Francia alla fine del 1926 come Segretario Generale della Concentrazione antifascista (dopo la chiusura della rivista Quarto Stato, diretta con Carlo Rosselli), seguito in Spagna durante la guerra civile tra il 1936 e il 1939 (come commissario delle Brigate Internazionali e membro della Giunta di difesa di Madrid) e poi di nuovo a Parigi, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Un esilio volontario che Nenni, in continuo movimento, condivise sempre insieme alla moglie Carmen e a tre delle quattro figlie, Giuliana, Eva e Luciana (la quarta, Vittoria, era già sposata e viveva con il marito Henry Daubeuf nella capitale francese), prima di essere arrestato a Saint-Flour, nel Sud della Francia, per opera della Gestapo. Da qui il ritorno in patria, prima al confino nell’isola di Ponza e poi, liberato, a Roma, dove fu membro del CLN in rappresentanza del neonato PSIUP (questo periodo lo raccontò in Vento del Nord, giugno 1944 – giugno 1945).
«Non era destinato alla pubblicazione. Tuttavia servirà, mi si è detto, a indicare in quali pensieri si macerasse un fuoruscito, mentre l’Italia, l’Europa, l’Umanità erano insanguinate dalla guerra nazifascista… servirà a far ricordare drammi e tragedie, ansie e dolori… mentre taluni sciagurati scherzano con l’idea della terza guerra o sul serio la minacciano e la preparano».
Rileggere oggi quelle riflessioni scritte a caldo, quando il mondo era diviso in due blocchi compatti, e poco concilianti, fa rabbrividire, perché quelle stesse parole possono essere tranquillamente lette come un monito a quanto, da due anni ormai, sta lacerando la vecchia Europa, persa tra deliri di onnipotenza, incapacità tattiche delle diplomazie di mezzo mondo, città distrutte e migliaia di vittime innocenti.
«Il peggio è dietro o davanti a noi? Difficile immaginare un anno terribile come quello trascorso: all’inizio, la drôle de guerre; in maggio, l’attacco hitleriano, in giugno, la caduta di Parigi; infine, l’esodo che ci ha tratti fin qui, a due passi dalla frontiera spagnola, che nel febbraio 1939 avevo varcato in senso inverso, coi resti dell’esercito repubblicano spagnolo e delle Brigate internazionali. Meglio non cercare di penetrare il mistero dell’indomani. Ormai ogni giorno è un’epoca».
Il suo modo di raccontare, di osservare, di analizzare quel preciso momento storico è un continuo frapporsi tra considerazioni ideologiche e politiche (“L’intervento americano, il cui effetto immediato è stato compromesso dal disastro di Pearl Harbour, è destinato a travolgere nel tempo le forze militari tedesche e giapponesi”), confessioni personali (“Ci sono momenti in cui sono sopraffatto dallo sconforto: l’isolamento mi schiaccia”) e drammi famigliari (come “la via crucis dei miei ragazzi”: la figlia Vittoria morirà ad Auschwitz nel luglio 1943, il marito Henry Daubeuf è fucilato a Parigi l’11 agosto 1942), che rendono questo Taccuino un minuzioso regesto di avvenimenti grandi e piccoli, che il futuro leader socialista (vicepresidente del Consiglio nel governo Parri) continua ad annotare per sentirsi ancora partecipe di una lotta – quella al nazifascismo – che rappresenta la sua ragione di vita.
In tal senso sono sempre lapidari i giudizi sul cosiddetto Governo di Vichy, in quella parte della Francia che era considerata “libera”, benché in realtà non solo fosse costantemente sorvegliata dalle forze di polizia, ma praticasse indiscriminatamente una politica collaborazionista con Hitler, del quale erano succubi e sottomessi il maresciallo Philippe Pétain, eroe della Prima guerra mondiale, ma soprattutto Pierre Laval, uomo allenato a tutti gli intrighi di palazzo.
«La descrizione che mia figlia fa di Parigi è allucinante. Metà dei parigini spiano e denunciano l’altra metà. Si vive in una atmosfera di terrore. Aumentano le forze e la capacità di resistenza ai tedeschi, ma nello stesso tempo si approfondisce tra i francesi dei due campi – collaborazionisti e resistenti – il solco dell’odio. La vita tocca i due poli dell’eroismo e dell’estrema decadenza morale. Si avvera quanto era facile prevedere fino dal giugno-luglio 1940, che cioè la politica di Vichy è peggiore della stessa disfatta militare. La disfatta poteva unire i francesi sotto il tallone dell’invasore. Pétain e Laval hanno scagliato i francesi gli uni contro gli altri. È un delitto che grida vendetta».
Lo stesso Nenni non fu immune dai controlli di polizia e più volte fu costretto a subire perquisizioni improvvise per la sua attività sovversiva, finendo anche in carcere a Perpignan, entrando a far parte di quella “corte dei miracoli” composta per lo più da zingari, il cui rastrellamento – annota furente – “è stato ordinato per poi essere consegnati a Hitler” (presto i rastrellamenti saranno estesi anche a ebrei e rifugiati spagnoli). Ma Nenni per la maggior parte del tempo è libero di muoversi, riuscendo mantenere la rete di contatti con altri fuoriusciti antifascisti (in particolar modo Giorgio Amendola, Giuseppe Saragat, Silvio Trentin, Emilio Lussu), con i quali condivide programmi, idee e strategie.
Proprio a seguito di un incontro con Lussu si trova a registrare queste considerazioni (è il 10 novembre, pochi giorni dopo lo sbarco degli americani in Algeria, mettendo in seria difficoltà le truppe italiane in Libia):
«A Londra e New York ha avuto la netta impressione che si vuole salvare la vecchia classe dirigente borghese, Mussolini messo da parte. Inglesi e americani sono per il re e la monarchia e considerano con fastidio gli antifascisti che parlano di democrazia, di repubblica e di socialismo. D’altra parte, [Lussu] ha riportato l’impressione che si prepari una specie di spartizione dell’Europa in due zone d’influenza, una sovietica fino a Trieste, l’altra britannica. Per la rivoluzione italiana le prospettive non sembrano né liete né facili».
Lo sguardo di Nenni su quanto avviene dentro e fuori l’Europa non si perde un solo passaggio. Grazie a Radio Londra sente il discorso di Churchill all’Italia del 30 novembre (“Al nostro popolo spetta sul serio la decisione se l’Italia ha da essere travolta col fascismo, o se si salverà separandosi a tempo da esso”), il 2 dicembre registra le perdite di guerra dell’Italia (40.215 morti, 85.868 feriti, 272.778 prigionieri, 30.000 dispersi) e quattro giorni dopo anticipa timoroso quello che avverrà nell’estate seguente (“Mi scrivono da Nizza che si parla molto di un prossimo governo militare. Con Badoglio alla testa per liquidare la guerra e il fascismo”), preoccupato dal fatto che le incursioni aeree della RAF continuino a bombardare le città del Nord Italia.
Il 31 dicembre le sue abilità politiche sembrano già delineare il futuro dell’Europa:
«Ancora un anno che se ne va gonfio di sangue, di tormenti, di dolore per tutta l’umanità. La guerra non è finita., né accenna a finire, anche se è virtualmente decisa. Hitler può resistere ancora un paio d’anni prima di avere la guerra e la disfatta in casa, a Berlino. Non così Mussolini. Per lui la perdita ormai prossima dell’Africa, segnerà la fine. Con gli anglo-americani a Tripoli e in Tunisia la Sicilia sarà praticamente perduta e Roma stessa direttamente minacciata. La liberazione o l’invasione, comunque l’occupazione, verranno stavolta dal Sud e non dal Nord».
Le ultime righe di quello che potrebbe essere considerato una specie di “post primordiale” racchiude quello che per Nenni (al pari di quanti, come lui e con lui si erano prodigati fin dai primi anni Venti per dare filo da torcere alle camicie nere di mezza Europa) continuava ad essere un sogno, un augurio, una speranza:
«Il problema più angoscioso è se si dovrà attendere che le cose arrivino al triste epilogo della occupazione straniera prima che il nostro popolo, col proprio intervento, ponga fine alla tragica avventura fascista».
Due mesi dopo Nenni veniva arrestato dalla Gestapo, condotto a Regina Coeli e da qui inviato a Ponza (dove resterà pochi mesi). Il tanto auspicato riscatto del popolo italiano, benché tardivo, non si sarebbe fatto attendere.