James C. Scott, elèuthera, Milano, 2024
(titolo originale: Decoding Subaltern Politics. Traduzione dall’inglese di Elena Cantoni)

L’infrapolitica dei senza potere, opera del recentemente scomparso James C. Scott, è uno di quei testi fondamentali per diverse discipline (antropologia, sociologia e storia), che un linguaggio semplice e lo stile leggero rendono adatto a una lettura anche di un pubblico non accademico. Esso si presenta come il seguito teoricamente più completo dell’opera che ha reso celebre l’autore imponendosi come un classico delle scienze sociali e umane, Il dominio e l’arte della resistenza (elèuthera, 2021). Il filo conduttore che lega i due libri è l’obiettivo di ridare voce alle classi subalterne, mettendo in evidenza il linguaggio e le pratiche di resistenza al potere esercitato dalle classi dominanti e dirigenti. In questo quadro, le classi subalterne vengono identificate, attraverso una prospettiva quasi esclusivamente incentrata sulla dimensione di classe, con le popolazioni rurali e contadine, escluse, marginalizzate e spesso discriminate da chi scrive «la storia prevalentemente dai grandi centri urbani e dalla prospettiva delle élite alfabetizzate» (p. 13). Non si tratta, evidentemente, di un soggetto nuovo. È cosa risaputa che la stessa parola “subaltern” – che l’editore ha deciso di non inserire nel titolo italiano – è erede di una lunga tradizione politica e intellettuale che affonda le sue origini nel pensiero del Gramsci diventato globale. Ciò che rende davvero interessanti e attuali le riflessioni e gli studi antropologici e storici presentati negli otto capitoli del libro, suddivisi in tre parti, è la loro capacità di alimentare una profonda riflessione politica sulle nostre società contemporanee. In particolare, arrivando anche a toccare le corde emotive di chi, come chi scrive, viene da un territorio – quello calabrese e più largamente meridionale – rimasto “subalterno” anche dopo aver quasi completamente tagliato i suoi legami con il mondo rurale e contadino. Punto forte dell’analisi di Scott è infatti l’attenzione rivolta «alla resistenza subalterna» che l’autore dimostra attraverso una serie di esempi derivanti per la maggior parte dai suoi lunghi e approfonditi studi antropologici condotti nel Sudest asiatico. Sebbene non manchino riferimenti alla letteratura europea, come nelle citazioni della “storia rurale francese” di Marc Bloch.

Un primo spunto di riflessione viene proprio dalla parola “subaltern”. Scott non ne dà una definizione univoca associandola alla posizione di subordinazione rispetto al potere politico e alla classe sociale. In tutto il volume la figura del subalterno (il testo e la traduzione sono poco attente al genere femminile) è quella del contadino, raggiungendo in questo molti dei suoi studi precedenti. Mi sembra evidente, ci torneremo più avanti, che la maniera di concepire la subalternità debba andare al di là dalla sola prospettiva univoca e orizzontale per abbracciare dinamiche di potere e oppressione intersezionali, ossia incrociate e cumulative. Quest’ultima prospettiva se, da una parte, permette di concentrarsi sulla dominazione politica, dall’altra apre a una riflessione su chi siano le persone e i gruppi subalterni in un dato contesto.

Un secondo spunto di riflessione emerge dalle parole di Scott che, nell’introduzione al volume, sottolinea come una delle traiettorie di ricerca affrontate sia «segnata dalla delusione e dalle speranze infrante nel cambiamento rivoluzionario» (p. 7). Egli fa riferimento, in particolare, agli anni Sessanta e alle rivoluzioni e guerre di liberazione che, nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, attraversarono numerosi Stati agrari, tra cui Guinea, Birmania, India, Cina e altri. Ne consegue una critica severa alla forma politica – lo Stato – che dalla Rivoluzione francese a quella cinese si è «impadronito», attraverso i suoi leader, «del potere spesso a loro nome [dei contadini n.d.r]» (p. 9). Poche righe sufficienti, dunque, ad inquadrare il pensiero politico dello studioso e le motivazioni che lo hanno spinto ad interessarsi «all’indagine storica» volta a dare risalto alla «sfera politica» dei contadini e delle masse rurali al di là dei momenti di dimostrazione pubblica (rivoluzioni, rivolte, incendi, sabotaggi e così via dicendo) anche nei momenti “privati”, di vita quotidiana. Se si tralascia il sentimento personale dell’autore riguardo alla condizione rivoluzionaria, che proprio negli anni in cui il libro veniva pubblicato attraversava uno dei suoi momenti più significativi nei paesi del Sud e dell’Est del Mediterraneo, dove la presenza rurale e contadina è particolarmente rilevante, se non maggioritaria, la questione della parola dei contadini e, più in generale, delle classi subalterne ha una valenza politica importantissima e del tutto imprescindibile.

Non si tratta di ritornare sulla discussione, certamente interessante ma rimasta più che altro teorica, sul tema se «le persone subalterne possano o meno parlare». Si tratta invece di ripensare e attualizzare quell’alleanza tra operai e contadini, Nord e Sud, città e campagne, a cui Antonio Gramsci faceva riferimento nel suo tempo. Ancora più profondamente, è necessario riconsiderare l’approccio stesso dei vari movimenti politici emancipatori nei confronti di coloro che si trovano, o vengono considerati, in una posizione di subalternità. Viene in mente come esempio il tono affabulatore e popolare con cui Malatesta scrisse il celebre libro Fra contadini. Dialoghi sull’anarchia. Mentre in chiave storica valga come esempio il fallimento nel periodo 2011 – 2012 delle élite cittadine e, più in generale, delle popolazioni in rivolta del Cairo, Alessandria e Suez nel coinvolgere pienamente alle ragioni della rivoluzione le popolazioni contadine del Nord e del Sud del paese. Oppure, cambiando contesto e scala in una maniera che rischia di essere banale, le differenze di orientamento politico che in Italia e nel mondo cosiddetto Occidentale emergono ogni qual volta si domanda alle persone di esprimere un’opinione politica, generalmente attraverso il voto.

In questo senso il libro di Scott ha il merito di porre in maniera chiara la questione se si possiedono davvero le capacità e gli strumenti da parte dello Stato, delle élite economiche e intellettuali, ma anche dei movimenti politici contestatari e rivoluzionari, di comprendere il linguaggio dei e delle subalterne, e dunque le forme e le parole della loro dissidenza. Se si guarda alla stretta attualità, la risposta alla domanda sembra essere negativa. Ma questo aspetto non sembra godere – salvo qualche mea culpa di circostanza in precise occasioni – di una particolare attenzione e, anzi, viene spesso utilizzato come pretesto per formulare invettive classiste nei confronti di chi, per diverse ragioni, incluse quelle geografiche, dispone di un capitale economico, culturale e politico differente.

L’infrapolitica dei senza potere (così come Il dominio e l’arte della resistenza) serve proprio a ribaltare questa visione descrivendo mondi in cui le/i subalterni, nel senso più largo del termine a cui si faceva riferimento prima, sono con le parole di Scott «individui agenti e ragionanti», non più ridotti a mere cifre statistiche, né a «incontrollati ordigni emotivi», né a «semplici stomaci collegati a terminazioni nervose» (p. 170). Ne consegue un decalogo di azioni che, apparentemente normali, “passive”, quotidiane, esprimono non accordo, dissenso, contestazione, disprezzo e condanna. Si tratta del linguaggio usato dalle persone subalterne che per la loro stessa posizione, quella giustamente descritta da Scott come «costantemente in bilico, sul filo del rasoio», deve per forza restare di basso profilo, anonima o dissimularsi per entrare nella sfera pubblica. Secondo l’autore, è proprio la principale differenza tra la politica contadina e subalterna e quella delle élite urbane. Le rivolte, le sollevazioni e le rivoluzioni non sono la prassi; l’azione delle popolazioni rurali si concentra maggiormente sulla difesa dei propri interessi e sui “risultati durevoli” e di grande impatto, piuttosto che sul sovvertimento dell’ordine politico e pubblico perseguito da movimenti politici. Quanto alla questione dell’impatto dell’infrapolitica subalterna, l’autore sostiene che in una prospettiva storica, «in termini di persistenza, sapienza tattica, flessibilità e soprattutto risultati, queste attività potrebbero addirittura eclissare gli esiti di quelli che di norma vengono considerati movimenti sociali» (p. 221).

Ritengo che quest’ultimo passaggio debba essere, se non contestato, almeno sottoposto a una critica approfondita. In effetti, l’enfasi posta dalla riflessione intellettuale sulla differenza di linguaggio e di efficacia tra quelle che possiamo definire élite e classi subalterne (intese al plurale) finisce per produrre una sorta di valutazione sulle lotte intraprese da queste ultime e sui risultati da esse conseguiti. Due rischi mi sembrano evidenti in questo tipo di riflessione: il primo è di svalutare l’importanza del moto, della rivolta e della rivoluzione come atti storici e simbolici capaci di stravolgere la quotidianità. Se, come sostiene Scott, l’infrapolitica contadina “nascosta” è il meccanismo più efficace di lotta contro la dominazione, quale valore assume allora il sacrificio di Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro nell’eccidio di Torre Melissa? È certamente fondamentale riconoscere l’importanza dell’infrapolitica delle classi subalterne al pari delle forme più esplicite di resistenza politica; tuttavia, mi sembra altrettanto vero che, anche a livello simbolico, qualsiasi forma di lotta ha bisogno di irrompere nella sfera pubblica per sfidare, attaccare e sconfiggere il potere politico. Il secondo rischio, ben più insidioso, è quello di mitizzare o “romanticizzare” a dismisura azioni e comportamenti di attori e attrici che si trovano in condizioni di oppressione sistemica. Le classi subalterne, o le masse contadine e rurali, non sono una collettività omogenea, ma stratificata, frammentaria e contraddittoria. Come in ogni composizione sociale, al loro interno esistono realtà e rapporti di potere differenti. Scrivere uno studio sulla “politica subalterna” significa per forza di cosa occuparsi anche di questo. Perché, se è vero che lo sguardo elitario di «storici e giornalisti» (p. 13) ha avuto e ha la grande pecca di aver messo ai margini «le politiche di villaggio», è altresì vero che in queste ultime c’è chi, pastore, veniva pubblicamente schiaffeggiato per il rifiuto di andare alle adunate fasciste e chi, massaro, preferiva arruffianarsi notabili e potentati locali. Nella lotta contro il potere, le due azioni non sembrano proprio equivalenti.

di Costantino Paonessa

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