Difficilmente l’Italia riuscirà a rispettare le scadenze di dicembre 2022 per il PNRR.
La linea politica che il nuovo governo adotterà verso l’Europa è l’incognita, con conseguenze sullo stesso Recovery Fund.

La caduta del governo provocata irresponsabilmente da chi, a partire da Conte, ha tolto la fiducia a Draghi e il voto di settembre hanno aprono una discussione sul “destino” del Piano nazionale di ripresa e resilienza e sui suoi 191,5 miliardi di euro, sul rischio di perderli o meno e su cosa possa rimetterci l’Italia. E più in generale sul futuro della stessa Europa. In tempi in cui la guerra imperialistica di aggressione di Putin all’Ucraina scompaginando gli equilibri del mondo mette a repentaglio il più grande lascito della Resistenza europea rappresentato dall’ideale della pace e di una federazione europea capace di dare prosperità ai popoli del continente.
Nel parere del Consiglio d’Europa di maggio sul programma di stabilità dell’Italia, la seconda raccomandazione riguardava l’attuazione del Piano, come deciso dal Consiglio il 13 luglio 2021: il raggiungimento di target e milestone semestrali (complessivamente l’Italia ne ha 527 fino al 31 dicembre 2026), necessari per ottenere le risorse del semestre successivo.
Se i governi non condividono il crono programma del piano o ne disapprovano le riforme previste o non realizzano gli obiettivi assegnati, si rischia che le risorse non siano erogate, come previsto dal regolamento europeo n. 2021/241 che istituiva il Recovery Fund. Non è una “imposizione” dell’Europa, ma il contenuto di ciò che abbiamo deliberato e concordato.

Con Mario Draghi gli impegni sono stati rispettati e i fondi europei sono già stati versati all’Italia. Se il nuovo esecutivo cambia linea su misure, riforme e investimenti già approvati o avviati si aprono scenari diversi. Sciogliendo le Camere il Presidente Mattarella ha detto che il Pnrr rientra negli “affari correnti” di cui è investito l’esecutivo fino alle elezioni politiche. I dossier più importanti in discussione sono: il disegno di legge annuale per la concorrenza (fortemente divisivo tra i partiti); la delega per il riordino degli Irccs, che attende il via libera del Senato; i decreti attuativi in materia di giustizia e processo tributario, da approvare entro dicembre 2022; le modifiche al codice della proprietà industriale; la delega al governo per la riforma fiscale, approvata dalla Camera e in commissione Finanze del Senato.

Sino a ottobre saremo senza governo e Parlamento. I disegni di legge non approvati decadono con lo sciogliersi delle Camere e con la nuova legislatura si ricomincia da zero. È allora difficile immaginare che siano raggiungibili le scadenze entro dicembre 2022.
Col nuovo governo per ricevere i fondi l’Italia dovrà dimostrare di riprendere il ritmo della tabella di marcia precedente. Con il voto del 25 settembre si può prevedere che il nuovo Parlamento si insedi entro 20 giorni (articolo 61 della Costituzione) e che prima di novembre non ci sarà un nuovo esecutivo in carica, per cui è probabile che non sia  possibile rispettare la scadenza del dicembre 2022 entro cui raggiungere tutti i 55 obiettivi del secondo semestre dell’anno, per la difficoltà di presentare e approvare le leggi e i decreti necessari e perché i nuovi ministri e sottosegretari prima di gennaio 2023 difficilmente saranno in grado di guidare una macchina  complessa.

Il Piano non si fermerà nei prossimi mesi grazie alla sua governance predisposta nel Dl 77 del 2021, che prevede che le strutture tecniche di gestione insediate a Palazzo Chigi e al Ministero dell’Economia e delle Finanze non siano soggette a spoils system e rimangano in carica sino a dicembre 2026. Ma senza il naturale impulso degli organi politici, molte scadenze previste per dicembre 2022 non  potranno quasi certamente essere rispettate.
Per il Pnrr italiano sono ipotizzabili scenari diversi. Come auspicabile, ma dipende dal risultato del voto, tutto può procedere senza grandi problemi, con qualche ritardo riferito agli obiettivi in corso, senza che nulla cambi nella sostanza generale del Piano col solo rischio di non essere in linea con gli impegni di dicembre 2022 e con uno slittamento temporale concordato per rientrare nell’andamento concordato. Un’altra ipotesi : che il nuovo governo voglia negoziare un “nuovo Pnrr”; i tempi si dilaterebbero dovendosi  esprimere varie istituzioni nazionali ed europee, Parlamento, Commissione e Consiglio innescando o meno un precedente, con il rischio di  perdita di risorse, considerando che entro dicembre 2026 vi è l’obbligo di rendicontare tutto il Recovery e bene che vada, rispetto al percorso di revisione, potremmo beneficiarne solo in parte.

Il terzo scenario è preoccupante per chi ha a cuore gli interessi del paese e il suo stabile inserimento nell’Unione europea necessario per dare un futuro migliore ai cittadini italiani ed europei: contrapposizione tra Italia e Commissione Ue e conseguente rottura del contratto con l’Ue, che potrebbe chiedere indietro le risorse già assegnate all’Italia “per inadempimento”.
La  linea politica pro-Europa o meno e pro Pnrr o meno determinata dal voto inciderà non poco sul Piano e sulla sua attuazione. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, in occasione dell’evento “Pnrr: priorità e futuro dell’Italia” del 19 maggio scorso, ha consigliato a Mario Draghi “di recarsi alla Commissione europea per chiedere una revisione degli obiettivi del Pnrr, che devono essere concentrati sulle conseguenze della crisi”. Il presidente del Veneto, Luca Zaia, ha detto a sua volta che “bisogna anche rivedere le regole del Pnrr. Il Piano è nato con determinati intendimenti in un contesto storico di pochi mesi fa, radicalmente diverso da quello di oggi”. Queste ipotesi rischiano di essere più slogan da campagna elettorale che percorsi effettivamente concretizzabili a meno che non si voglia buttare tutto per aria compresi i cocci. Molto pragmaticamente il commissario europeo Paolo Gentiloni nel giugno di quest’anno davanti alla platea di giovani imprenditori ha detto che “chi propone di rifare il Piano sbaglia” perché si rischierebbe di apparire poco seri e non si avrebbe “alcuna possibilità di riproporre questo metodo – debito comune, obiettivi comuni – nei prossimi anni”.
Gli elettori è bene che sappiano che l’effettiva funzionalità e la chiusura del Piano italiano hanno riflessi non solo sulla nostra economia, ma anche sulla dimensione europea (all’Italia sono assegnate un quarto del totale delle risorse europee).

Se il Piano non funziona da noi, si rischia che a Bruxelles venga accantonata l’idea del Recovery Fund (e altre iniziative finanziate da debito comune europeo) e la possibilità di renderlo permanente, rimanendo quindi solo una esperienza non ripetibile e nemmeno colta dal nostro paese. Dobbiamo anche prendere coscienza dell’altissimo debito pubblico e della decadenza industriale del Paese. Lo scenario che rischia di proporsi è la probabile richiesta dell’Italia di fare altro debito, addossandolo alle future generazioni, per fare la flat tax, quota 41 e altro assistenzialismo. Next Generation EU aveva altro intento: fare dell’Italia un Paese civile come il resto d’Europa e a misura di giovani. La competizione del 25 settembre riguarda, nello schema bipolare, la democrazia parlamentare rappresentativa e la democrazia autoritaria e in tale ambito la salvaguardia dei principi della costituzione repubblicana e l’ideale di una pacifica e prospera Federazione europea.
Per uscire dal labirinto una sola via per chi vuole contrastare propositivamente derive sovraniste e populiste, sfasciste: un “patto repubblicano” per l’uninominale e liste autonome per la quota proporzionale.

di Antonio Caputo

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