di Cesare Bermani e Marcello Ingrao, Biblioteca di Prospettiva Marxista, 2024
Che Italia era quella che si svegliò il 5 novembre 1918?
Il giorno prima era entrato in vigore l’armistizio di Villa Giusti tra l’impero austro-ungarico e l’Italia. La grande carneficina, l’inutile strage, come era stata definita la Grande Guerra stava volgendo alla fine, con la dissoluzione di ben quattro imperi di cui tre plurisecolari come quello austro-ungarico, russo, ottomano oltre al più recente impero prussiano. Veramente un mondo che finiva. Il prezzo in termini di vite umane era stato tragico: anche se non facilmente stimabile, il numero superava i dieci milioni di morti, senza includere i civili, oltre all’esercito di invalidi fisici e mentali che stavano tornando a casa. Nella guerra non era stato risparmiato nulla: la trincea, i gas venefici, le decimazioni. Emilio Lussu, che pure era stato, come tanti, un giovane interventista, nel suo libro “Un anno sull’altopiano” raccontando il vero volto e l’orrore della guerra, perlustrando una trincea nemica appena conquistata, osservava con un misto di pietà e sgomento, che i tantissimi morti dell’armata austro-ungarica che giacevano sul terreno, avevano gli stessi visi dei soldati che li avevano vinti.
Al di là delle parole sobrie e orgogliose contenute nel bollettino della vittoria italiana, sembra una gioia effimera quella pace raggiunta e la speranza, dopo la fine della guerra, non riesce a mettere radici solidi. Dopo neanche quattro anni dalla fine del conflitto, con la marcia su Roma, il 28 ottobre 2022, il re Vittorio Emanuele III, travolgendo il governo liberale, offre a Benito Mussolini la carica di primo ministro, atto iniziale della dittatura fascista. Cosa è successo in quei quattro anni? C’è l’immagine di un uomo che può rappresentare quel periodo ed è Piero Gobetti: nato a Torino nel 1901, quindi troppo giovane per essere arruolato, ha diciassette anni alla fine della guerra. Liberale, attento a quello che succede, dalla rivoluzione russa all’arrivo del fascismo, precoce giornalista, filosofo, editore, traduttore, verrà messo a tacere e sarà proprio Mussolini ad impedirgli di esercitare la sua attività, fino alle aggressioni da parte dei fascisti che lo porteranno alla morte il 16 febbraio a Parigi, dove era stato costretto ad emigrare per poter continuare il suo lavoro.
Il libro dello storico Cesare Bermani, autore di testi fondamentali per la storia del nostro paese, e di Marcello Ingrao, editore e redattore della rivista “Prospettiva marxista”, dal titolo L’Alba intravista. Militanti e politici del Biennio rosso tra Piemonte e Lombardia, presentato con Sandro Portelli alla Casa della Memoria e della Storia, in un seguitissimo incontro, lo scorso 25 settembre, ci offre una straordinaria possibilità per capire gli anni che vanno dal 1919 al 1920, quelli chiamati il Biennio rosso per le agitazioni degli operai e dei contadini, attraverso le testimonianze di donne e uomini che ne sono stati convinti protagonisti. Nelle loro voci si colgono possibilità e contraddizioni della situazione politica di quegli anni che giungono a noi ancora attuali.
Il libro è il risultato di un’altra “storia” sulla quale è bene soffermarsi, ed è quella di una ricerca nata negli anni Sessanta, grazie proprio a Cesare Bermani, uno dei capostipiti della “Storia Orale”, che raccoglie l’esigenza di ampliare le fonti per avvicinarsi ad un nuovo modo di studiare la storia. Insieme a personaggi come Roberto Leydi, protagonista della ricerca sui canti sociali, a Gianni Bosio, storico del movimento operaio, nell’ambito dell’attività del Nuovo Canzoniere Italiano, con un’intuizione straordinaria, l’allora giovane storico novarese comincia a registrare testimonianze politiche e sociali che oggi compongono l’Archivio che porta il suo nome, a Orta San Giulio, in provincia di Novara, arrivato a contenere, oltre importanti raccolte di materiale cartaceo, più di tremila ore di materiale registrato. Tra questo, le testimonianze di militanti comunisti, socialisti, anarchici, squadristi per capire quel periodo, liquidato dal punto di vista storico troppo rapidamente. Scrive Bermani: “Queste ricerche mi fecero prendere coscienza del fatto che i libri con narrazioni storiche, a parte quelli memorialistici, sembravano non avere come protagonisti uomini in carne ed ossa. Anzi gli uomini reali sembravano dissolti come in un bagno d’acido solforico”.
Quei testimoni erano nati nel passaggio tra l’Ottocento e il Novecento nel periodo in cui l’Europa aveva vissuto un periodo di scoperte e innovazioni nel campo dell’industria, della scienza, della tecnica, dell’arte. A fronte di ciò erano cresciute le richieste dei movimenti anarchici e socialisti che chiedevano migliori condizioni di vita per i lavoratori mentre maturava una forte coscienza di classe.
Al termine del primo conflitto mondiale, le aspettative delle classi operaie impensierivano sempre di più le classi dirigenti: le notizie che arrivavano dalla Russia mettevano paura. Ancora Emilio Lussu, nel suo libro “Marcia su Roma e dintorni” ricorda un possidente che era terrorizzato dall’arrivo dei “bolscevichi” che gli avrebbero portato via i suoi terreni e messo a rischio le donne della sua famiglia. In realtà, come scrive Marcello Ingrao nella prefazione del libro, si sapeva che in Italia non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione bolscevica, sia per il quadro internazionale sia perché lo Stato non era in concreta difficoltà. L’ascesa del fascismo come barriera al comunismo era una notizia non attendibile. Ma, continua Ingrao, sarebbe un errore storiografico considerare quel movimento, che ottenne importanti riforme, pur non trovando il soggetto politico che lo rappresentasse, e che subì la violenza e la prepotenza del fascismo, non sia stato un passaggio importante e duraturo per la storia delle classi subalterne in Italia.
Le guerre sono sempre una iattura per l’umanità, ma quei lunghi, terribili anni del primo conflitto mondiale, avevano fatto qualcosa di più e sembravano non finire: lo sdoganamento della violenza era come un gas tossico ancora più pericoloso di quello che era stato utilizzato sui terreni di battaglia perché colpiva non solo i corpi ma il pensiero. Chi esercitava la violenza sentiva che poteva far tutto, e le forze dell’ordine che avrebbero dovuto reprimere quelle azioni avevano un atteggiamento – salvo rarissime eccezioni tra le quali Sarzana, in provincia di La Spezia e Modena – troppo moderato, per non dire compiacente. Dall’altra parte, furono pochi gli intellettuali e politici, come il già citato Gobetti e il deputato Giacomo Matteotti, che ebbero la visione concreta della realtà, che con il loro lavoro serio, documentato e preparato, proponevano un modo diverso di confrontarsi con la retorica del fascismo; senza quel lavoro, restavano rassegnazione e impotenza da parte delle forze politiche e intellettuali di opposizione, confuse e divise tra loro, tra la paura, come è stato detto infondata, di una possibile bolscevizzazione dell’Italia e lo stare a guardare.
Il clima politico, subito dopo la guerra, in particolare in Italia, era incandescente. Vi si aggiungeva la delusione per il patto di Versailles che non aveva soddisfatto le aspettative dopo la vittoria. I militari che tornavano alla vita civile, feriti nel fisico e nel morale, facevano fatica a rientrare nella quotidianità, mentre quelli troppo giovani per averne fatto parte, idealizzavano la violenza della guerra, il mito della rigenerazione; lo squadrismo contro l’avversario una prassi comune. Anche le promesse di dare le terre ai reduci, come remunerazione degli anni di guerra, non venivano mantenute.
Le testimonianze raccolte provengono da Lombardia e Piemonte, regioni dove il movimento operaio si era irrobustito e forte era l’opposizione al movimento fascista; interessante – osserva Ingrao – come zone periferiche siano riuscite a diventare centrali nel processo storico e operai e contadini erano consapevoli della propria condizione e contemporaneamente di far parte di una classe mondiale che subiva le stesse disuguaglianze e le stesse condizioni di sfruttamento. Attraverso le testimonianze raccolte, vengono alla luce i sentimenti, il coinvolgimento e le passioni di coloro che non volevano rassegnarsi e rinunciare alla ricerca di una vita migliore.
La rivoluzione russa era un punto di riferimento per la rivendicazione della fratellanza e per la speranza che il capitalismo potesse essere frenato nel suo sfruttamento degli esseri umani. Agli inizi la Rivoluzione Russa fu in grado di convogliare energie e speranze delle classi proletarie insieme ad artisti, intellettuali, donne; ma nel percorso dimostrò di non essere in grado di rifiutare la violenza come mezzo per cambiare le cose. Nelle testimonianze si percepiscono tali contraddizioni insieme al tentativo di interrogarsi anche se, poi, i programmi del partito e l’appartenenza allo stesso degli intervistati impediscono qualsiasi critica.
In “L’alba intravista” tra le decine e decine di testimonianze si evidenziano personaggi per i quali la vita e la politica hanno coinciso, tanto da arrivare a soccombere per i propri ideali: Carletto Leonardi, coerente comunista bordighiano (per questo espulso dal PCd’I) che, molti anni dopo il biennio rosso, riammesso nel 1944 per non aver mai rinnegato le sue idee, scoperto dai fascisti nella sua attività di partigiano, viene mandato a Mauthausen. Già cagionevole di salute, sentendosi vicino alla morte, fu capace di rinunciare al cibo a favore dei compagni; e poi Giuseppe Rimola, soprannominato Pinéla, la cui sorte forse è ancora più drammatica: perseguitato come comunista in Italia, si rifugia grazie al partito in Russia e finirà nelle purghe staliniane. Anche la partecipazione delle donne, anche se minoritaria, è significativa: come la bibliotecaria Benvenuta Treves, di famiglia ebraica e benestante, straordinaria figura che aveva vissuto la stagione del riformismo, che riteneva “non ammissibile” la disuguaglianza di classi e invitava comunisti e socialisti a frequentare insieme la biblioteca, senza divisioni.
Nell’attuale momento drammaticamente difficile, il libro ricorda come la politica influenzi la vita quotidiana a livello personale e sociale. Colpiscono la passione e il coinvolgimento, la voglia di capire, di condividere ideali e combattere le ingiustizie. Risuonano le parole pronunciate dalla delegata turca Naijve Hanum il 7 settembre 1920, durante la settima sessione del Congresso dei popoli dell’Oriente promosso a Baku dall’Internazionale Comunista (ricordate all’inizio della prefazione di Marcello Ingrao), pronunciate per illustrare la complessità e le difficoltà per la liberazione delle donne nell’ambito della Rivoluzione d’ottobre: “Sappiamo che per vedere l’alba bisogna attraversare l’oscurità della notte”. Forse nessuna notte è così oscura fin quando ci saranno persone capaci di pensare, sentire, condividere, riconoscere che la realizzazione dell’essere umano non può prescindere dal tentativo di eliminare le proprie sofferenze ma anche quelle di tutti gli altri intorno a noi.
di Sonia Marzetti