Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, Torino, 2014, I ed. 1949

Ci troviamo in un periodo storico pericoloso, tra riletture revisioniste della storia e tracce di nuovi, mascherati negazionismi che vogliono cancellare parole sacre come
antifascismo. L’imminente celebrazione della Liberazione dal fascismo e dal nazismo rievoca legittime e rassicuranti frequentazioni con la letteratura neorealista, vigile sentinella a tutela della verità storica della Resistenza e dei suoi numinosi valori.

Una delle sue più straordinarie narrazioni è custodita nel testo di Renata Viganò, Agnese va a morire, in cui l’autrice descrive la vita della protagonista, lavandaia di mezza età che vive nelle valli di Comacchio, quasi alla fine della Seconda guerra mondiale, durante gli otto mesi precedenti la Liberazione del nostro Paese. Agnese, dopo la morte di Palita, il marito deportato a causa di una spiata di una famiglia di vicini collaborazionisti con gli invasori tedeschi, pur non essendosi mai interessata di politica, inizia una fattiva e intensa collaborazione con i partigiani assumendo il ruolo di staffetta e sostituendosi, in pratica, al marito.

L’episodio che la induce a questa decisione è l’uccisione della sua gatta, tutto ciò che le era rimasto di Palita e della loro intimità senza figli e simbolo di una distrutta unità familiare, da parte di un soldato tedesco, Kurt, che, per divertimento, spara all’animale, tra le risate dei suoi commilitoni e della vicina di casa. Agnese si vendica colpendo il soldato alla testa con un fucile, uccidendolo. La donna fugge e si rifugia presso una famiglia di partigiani. Da questo momento collabora totalmente con le forze della Resistenza, organizzando staffette e rendendosi utile nell’ubbidire ai diversi ordini che le vengono impartiti dal suo Comandante, mettendo in mostra doti di efficace servizio e di disponibilità non comuni.

Dopo tante imprese, anche pericolose, riuscite, e tanta abnegazione espressa in condizioni difficili, Agnese purtroppo s’imbatte nel maresciallo tedesco, superiore di Kurt, presente durante l’episodio dell’uccisione della gatta, che la riconosce e che

prese la pistola, le sparò da vicino negli occhi, sulla bocca, sulla fronte, uno, due, quattro colpi. Lei piombò in giù col viso fracassato contro la terra. Tutti scapparono urlando. Il maresciallo rimise la pistola nella fondina, e tremava, certo di rabbia. Allora il tenente gli disse qualche cosa in tedesco, e sorrise. L’Agnese restò sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci sulla neve. (p. 239)
 
Se esistesse una classifica immaginaria delle opere più emblematiche e convincenti della letteratura resistenziale neorealista, questa probabilmente occuperebbe una posizione da podio, tanto ricca è la tematica rappresentata e tanto coinvolgente lo stile utilizzato per rappresentarla. Si tratta di un indispensabile documento per comprendere cosa sia stata la Resistenza nella sua accezione di guerra di popolo, la prima della nostra storia. Vi è narrato il contesto bellico, quello partigiano, un prototipo di lotta indefinito e indefinibile, tra le incertezze seguite all’8 settembre e un’evoluzione ancora impossibile da immaginare. Ma, soprattutto, è descritta una personalità, quella di una “donna senza qualità”, perché va al di là di una possibile interpretazione convenzionale: nel mondo di Agnese non sono necessarie le qualità, ma contano soltanto i tratti del mito, la consapevolezza di un’ineluttabilità titanica e sacra. Lo afferma Sebastiano Vassalli nella prefazione del testo:

Io credo che questo personaggio femminile solo così possa intendersi, nell’ambito di una simbologia, quella del sacrificio, che costituisce la radice stessa dell’esperienza religiosa nelle civiltà occidentali. Del resto è fin troppo evidente che Agnese non è solo un personaggio letterario, è un simbolo di qualcosa di più grande e di più importante che tanto meglio traspare nel testo quanto più si annulla come personaggio, per accumulazione di virtù negative: semplicità, umiltà, abnegazione eccetera. Agnese è una donna che vive, sia pure in una prospettiva limitata, un grande fatto storico: annullandosi come donna, diventando ‘una piccola donna senza qualità’, Agnese esce in pratica dalla realtà per diventare incarnazione di un mito destinato a compiersi con la sua morte. (p. 2)

Agnese è innocente, istintiva, quasi inconsapevole del ruolo che la Storia la indurrà a recitare, in una dimensione assolutamente eroica. Quando il romanzo uscì, nel 1949, si trovò subito, per la particolare situazione politica e sociale italiana, al centro di numerose polemiche in cui la dimensione politica superava quella letteraria: troppo radicale la posizione dell’autrice con il bene solo da una parte e il male dall’altra, nell’ottica calviniana del capitolo IX de Il sentiero dei nidi di ragno, a totale sostegno ideologico della posizione partigiana. Ha scritto Manacorda:

Il merito della Viganò – unico forse in tutto il genere – fu quello di riuscire a conservare a un testo così scopertamente di parte la convinzione della verità assoluta, che rimane accettabile proprio perché non viene chiassosamente o ufficialmente bandita, ma semplicemente detta.[1]

Una “verità assoluta” che s’impreziosisce oggi, attraverso la lente della storia, dell’ormai inesistente rischio di confonderci nelle polemiche politiche, lasciando al lettore la possibilità di apprezzare l’opera della Viganò per la sua verità narrativa e per il suo indubitabile valore artistico, accresciuto dal valore aggiunto della scrittura femminile, come si può apprezzare nel brano che segue, illuminato dalla sensibilità dell’istinto, origine di vita. È lungo ma vale la pena di citarlo per cogliere lo spessore del libro.

Adesso, invece, potrebbe parlare con Palita. Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava «cose da uomini», il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri perché, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono. — Perché non posso avere una bambola? — Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio? — Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica? — Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del podestà resta a casa? — Perché non potrò avere un funerale lungo, con i fiori e le candele? — Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle. Lei, quando andava per il bucato, i signori del paese la salutavano appena, la lasciavano sulla porta. E non ci si azzardava a dir niente, per paura di sbagliare, di far ridere, di perdere anche il pane di tutti i giorni. C’era però chi diceva qualche cosa: il partito, i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente. Dicevano che così non poteva andare, che bisognava cambiare il mondo, che è ora di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia. I fascisti non volevano, e loro ci si buttavano contro malgrado la prigione e la morte. I fascisti avevano fatto venire in Italia i tedeschi, avevano scelto per amici i più cattivi del mondo, e loro si buttavano anche contro i tedeschi. Ed era tutta gente come Magòn, come Walter, come Tarzan, come il Comandante, gente istruita, che capisce e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena si arriva, dice: — Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa? — e prima di andar via dice: — Buona notte e buon Natale, mamma Agnese. Questo era il partito, e valeva la pena di farsi ammazzare L’Agnese mise giù la calza, e s’affacciò a vedere fuori della porta. Era già notte, e nevicava ancora. (pp. 165-167)

Da leggere, rileggere, meditare e mandare a memoria. Contro i revisionismi insani e i negazionismi.

di Daniele Gallo


[1] Cfr. Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 48.

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