Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia (Feltrinelli, Milano 1963)
Libri di questo tipo, oggi, sono una prassi collaudata, penso a La macchina del vento del collettivo Wu Ming 1 (Einaudi 2019). Tuttavia quando, esattamente sessant’anni fa, nello stesso anno de La tregua di Primo Levi, La cognizione del dolore di Gadda e Lessico famigliare di Natalia Ginzsburg, uscì il libro di Marcello Venturi ci si accorse subito che esso rappresentava un nuovo modo di costruire una narrazione, perché sapeva legare magistralmente storia e narrativa, realtà e finzione, facendo “dialogare” due piani temporali distinti e complementari.
In realtà, che Venturi fosse uno scrittore con la S maiuscola se ne erano già accorti in molti, a partire da due intellettuali a lui contemporanei. Elio Vittorini, che lo aveva coinvolto nella sua avventura editoriale (Il Politecnico) e Italo Calvino, che già nel 1946 si era visto “soffiare” il primo premio del concorso letterario indetto dall’Unità di Genova, dove Venturi aveva sbaragliato la concorrenza con il racconto Cinque minuti di tempo, dopo il 1995 mai più ristampato. Così scriveva Calvino:
Venturi è il vero scrittore partigiano, eroico e corale insieme, emotivo eppure scarno, senza pudore della propria commossa tragicità. È il narratore che nasce dalla lotta di resistenza e che racconta, spesso con popolaresca ingenuità, le emozioni collettive.
Eroico, corale, tragico, intimo. Sono le stesse parole che connotano il romanzo che Marcello Venturi sentì profondamente la necessità di scrivere alla fine degli anni Cinquanta. Oltre duecento pagine incentrate su un episodio decisivo, eppure allora volutamente ignorato, in merito a quanto di così drammatico era successo nel settembre del 1943 in un’isola greca, non molto distante dalle coste pugliesi, dove a un certo punto Venturi non esita a farci rivivere «l’urlo delle Sirene degli Stukas», «il rombo continuo dell’artiglieria», «il sapore delle pallottole», «i tiri dei cecchini che s’intrecciavano come voli di rondini», i corpi dei granatieri uccisi, che «galleggiavano come relitti».
Bandiera bianca a Cefalonia è un affresco che nell’iter creativo di Venturi rimane sicuramente fondamentale sia per la sua biografia intellettuale, sia per l’importanza assunta anche fra gli studiosi di storia contemporanea della sua generazione. Quelli che, in qualche modo, sono stati coinvolti nel Premio Acqui Storia, ideato da Venturi e dedicato alla divisione militare trucidata in terra ellenica. È una tragedia incredibile quella di cui ci parla Venturi, un’orribile e inconfessata strage di soldati italiani, quelli della Divisione Acqui appunto, portata avanti con fredda determinazione dagli ufficiali della Wehrmacht che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nel giro di pochi giorni – ovvero tra il 20 e 24 settembre – decisero di passare per le armi 6.500 soldati italiani. Qualcuno si ricorderà forse la miniserie Rai, con protagonista Luca Zingaretti e le musiche di Ennio Morricone, trasmessa nel 2005 che era incentrata sulla vicenda.
Fino all’armistizio non era accaduto niente di niente, salvo gli spostamenti di truppe. Nessuno avrebbe potuto prevedere ciò che doveva scoppiare di lì a un po’. Chi l’avrebbe immaginato? aveva sussurrato guardandomi, ma rivolto a sé stesso. E d’improvviso, palesemente contro la sua volontà, egli aveva rivisto qualcosa: perché nei suoi occhi, mi era sembrato di cogliere l’ombra fredda della paura. Una frazione di secondo, appena avvertita: aveva sfiorato l’abisso del ricordo, il ricordo centrale, attorno al quale la sua vita aveva fatto perno inconsciamente, tornandovi e allontanandosene, tentando di liberarsene, di cui si credeva o voleva credersi liberato, ma che era lì, pronto a riaffiorare alla prima occasione.
Per raccontare quello che avvenne a Cefalonia, dopo esservi stato per settimane a parlare con superstiti e testimoni (i cui ricordi sono in parte riproposti nei due personaggi comprimari, Pasquale Lacerba e Caterina Patriotis), Venturi opera su due piani narrativi. In uno immagina il viaggio, tormentato, del figlio di Aldo Pugliesi, uno dei tanti soldati e ufficiali italiani rimasti vittime di quell’eccidio, sceso nell’isola alla ricerca di verità o, almeno, di frammenti di verità.
Perché, mi chiedevo, sono venuto a svegliare i ricordi di questa gente? I ricordi che dormivano nella dimenticanza, cancellati dal terremoto? Solo in quel preciso momento, mi ero reso conto che stavo commettendo un arbitrio. lo violentavo la loro memoria, entravo nel loro passato; li costringevo, con la mia presenza, a disseppellire ciò che essi avevano seppellito dietro di sé.
Nell’altro piano narrativo, Venturi rievoca e ricostruisce, con attenzione documentaria e notevole efficacia, quanto è davvero accaduto durante quella strage, che per troppo tempo si era tentato vergognosamente di occultare. Perché la Germania, non dimentichiamolo, ha sempre cercato di depistare e insabbiare quell’episodio, che andava a infangare la divisa “immacolata” degli ufficiali delle sue Forze Armate… Si chiede Venturi: «Non sarebbe stato meglio se anche loro, i tedeschi, la finissero con la guerra e con tutto?» E invece, fra ordini e contrordini, la situazione precipita, anche perché «mai la Divisione Acqui sarebbe partita da Cefalonia disarmata», mai avrebbe «abbandonato l’isola ai tedeschi senza combattere».
Forse le pagine in cui il figlio del capitano Puglisi cammina sulla stessa strada percorsa dai militari italiani prima che essi vengano fucilati (nell’edizione che ho letto – uscita per Le Mani di Genova nel 1997 – sono le pagine 123 e 124) sono quelle più intense. Qui la vena neorealista di Venturi lascia il passo ad una narrazione lirica intimistica, in un continuo rimando temporale tra ieri e oggi, tra passato e presente, tra umanità e disumanità, tra dignità e ferocia.
Qui, contro questa facciata, pensai, furono fucilati. Se con le spalle al muro, essi avevano visto, indubbiamente, questo pezzo di mare, di orizzonte, inquadrato tra le due tamerici. Era il mattino quando la fucilazione cominciò. Era un bel mattino di mezzo settembre. I loro occhi avevano abbracciato e compreso questo breve spazio, ma profondo. Si erano fermati sul mare, che è un libero elemento, non immobile come la terra, privo di radici; e che pure, per essi, si era fatto ostile e insuperabile come le mura di una prigione, come il vuoto. Se, invece, li avevano fucilati alla schiena, allora i loro occhi si erano fermati su questa parete che più non esisteva; magari su questo pezzo di muro, adesso rotolato sull’erba; o questo sasso inverdito dal tempo, o questo gradino.
Cinquant’anni fa, nell’accorata prefazione al volume per la ristampa nel 1972 (il romanzo è stato poi tradotto il 14 lingue), Sandro Pertini non aveva usato eufemismi:
fino a quando non comparve questo libro, nel 1963, il massacro di Cefalonia era praticamente sconosciuto in Germania e nel resto del mondo; il libro di Marcello Venturi, che è un romanzo con valore di testimonianza, ruppe il silenzio che, se era complice in Germania, era colpevole in Italia. Venturi compì una lacerante odissea nel pelago dei ricordi e delle tracce, incontrò i superstiti, lesse documenti, fece un sopralluogo a Cefalonia, cercò addirittura di rimettere in moto la macchina processuale per i crimini nazisti.
E, anche se non vi riuscì, la sua rimane una prova inconfutabile di quello che può essere considerato «un passaggio fondamentale per la storia d’Italia».
Pertini chiariva il motivo:
perché per la prima volta ufficiali e soldati poterono decidere del loro destino, se volevano combattere contro i tedeschi o continuare la guerra con essi o cedere le armi. Decisero di resistere. Fu l’inizio della Resistenza e l’inizio della democrazia.
di Claudio A. Colombo