Il 2 novembre del 1943 Camille de Hody, 56 anni, magistrato presso il tribunale amministrativo di Strasburgo, assieme alla moglie Geneviève Utard de Hody e a due domestiche viene arrestato dalla Gestapo a Vieille-Brioude in Alvernia, nell’Alta-Loira. de Hody è un gaullista impegnato nella Resistenza alla occupazione nazista ed è stato denunciato dal proprietario e vicino di casa, Charles Pécoil, imprenditore di pompe funebri e miliziano del regime collaborazionista di Vichy. I coniugi de Hody vengono trasferiti nel carcere militare tedesco del 92° Fanteria a Clermont-Ferrand. Le figlie più grandi, Béatrice e Monique, vengono accudite dalle organizzazioni del ‘maquis’, mentre la minore, Edith, viene affidata ad una famiglia amica del paesino. Da quel momento incomincia la loro odissea detentiva. La moglie Geneviève verrà liberata nel febbraio del 1944, mentre Camille dopo essere stato spostato nel centro di ‘raccolta’ di Compiégne, da lì nel marzo del ’44 verrà destinato al terribile lager di Mauthausen, obbligato ai lavori forzati. Ivi morirà di malattia e di stenti il 12 aprile del 1945 a 58 anni, poche settimane prima che gli americani liberassero il campo.

Tutto questo lo si legge in un libro, La casa del dolore (Passigli Editori, 2023), che contiene uno straordinario ‘memoir’ elaborato da Geneviève Utard de Hody dopo la guerra, scritto innanzitutto per sé e per i suoi familiari, ‘per non dimenticare’, ma poi anche come gesto di memoria civile come lei opportunamente sottolinea: “Ogni cittadino dovrebbe però capire che egli rappresenta, non solo in comunione con gli altri, ma anche individualmente, il suo paese, il suo popolo, la sua etnia… La memoria degli atti di abnegazione e di eroismo compiuti dalle grandi anime si propaga dalla cerchia ristretta dei testimoni diretti. Ma tanto più gli eroi sono stati grandi e nobili nel loro sacrificio, tanto più semplici e discrete sono state le loro azioni, quanto minori saranno le possibilità che siano ricordati e valorizzati, se i privilegiati che hanno visto e anche solo intuito quegli atti non se ne fanno carico”.

E Utard de Hody, testimone diretta e ‘privilegiata’ della tragedia bellica, delle immani sofferenze e dell’eroismo dei resistenti, se ne fa dunque carico attraverso un racconto testimoniale vivido, analitico, di grande efficacia, con uno spirito di osservazione psicologica e fenomenologica di notevole acuzie. Tanto più strano, quindi, che Geneviève non si sia data da fare per pubblicare il libro. Probabilmente gli affanni del dopoguerra, il ritorno a Strasburgo, le nuove responsabilità di capofamiglia, la necessità di mantenere e far studiare le tre figlie, avranno messo questo intento in secondo o terzo piano. Un tale oblio è durato sino alla sua morte avvenuta nell’agosto del 1986 e anche ben dopo. È stato soltanto nel 2011 che il suo ‘memoir’ è stato recuperato dalla figlia Edith, a sua volta sollecitata dalla propria figlia Muriel, molto legata alla nonna, ed è stato finalmente pubblicato in Francia. Edith de Hody che vive dal 1968 in Italia, dopo avere sposato Michele Dzieduszycki, un fiorentino di discendenza polacca, e dove ha realizzato un articolato percorso tra arti visive e poesia, ha impiegato lunghi anni a tradurre La casa del dolore, con l’ausilio e la revisione di Giovanni Marchi, dando così la possibilità anche ai lettori italiani di potere scoprire una narrazione personale che ha la capacità di trasfigurarsi in una narrazione storico-epica, tutta vista dall’interno di una condizione infernale di prigioniera sempre in bilico tra la speranza di essere liberata e il fondato timore di essere trascinata in un cammino senza ritorno verso un campo di concentramento, come poi è accaduto al marito.

Il ‘memoir’ è pieno di dettagli e nitidi ricordi del periodo trascorso nel carcere di Clermont-Ferrand. I prigionieri, quelli rastrellati a caso e quelli denunciati come resistenti e lungamente torturati e quindi fucilati, nonché gli ebrei subito avviati ai campi di sterminio. I rapporti con i secondini militari della Wermacht, quelli che mantenevano un residuo di umanità e quelli più brutali e sadici. Le punizioni, gli imbrogli, le derisioni e gli atti di gratuita cattiveria. Gli agenti della Gestapo, i seviziatori e assassini professionisti della polizia politica nazista che suscitavano terrore e orrore. Lo squallore, le condizioni miserande e la ripetitività della vita dei detenuti, i periodi di prostrazione e depressione, i mille magheggi per avere un po’ più di cibo per sopravvivere, per riuscire a mantenere un minimo di igiene personale, le relazioni difformi, talora anche ambigue, tra uomini e donne, le figure sia maschili che femminili che per status e saldezza intellettuale e psicologica diventavano i punti di riferimento, pressoché i leader della massa dei prigionieri. Quindi, la ricerca spasmodica di notizie e di contatti oltre la bolla repressiva e soffocante della prigione. Le notti insonni, le urla disumane delle persone torturate. I momenti di celebrazione religiosa in occasione del Natale officiati da un cappellano tedesco, poi lui pure arrestato e ucciso dai nazisti. La situazione dei francesi arrestati e quella dei tedeschi prigionieri per i motivi più vari. E poi lo sguardo gettato sui ‘traditori’, i collaborazionisti e delatori già in partenza, i ‘pétainisti’ convinti e quelli che non resistevano alle sevizie e decidevano di diventare informatori dei tedeschi, ed erano i più pericolosi, perché voleva dire che dentro le mura del carcere non ti potevi fidare di nessuno, dovevi stare sempre attento a parlare, chiunque in teoria poteva rivelarsi una spia e denunciarti.

Peraltro, su quest’ultimo argomento, nella sezione documentaria del volume, si riporta un articolo del settimanale “L’Express” del settembre 1989 in cui si osserva: “… sotto l’occupazione la Francia ha battuto i record di delazione. Bilancio: centinaia di migliaia di vittime. E una ferita mai rimarginata… Il colonnello delle SS Bickler, sentito dal tribunale di Norimberga dopo il conflitto, lo ha confermato: «Sulle nostre scrivanie si sono accumulati più di tre milioni di denunce»… Il suo ufficio ha inquadrato i francesi che lavorarono per l’ordine nero: «32.000 agenti», ha precisato… «Senza ausiliari e delatori non si può né rastrellare né tenere occupato un paese»… criminali sono anche le ‘pecore’, gli arrabbiati della lettera anonima. Apertamente o di nascosto, hanno consegnato ogni giorno 2.600 persone ai gendarmi… senza omettere le Kommandatur e la Gestapo. Indicare bersagli ai nazisti equivaleva a un permesso di uccidere”. La Francia occupata come una nazione popolata di ‘corvi’ infami, di vittime ansiose di collaborare con i carnefici.      

Tornando al ‘memoir’, si può dire che Utard de Hody abbia quasi steso una relazione prismatica, minuziosa, circostanziata e particolareggiata sul microcosmo carcerario in quell’atroce periodo bellico, mercè una scrittura lineare, comunicativa, ma mai banale, sempre incline al taglio descrittivo sia dell’aspetto fisico e fisiognomico dei tanti soggetti narrati, sia del loro carattere, dei loro comportamenti, delle loro azioni, delle loro doppiezze e debolezze come delle loro fulgide qualità psico-morali.

La casa del dolore è un viaggio di memoria nell’abisso di una guerra di ottant’anni fa, ma è anche un viaggio-monito su determinate invarianti antropologiche di crudeltà, ferocia, viltà e all’opposto di eroismo, integrità e coraggio che valgono pure per il presente e per il futuro. Secondo avrebbe detto Alberto Savinio: “Narrate, uomini, la vostra storia”, in tanti vi si riconosceranno.    

di Marco Palladini

Fonte: https://lagedorivista.wordpress.com/2023/07/06/diario-dautore-15-note-random-su-g-de-hody-c-bene-s-gussoni-c-e-gadda-anni-belli-cinerealismo-leta-di-gesu-antifascismo-m-proietti/

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