A cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi,
Il Ponte Editore, Firenze 2022, pp. 520
Nelle edizioni della rivista «Il Ponte» compare ora questo volume di oltre 500 pagine che intende mettere ordine nelle dispute politiche e filosofiche che hanno visto al centro delle polemiche il liberalsocialismo. Il libro ne propone una ‘controstoria’ attraverso due introduzioni dei curatori e un’ampia sezione antologica comprendente scritti e testimonianze di Aldo Capitini, Walter Binni, Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti, Piero Calamandrei, Gaetano Arfè, Norberto Bobbio, Guido Calogero, Carlo De Cugis, Mario Delle Piane, Maria Pia Dradi, Bruno Enei, Tommaso Fiore, Maria Luigia Guaita, Cesare Luporini e Carlo Ludovico Ragghianti.
Che cos’è stato il liberalsocialismo? Marcello Rossi cerca di chiarirlo nel suo contributo. Non è stato certamente l’ircocervo cui si riferiva polemicamente Croce perché il liberalsocialismo non è il contemperamento di liberalismo e socialismo. Entrambi i curatori, Rossi e Binni, convengono sul fatto che è Capitini ad aver dato linfa vitale al concetto di liberalsocialismo con la sua riflessione etica e politica, là dove Calogero ha piuttosto posato il suo occhio sulla costruzione giuridica che sarebbe scaturita da tale impostazione.
Tuttavia il termine liberalsocialismo resta oggettivamente ambiguo e sia Capitini che Calogero avvertono la necessità di chiarire a se stessi e agli altri il concetto. Il liberalsocialismo capitiniano, in particolare, pone l’esigenza di portare la libertà nel socialismo e non si propone – come era stato fino ad allora scopo delle forze socialdemocratiche – la costruzione del socialismo nella libertà. Aderire al liberalsocialismo capitiniano significava sposare un socialismo rivoluzionario e un amore per la libertà che andava trasferito dal piano delle idee a quello dell’azione per permettere ad ogni uomo di realizzarsi integralmente. Questa idea di liberalsocialismo prende piede soprattutto nell’Italia centrale, tra la Toscana (Firenze, Pisa e Siena) e l’Umbria (Perugia), dove diventa una delle componenti costitutive del Partito d’azione.
Quando, dopo la fine della guerra, le varie anime del Pd’a si confronteranno in un libero dibattito, saranno chiare le differenze. Emergeranno così «il riformismo istituzionale del partito lamalfiano, in funzione di un ricambio di classe dirigente borghese al vertice della piramide sociale»; coloro che vedevano nel PSI – ancora legato al PCI staliniano – il naturale sbocco della loro militanza e, infine, «il movimento radicalmente democratico e socialista di Capitini e dei suoi allievi umbro-toscani, per una diversa prospettiva di riorganizzazione della società post-fascista centrata sul protagonismo delle classi subalterne». Queste contraddizioni interne al partito erano già state chiaramente avvertite nel 1942 da Capitini e Binni che, infatti, non avevano aderito al Pd’a.
Marcello Rossi scrive che il liberalsocialismo [capitiniano] ha rappresentato “una scheggia eretica” che cercò di percorrere i sentieri meno battuti; era necessario superare le formule stereotipate per far penetrare tra la gente “l’esigenza della libertà” che aveva animato il migliore antifascismo nella battaglia contro il regime ma che trovava la sua più autentica ragion d’essere in una volontà palingenetica ad ogni livello della società. Quanto il liberalsocialismo possa essere ancora utile a questo paese non è forse materia per archeologi, come scrive Rossi in chiusura del suo intervento, ma anche il liberalsocialismo non potrà essere d’aiuto se consegnato nelle mani di una sinistra che ha tragicamente mancato tutti gli appuntamenti con la storia.
di Andrea Becherucci