Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (Einaudi, Torino 1947)

Il sentiero dei nidi di ragno nel 1946 quando era ancora un giovane scrittore, appena uscito dall’esperienza della Resistenza e animato dall’essere protagonista di quella che egli stesso avrebbe definito “l’esplosione letteraria” del secondo dopoguerra: “prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo”. Ardeva il desiderio di raccontare gli anni della lotta silenziosa, della paura, della morte e anche del disincanto, elementi narrativi che costituiscono il cuore dell’esperienza neorealista. Il sentiero dei nidi di ragno è certamente un romanzo particolare per la presenza di due fondamentali motivi: il primo è rappresentato dalla prospettiva della narrazione, scelta quasi unica nella tradizione letteraria italiana, una prospettiva dal basso, quella di un bambino che racconta la guerra partigiana e vuole esserne protagonista. Pin sembra un adulto, parla, si esalta, si impaurisce, non capisce, come un adulto. Non possiede gli strumenti, né l’esperienza di un adulto ma non servono, non li vuole, ne prende le distanze.

I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch’essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l’altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero. Prima sembrava che giocassero con l’uomo sconosciuto contro il tedesco, adesso da soli contro l’uomo sconosciuto, non ci si può mai fidare di quel che dicono. (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, Milano 1993, pp. 21-22).

L’autore sottolinea tutto il disagio di Pin, non più bambino e non ancora adulto.

È triste essere come lui, un bambino nel mondo dei grandi, sempre un bambino, trattato dai grandi come qualcosa di divertente e di noioso; e non poter usare quelle loro cose misteriose ed eccitanti, armi e donne, non potere far mai parte dei loro giochi. Ma Pin un giorno diventerà grande, e potrà essere cattivo con tutti, vendicarsi di quelli che non sono stati buoni con lui: Pin vorrebbe essere grande già adesso, o meglio, non grande, ma ammirato o temuto pur restando com’è, essere bambino e insieme capo dei grandi, per qualche impresa meravigliosa (Ivi, p. 150).

Calvino sceglie la chiave di lettura di un bambino dalla quale far scorrere i movimenti tumultuosi della Storia con la S maiuscola. Lo scrittore dà voce a un protagonista che rappresenta, come egli stesso ricorda, “un’immagine di regressione”: l’infanzia solitaria e difficile dell’orfano Pin, che vive con una sorella dai disinibiti costumi, supera l’intrinseco valore metaforico e regala al lettore un’angolazione nuova e imprevista. Pin osserva dal suo mondo fiabesco di “bambino vecchio” le esistenze incomprensibili del mondo degli adulti, rappresentate dai misteriosi sotterfugi degli amici dell’osteria, dagli amplessi animaleschi della sorella, dalle parole oscure (“Gap”, “trotskista”, “Sten”, “Sim”) che il bambino sente e non riesce a interpretare e alle quali assegna significati fiabeschi e magici. Pin non sa ancora cosa sia la storia e il suo ruolo nella storia: va a scoprirlo rubando una P38 a un ufficiale tedesco, mentre amoreggia con sua sorella. La pistola diventa la bacchetta magica, il passaporto che permette di entrare nel mondo dei grandi, un bene prezioso che deve essere custodito nel segreto forziere conosciuto unicamente (forse) da lui, un forziere che si identifica con il suo luogo dell’anima, una buca nascosta nella terra sul sentiero dei nidi di ragno. Il bambino è ancora sospeso tra un’infanzia che non gli è mai appartenuta e un mondo adulto altrettanto estraneo, ma che tuttavia lo attrae perché è consapevole che sarà la destinazione finale in cui troverà e conoscerà i suoi compagni di vita. In questa sua ricerca controlla, osserva e giudica gli adulti, diventando a volte intransigente censore dei loro discorsi e dei loro comportamenti ed emarginandosi ulteriormente. L’unico gioco che conta in questo momento è la guerra contro il nemico, e anche Pin vuole parteciparvi, un po’ a suo modo, con sbeffeggiamenti irriguardosi fatti di stornelli inventati e di atteggiamenti burleschi. Dentro il suo cuore il mondo immobile e incantato del sentiero dei nidi di ragno, che solo Pin conosce e che rivelerà unicamente al suo grande Amico, guida e punto di riferimento da sempre invocato e cercato, quando finalmente lo incontrerà. Intanto scimmiotta sempre di più il mondo dei grandi trasformandosi in carnefice delle creature di fossi e prati tanto per confermare una legge di natura: esistono, sempre e ovunque, i forti e i deboli, e sempre e ovunque i forti hanno la meglio. Anche se a volte sembra volerne dubitare, e rifiutarla come quando il suo compagno Dritto gli ordina di seppellire il falchetto morto appartenuto a un partigiano. E, alla fine del racconto, quando ormai sembrava doverci rinunciare, Pin troverà il suo Amico e lo troverà proprio nel mondo dei grandi: è Cugino, con il suo mantello scuro e le mani grandi, “che sembrano di pane”, di poche parole brusche e il peso di un grande dolore sulle spalle. Un altro ferito dalla vita, che trova nella guerra il senso per vivere. E proprio lui, alla fine del romanzo, sarà incaricato di uccidere la sorella di Pin, spia per i Tedeschi. Ma Pin non lo capirà: per il bambino quella Storia rappresenta e rimane un enigma. La cosa che conta è aver trovato l’Amico: “E continuarono a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano”. (Ivi, p. 159). Un’immagine di speranza e di fiducia nel futuro.

Il secondo motivo che rende questo romanzo meritevole di particolare attenzione è rappresentato dall’entusiasmo “ideologico” del suo Autore, impegnato con slancio giovanile (Calvino scrive questo romanzo a 23 anni) a raccontare ai lettori i valori del comunismo e l’importanza della lotta partigiana alla quale egli stesso aderisce con convinzione e impeto. Approfittando dello sviluppo narrativo e della descrizione di vari momenti della lotta partigiana e dei suoi protagonisti nell’ormai celebre capitolo IX del testo, l’Autore quasi sospende la narrazione per raccontare e accreditare la dottrina comunista e la lotta antifascista. I due capi partigiani Kim e Ferriera, infatti, prima di una decisiva battaglia con i fascisti, indugiano dialogando nel valorizzare i valori del comunismo, senza pretese di approfondimenti politici, ma con l’obiettivo di farsi capire da tutti, semplicemente e con decisiva efficacia. La narrazione è certamente didattica e ha scopo divulgativo:

Ragazzi (…) ognuno lo sa perché fa il partigiano. Io facevo lo stagnino e giravo per le campagne, il mio grido si sentiva da distante e le donne andavano a prendere le casseruole bucate per darmele da aggiustare. Io andavo nelle case e scherzavo con le serve e alle volte mi davano uova e bicchieri di vino. Mi mettevo a stagnare i recipienti in un prato e intorno avevo sempre bambini che mi stavano a guardare. Adesso non posso più girare per le campagne perché mi arresterebbero e ci sono i bombardamenti che spaccano tutto. Per questo facciamo i partigiani: per tornare a fare lo stagnino, e che ci sia il vino e le uova a buon prezzo, e che non ci arrestino più e non ci sia più l’allarme. E poi anche vogliamo il comunismo. Il comunismo è che non ci siano più delle case dove ti sbattano la porta in faccia, da esser costretti a entrarci nei pollai, la notte. Il comunismo è che se entri in una casa e mangiano della minestra, ti diano della minestra, anche se sei stagnino, e se mangiano del panettone, a Natale, ti diano del panettone. Ecco cos’è il comunismo. (Ivi, pp.102-103).

Può certamente sembrare una didattica ingenua, naif, ma Calvino sentiva forte il bisogno di divulgare l’ideale del comunismo, i suoi comportamenti, i suoi programmi, la sua speranza di costruire una società più equilibrata, più giusta, più democratica. E che ciò potesse essere chiaro a tutti. In queste pagine viene a galla la giovane età dell’autore: il suo entusiasmo e la sua foga non conoscono limiti. Il suo bisogno di rappresentare l’ideale del comunismo è un bisogno fisico, più ancora che sociale e politico. Non si può che essere comunisti

Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, nonservono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi.

Calvino è un estremista puro, della prima ora: non conosce sfumature, concessioni, ambiguità, debolezze. Crede fermamente nel programma politico che il comunismo assicura, che garantirà soprattutto quella libertà e quell’uguaglianza sociale che il fascismo ha violentemente cancellato. Per questo occorre lottare come lottano i protagonisti del libro, a partire da Kim e Ferriera.

Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo. (Ivi, pp.114-115).

Raramente la letteratura ha potuto ospitare tanto entusiasmo e tanta convinzione nell’affermazione di un ideale: il racconto che diventa manifesto politico, la narrazione che si carica di un’appassionata dolcezza didattica che ti arriva direttamente al cuore.

di Daniele Gallo

 

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