È significativo notare come la traumatica aggressione di Putin all’Ucraina coincida con un atto apparentemente secondario rispetto alle drammatiche evidenze dei massacri e delle distruzioni.

Nelle settimane precedenti l’aggressione, è circolata la notizia della chiusura a Mosca di Memorial, l’archivio e fondazione attiva per la difesa dei diritti umani, fondato dal dissidente Andrei Sakharov nel 1989 allo scopo di testimoniare e ricordare le violenze della dittatura sovietica contro ogni forma di dissenso.

L’organizzazione voluta dal Premio Nobel per la Pace è accusata di operare addirittura come agente straniero. Si concludeva in realtà un ciclo che, dalla caduta del Muro di Berlino ad oggi, riconnetteva la continuità del regime di Putin, dei cosiddetti “oligarchi”, con il vecchio ordine poliziesco burocratico comunista con la polizia segreta NKVD poi KGB. La storia personale di Putin, già agente della polizia segreta sovietica operativo a Dresda, testimonia di questa continuità.

Nello stesso periodo nella precaria enclave democratica di Hong Kong, veniva rimossa per ordine del  governo comunista di Pechino, The Pillar of Shame, il pilastro della vergogna. L’opera dell’artista danese, Jens Galschiøt rappresentava (dovrebbe essere stata distrutta di nascosto) con i suoi otto mt. di altezza i volti terrorizzati della repressione di Tienanmen. L’iconoclastia di stato del regime comunista cinese opera allo stesso modo dei talebani con la distruzione delle statue dei Buddha.

Da alcuni anni l’occidente libero e democratico è funestato di una ondata iconoclasta verso la storia. Una frenesia distruttiva di revisione dei processi storici individuati come contrari al “politicamente corretto” non sembra risparmiare neanche le culture greca e latina. Il passato, le sue immagini (per lo più monumenti), e con esso i valori che sono stati espressi e fondati, sono condannati a un processo di revisione forzata ad opera di una discutibile cancel culture che, nella cancellazione delle immagini, tenta di delegittimare i processi costitutivi della cultura occidentale. Le immagini si danno come forma del possibile, forme sensibili della memoria e del rimemorare, dei processi creativi caratterizzati dai percorsi storici nei quali la cultura artistica (con quella delle immagini) si significa nel corso del tempo. La nuova Damnatio Memoriae è imposta da gruppi minoritari di attivisti, aggregati da una ideologia semplificata e omologata alla comunicazione riduttiva dei social media. Lo schematismo ideologico gioca, nella logica dele comunicazione mediatica, su schemi elementari ridotti ai Likes iconici, evitando di affrontare la complessità dialettica.

 Secoli di processi culturali si riducono a elementi iconici primari. La stesa figuratività risponde a questo schematismo rigido e riduttivo. Un artista iconico come Bansky che oscilla fra le grandi mostre di successo commerciale, l’ideologismo da centro sociale e il mercato finanziario legato persino al riciclaggio, nasconde la propria identità come finto anarchico, attivista anonimo. Figurazioni banali divenute iconiche con la pretesa di rappresentare tematiche sociali complesse, ridotte a schematismi iconici di primitiva figurazione, come la bambina con i palloncini, diventa operazione commerciale giocata su dati mediatici tanto semplicistici quanto mediaticamente efficaci. Si propone nell’arte un sistema operativo “a bassa risoluzione”, dagli effetti facilmente accessibili ai media, e alla acritica fruizione di massa, come i voli low cost, il consumo di mercato, tutto programmato e strutturato come i prodotti a bassa definizione estetica e  priva  di  contenuti poetici. 

Caratteristica di questo tipo di procedimento è la facile comunicazione, la immediata veicolazione mediatica. L’assenza di strutture dialettiche e di ogni elemento di tipo critico riflessivo a favore di assertività retorica e immediatezza iconica. Caratteristiche scadenti si accompagnano a sopravvalutazioni di costi ingiustificabili, se non nell’ambito della speculazione finanziaria che, nell’arte contemporanea, assume aspetti parossistici in virtù della incontrollabilità della produzione. Arte di consumo come street art, iconismo pop, in genere scadente produzione iconica, si caratterizza da prezzi altissimi incontrollabili, che fanno di questo filone un veicolo particolarmente appetibile per canali finanziari non trasparenti.

Il complesso sistema dell’arte attuale veicola contenuti e icone alla stessa velocità consumistica dell’informazione. Del meccanismo informazionale condivide metodi, contenuti e strategie operative. Di fatto l’arte legata a questa struttura estetica comunicazionale, procede per strategie fortemente omologanti, raccoglie consensi universalistici, non pone particolari problemi ermeneutici, lasciando l’interpretazione e il giudizio nell’ombra della “sensazione” acritica, immediata, omologante, facilmente orientabile verso il senso comune immediatamente riconoscibile. In questo senso l’arte comunicazionale non è diversa, per forma e per contenuti dalla divulgazione propagandistica di regime del realismo socialista e dei codici figurativi  banalmente “realistici” adottati dai regimi totalitari. L’assenza di elementi linguistici strutturalmente dialettici, neutralizzano la natura problematica e riflessiva della testimonianza personale dell’artista, il suo fare cenno al pensiero, all’esperienza di vita. Questa condizione di apparente insignificanza e neutralità, colloca l’opera artistica sullo stesso piano della comunicazione unidirezionale, assertiva e priva di   interrogativi, come uno slogan politico o pubblicitario.

 Diversa lettura merita la relazione fra esperienza artistica come ricerca e relazione con la memoria come testimonianza. Per attivare il passato bisogna operare nel presente come istanza di cambiamento. Nell’operare dell’artista irrompe la vita vissuta, la sedimentazione del sentire, l’elaborazione di memoria e di testimonianza, in una forma artistica capace di esprimere, nelle sue caratteristiche formali di “linguaggio”,  contenuti sedimentati (Adorno). L’opera d’arte nel suo presentarsi, nel suo apparire, è mimesi in quanto “ricordo” e al contempo testimonianza. In questa apparenza essa rivela il proprio contenuto di verità.  Rilevando la propria autonomia linguistica rispetto alla lingua comune, l’opera d’arte dice qualcosa di differente, qualcosa che esprime al di là del senso comune, un “vedere differente”. Più che rappresentare, essa si pone come presentazione di un evento, di qualcosa di cui l’artista attraverso il proprio operare testimonia.

L’esperienza estetica del Novecento, il secolo che ha visto trasformare i grandi sogni di liberazione e di riscatto, le aspirazioni identitarie dei popoli, in spaventosi incubi durati decenni, è ricca di percorsi linguistici e stilistiche aprono allo sguardo della memoria e soprattutto delle rimemorazione.

“E’ per stratificazioni che noi siamo ed è per successive intuizioni, pentimenti, nuove decisioni che si giunge a compiere un lavoro […] mi accorgo che il mio modo elementare di fare la scultura è quello di togliere e aggiungere […] E’ simile al mio dubbio continuo, cancellare e preferire nuove frasi nel dibattito continuo che rimugino.”  (Leoncillo Leonardi).

 Vedere gli orrori delle guerre con gli occhi di Goya, di Picasso, di Brecht, significa aprire il proprio sguardo verso la riflessione, non solo fermarlo sulla sensazione. Attraversare la intenzionalità del segno di un artista significa compiere una esperienza di sguardo differente, orientato non verso ciò che si vede, ma verso il visibile come possibilità del possibile, come suggeriva Paul Klee quando ammoniva, alle soglie della prima guerra mondiale che scopo dell’arte non è quello di ripetere le cose viste, ma quello di “rendere  visibile”.

Marc Chagall, Felix Nussbaum, Kate Collowitz, Otto Dix, George Grosz, Ben Shahn, Josef Szajna, Tadeuzs Kantor, Wladislaw Strzeminski, Anselm Kiefer, Christian Boltanski, Zoran Music sono  solo alcuni fra  gli artisti più noti per  la ricerca  legata alla memoria  e alla  testimonianza, cui vanno aggiunti  gli italiani  Mario Mafai, Antonietta Raphael, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Leoncillo Leonardi,  Corrado Cagli,  Mirko e Afro  Basaldella,  Alberto Burri, soltanto per citare i più noti.

La Casa della Memoria e della Storia di Roma, su iniziativa dell’indimenticabile Vittorio Cimiotta e di Bianca Lami, promuove da anni iniziative di ricerca e di percorsi espositivi particolarmente attente ai giovani artisti sul tema della memoria e della testimonianza, In questo lungo percorso dal 2012, Il segno delle Orme,  e in seguito altre  rassegne  come l’omaggio a Carlo Levi, l’arte e la Resistenza, l’arte e la Shoah, sono state allestite mostre di artisti e di allievi dell’Accademia di Belle Arti. I percorsi espositivi si sono caratterizzati come momenti di riflessione operativa, attraverso i linguaggi artistici, dalla figurazione alla fotografia, alle  installazioni, come  risultato di un ricerca e di una  riflessione  sugli  eventi del  Novecento.

di Dario Evola

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