Il 20 ottobre 1947, venticinque anni dopo la Marcia su Roma che aveva aperto le porte del potere a Mussolini, il Consiglio nazionale del Partito d’Azione decretava (con 64 voti contro 29) la confluenza del partito nel PSI di Nenni e Basso. Una decisione sofferta, preceduta da una lunga crisi iniziata alla fine del 1945 con la caduta del Governo Parri, emersa in tutta la sua portata in occasione del I° Congresso nazionale di Roma (febbraio 1946) che si era concluso con la scissione del gruppo di La Malfa e dello stesso Parri [1]. In quell’anno, il Pd’A aveva poi affrontato le elezioni per l’Assemblea Costituente raccogliendo soltanto l’1,5% dei voti e riuscendo ad eleggere 7 deputati [2]. Il PRI, con il 4,4%, ne aveva eletti ben 23 mentre La Malfa e Parri erano diventati deputati della Costituente grazie alla Concentrazione democratica repubblicana, che pure aveva ottenuto solo lo 0,4% dei consensi. Proprio quel risultato elettorale aveva sancito la vera fine del Pd’A, in cui si era sviluppato un dibattito interno non privo di asprezze, reso ancor più complesso dalla lacerante scissione di Palazzo Barberini e dalla nascita del PSLI di Saragat, che aveva rotto l’unità socialista sulla base della diversità di orientamento riguardo ai rapporti dell’allora PSIUP con il PCI.
Dunque, per dirla con l’ormai celebre metafora di Giovanni De Luna, il “partito dei fucili”, che era stato un protagonista di primo piano della Resistenza, non era riuscito a diventare il “partito delle tessere”, cioè a calarsi nell’agone politico in tempo di pace elaborando una proposta politica sufficientemente chiara e capace di attrarre gli elettori. Va però chiarito che il Pd’A, in quanto partito dichiaratamente rivoluzionario, aveva pagato un prezzo alto per le istanze manifestate anche durante il Governo Parri, il primo dopo la Liberazione. In sostanza, il Pd’A non poteva essere il partito dei ceti medi, che avevano costituito il fulcro del consenso a Mussolini, né poteva diventare il partito dei lavoratori, considerato che gli operai (e in parte i contadini) vedevano proprio nei partiti operai (PSIUP e PCI) i loro più naturali rappresentanti. Il terzo partito di massa (la DC), che fu anche il più votato, rappresentò per molti una soluzione più “rassicurante”. Era guidato da antifascisti ma era interclassista, si mostrò moderato rispetto alla questione istituzionale (i monarchici nel Sud Italia e nelle Isole risultarono essere in maggioranza rispetto al centro-Nord) e lontano da “voli pindarici” (così molti percepirono la rivoluzione democratica basata sulle “spinte dal basso”). Non sostenne l’epurazione, che rispondeva a una legittima (e forse necessaria) esigenza di profondo ricambio delle classi dirigenti compromesse con il fascismo ma che non era di facile realizzazione pratica anche per altri partiti ciellenisti, a cominciare dal PLI. Non sposò idee collettiviste in campo socio-economico e, fin dall’immediato secondo dopoguerra, fu il partito su cui puntarono gli anglo-americani per “stabilizzare” l’Italia e, poi, inserirla nel blocco occidentale di fronte alla genesi della Guerra fredda, figlia della rottura dell’unità antifascista.
Eppure gli azionisti e le loro istanze politico-culturali sopravvissero al Partito d’Azione tanto che, sempre per dirla con De Luna, nel 1947 si generò un “fiume carsico” che non solo attraversò gli altri partiti rinnovandone le culture politiche (a cominciare dal PRI e dai due partiti socialisti), ma influenzò profondamente il dibattito pubblico sulle riforme che, soprattutto dopo la fine del centrismo e l’apertura a sinistra, si tradusse nell’elaborazione di leggi epocali che modernizzarono l’Italia, indirizzandola verso la piena democrazia pur in presenza di contraddizioni, ambiguità, limiti e freni determinati dai conservatori e dai reazionari, un po’ nostalgici del fascismo e un po’ fautori dell’oltranzismo atlantico. Per dimostrare la fertilità del fiume carsico, è sufficiente ricordare qualche nome ed associarlo a riforme approvate fra gli anni Sessanta e Settanta. Codignola fu il principale artefice della riforma della scuola media unica, approvata nel 1962 durante il IV Governo Fanfani, nato con l’astensione di sostegno del PSI. Lombardi, che era stato il protagonista della stesura del programma economico del PSI, approvato all’unanimità nel gennaio 1962, fu uno degli artefici della nazionalizzazione dell’energia elettrica, anch’essa approvata nel 1962 e che fu fortemente voluta anche da La Malfa, autore della celebre Nota aggiuntiva. Lombardi puntò molto anche sulla programmazione democratica che, pur incontrando l’opposizione della destra economica e politica, divenne pure per la Malfa un cavallo di battaglia qualificante del nuovo quadro di governo. De Martino fu, con Lombardi e Nenni, il dirigente del PSI (segretario dopo Nenni) che si dedicò con più convinzione alla svolta autonomista, che modificò i rapporti con il PCI e consentì la nascita del centro-sinistra. Brodolini fu il ministro del Lavoro che lottò strenuamente per lo Statuto dei Lavoratori, di cui non vide l’approvazione definitiva per via della malattia che lo condusse, nel 1969, alla prematura scomparsa, ma che rappresentò il fulcro della sua azione di governo. Spinelli ed Ernesto Rossi, che con Colorni avevano scritto il Manifesto di Ventotene, si batterono per il federalismo e capirono prima di altri che i nazionalismi, causa di due guerre mondiali, si potevano combattere efficacemente costruendo la pace in Europa attraverso la rinuncia a una parte di sovranità da parte dei singoli Stati. Lo sviluppo di quelle idee si tradusse poi nel pur difficile sviluppo del processo d’integrazione europea. Oronzo Reale, che aveva già militato nei repubblicani ma che fu un dirigente del Pd’A, divenne con La Malfa il più importante esponente del PRI e, sostenendo il centro-sinistra al contrario di Pacciardi, fu protagonista della riforma del diritto di famiglia, voluta fortemente da una ex giovane staffetta partigiana che aveva militato nel Pd’A: Gianna Radiconcini. Calamandrei, già protagonista nella stesura della Costituzione repubblicana, fu uno dei dirigenti di Unità Popolare, un movimento fondato con Parri, Codignola e altri ex azionisti (lo sostennero Valiani, Garosci, Venturi, Carlo Levi, Bruno Zevi) che contribuì a non far scattare il premio di maggioranza voluto dalla DC nelle elezioni politiche del 1953. Un premio che, secondo i suoi oppositori, avrebbe consentito di aumentare il peso politico della DC e di modificare la Costituzione entrata in vigore da soli cinque anni. Senza dimenticare la centralità nella CGIL di ex azionisti come Foa e Bruno Trentin fino ad arrivare a Ciampi, che fu Presidente del Consiglio e poi della Repubblica nella prima fase, molto delicata, della cosiddetta seconda Repubblica.
Insomma se il Partito d’Azione scomparve nel 1947, l’azionismo gli sopravvisse e fu uno dei filoni politico-culturali più ricchi almeno fino alla fine del II millennio. Oggi, in una fase complessa e, per molti aspetti, cupa della storia italiana e internazionale, si avverte molto la mancanza di quell’insieme di competenze e idealità che animarono, certo in modo per alcuni aspetti confuso e disorganico, il partito della Resistenza. Un partito che si sciolse continuando a vivere e contribuendo non solo alla nascita della Repubblica democratica, le cui radici antifasciste sopravvivono nella Costituzione, ma anche al suo sviluppo attraverso l’ampliamento dei diritti civili, politici e sociali.
di Andrea Ricciardi
[1] Parri e La Malfa guidavano la corrente di “destra” del partito, i cui membri sottoscrissero il Manifesto per la democrazia repubblicana, una nuova formazione politica che sarebbe poi confluita nel PRI. Tra i firmatari si ricordano Paggi, Salvatorelli, Tino, Vinciguerra, Albasini Scrosati, Pischel, Alberto Damiani, Omodeo, Filippo Caracciolo, Antonio Basso, De Ruggiero e Spinelli, l’unico esponente della sinistra del partito che, lontano da posizioni esplicitamente socialiste riconducibili a Lussu, aveva portato avanti con maggior vigore il progetto della “rivoluzione democratica” incentrata sui CLN.
[2] Erano stati eletti deputati Calamandrei, Valiani, Foa, Lombardi, Schiavetti, Cianca e Codignola, a cui si deve aggiungere Lussu che, unitamente a Mastino, fu eletto con il Partito sardo d’azione, che ottenne lo 0,3% dei voti. Alle elezioni, le prime nazionali con il suffragio universale maschile e femminile, partecipò l’89,1% degli aventi diritto, cioè quasi 25 milioni di persone.