Etty Hillesum, Diario 1941-1943 (Adelphi, 1985)
Basta che esista una sola persona degna di essere chiamata tale per poter credere negli uomini, nell’umanità.
Così, non ancora trentenne, scriveva Esther (Etty) Hillesum nel marzo 1941, pochi mesi dopo l’occupazione dei Paesi Bassi da parte dei nazisti, avvenimento che avrebbe determinato il destino dei centoquarantamila ebrei del suo paese. Il suo carattere non convenzionale, anzi fuori dall’ordinario, emerge chiaramente dalle riflessioni contenute nelle pagine del suo “Diario” (pubblicato nel 1981 dall’editore olandese De Haan), dove Hillesum condensa gli ultimi due anni della sua vita, dall’8 marzo 1941 al 7 settembre 1943, data della sua deportazione ad Auschwitz.
Con la franchezza di chi è pronta ad “aprire” tutta sé stessa, ma anche con “la difficoltà che nasce dal penetrare con le parole fino nel fondo delle cose”, la giovane scrittrice inizialmente appare una donna a tratti incerta e smarrita, per poi cambiare pelle e sorprenderci. Si rileva una donna dal carattere forte, decisamente coraggiosa, capace di considerare la vita “davvero bella” (quasi ad anticipare il titolo del film-cult di Benigni), anche se Etty è ebrea e, mentre si racconta, la persecuzione nazista già ha cominciato a sconvolgere il mondo.
Olandese come Anna Frank, nata in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, la Hillesum incomincia questo diario a 26 anni pensandolo come la descrizione della sua vita, dei suoi interessi (le amate letture di Rilke, Dostoevskij, Jung, ma anche Sant’Agostino, il Vecchio e il Nuovo Testamento), delle sue passioni (decisamente fuori dagli schemi, dato che conduce due relazioni sentimentali contemporaneamente). Poi, d’un tratto, il colloquio con sé stessa acquista toni più alti, quasi mistici, fino a divenire “un dialogo infinito con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo Dio”, dove l’Autrice si dice convinta di “non essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e l’ingiustizia che ci sono al mondo”, e insiste che occorra “abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri [perché] non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono ora”.
Con il passare dei mesi, la guerra si fa sempre più drammatica e anche in Olanda la politica antiebraica si trasforma velocemente in una feroce persecuzione, che comincia a riempire i campi di concentramento. È da questo momento che il diario cambia registro, quando Etty annota:
la nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare.
Anche se ne avrebbe l’occasione, la Hillesum non pensa un solo momento a salvarsi. Pensa invece a come potrà essere d’aiuto a quei molti altri che stanno per condividere con lei quel “destino di massa” ormai deciso dal sistema concentrazionario messo in piedi dalle autorità tedesche. Nell’autunno-inverno del ‘42, pochi mesi prima di essere deportata ad Auschwitz, la giovane Hillesum ha modo di vedere e toccare con mano quanto accade in quel “pezzo di brughiera recintato da filo spinato” che è il campo di transito nazista di Westerbork, nel nord est dell’Olanda. Nonostante le privazioni, le brutalità, i pestaggi, la fame di cui sono oggetto i malati nelle baracche, anche quando si rende conto che presto il cerchio della violenza e della barbarie nazista si sarà chiuso intorno a lei, e a migliaia di altri come lei perché è facile accorgersi che “vogliono il nostro totale annientamento’’, la Hillesum non cede allo sconforto, alla paura, alla desolazione.
Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e, soprattutto, che si lascia umiliare. Se manca il secondo, se cioè la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria.
La sua reazione di fronte all’abominio è spiazzante, è quella di una donna che accetta il proprio destino grazie ad una straordinaria forza d’animo, esaltata da un “cuore pensante” che sembra guidare il suo cammino e le sue scelte. Nasce così la decisione di abbandonare l’idea di fare “la cronista di orrori” e di trasformare il suo diario da una raccolta di amarezze e di tormenti in un documento carico di fiducia e non di rassegnazione, un invito alla vita, al coraggio, alla comprensione, perché
la vita è difficile davvero, una lotta minuto per minuto. Ma è una lotta invitante!
A Westerbork ritorna più volte, al punto di stabilirvisi definitivamente, fino a quando prenderà quel treno – destinazione Auschwitz – dove morirà insieme ai genitori e ad un fratello alla fine del 1943. Ma fino a quando potrà scrivere il suo diario (consegnato dalla Hillesum all’amica Maria Tuinzing, con la preghiera di conservarlo nel caso in cui non avesse fatto ritorno, è passato poi di mano in mano, è stato ritrovato per caso e pubblicato quasi quarant’anni dopo, con immediato successo), Etty Hillesum darà prova di saper superare ogni disperazione e ogni risentimento verso “quei demoni che tormentano l’umanità”, dando prova di una fierezza e di una tenacia senza confini.
Pur nel dramma che si sta consumando intorno a lei, la sua mano non tentenna e procede nella scrittura con parole che sconfessano ogni sentimento di odio nei confronti dei futuri carnefici.
Se un uomo delle SS dovesse prendermi a calci fino alla morte, io alzerei ancora gli occhi per guardarlo in viso, e mi chiederei, con un’espressione di sbalordimento misto a paura e per puro interesse nei confronti dell’umanità: «Mio Dio, ragazzo, che cosa mai ti è capitato nella vita di tanto terribile da spingerti a simili azioni?».
Una testimonianza straordinaria, purtroppo attualissima, soprattutto in questo frangente di odio e di abbrutimento che pare senza fine, dove le sue parole stanno a indicarci ancora una volta la strada da perseguire:
più c’è pace nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato.
La sua resta una testimonianza straordinaria, paragonabile a quella di Anna Frank. Una testimonianza resa universale anche in altro volume della Hillesum, Lettere 1942-1943 (edite per la prima volta in Olanda nel 1982, e pubblicate da Adelphi nel 1990), scritte durante il suo internamento volontario nel campo di smistamento di Westerbork, dove “sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile”. Anche in questo epistolario ai confini dell’esistenza, però, la sua sofferenza si intreccia con la sua solarità, con la sua vocazione eroica, con il suo animo fiducioso nell’avvenire, nonostante percepisca l’abisso intorno a lei. Come quando scrive:
è vero che ci sono dei momenti in cui uno crede di non poter proprio andare avanti. Ma si va poi sempre avanti, anche questo si impara col tempo. Il nostro modo di sentire la vita subisce dei grandi mutamenti e il nostro cuore diventa completamente grigio e millenario. Ma non è sempre così. La vita è una cosa splendida e grandi, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine e orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere.
Otto mesi dopo, il 30 novembre 1943, Etty Hillesum scompariva in un forno crematorio ad Auschwitz, sperdendo nel vento le sue lacrime per un mondo migliore.
di Claudio A. Colombo