La conquista delle otto ore e il disegno di legge di Turati del 1919, a cura di Marco Zanier, Biblion, Milano 2022
La festa del Primo maggio, ratificata ufficialmente a Bruxelles nell’agosto 1891 (II Congresso dell’internazionale), è osservata e praticata già nel 1890 con manifestazioni a livello nazionale e locale. Recita un volantino, diffuso a Napoli in occasione del Primo maggio 1890:
«Lavoratori, Ricordatevi il 1° maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la Rivoluzione sociale! Viva l’Internazionale!».
«Oggi – scriveva da Londra Engels – il proletariato d’Europa e d’America passa in rivista le sue forze mobilitate per la prima volta come un solo esercito sotto una sola bandiera, per un solo fine prossimo, la giornata lavorativa normale di 8 ore, proclamata già nel congresso di Ginevra dell’Internazionale del 1866 e di nuovo nel Congresso operaio di Parigi nel 1889 da introdursi per legge. Oggi i proletari di tutti i paesi si sono effettivamente uniti».
E i proletari, i lavoratori e le lavoratrici, uniti, cominciano a vincere, anche in tema di orario di lavoro.
Scrive correttamente Maria Grazia Meriggi, nella premessa al volume curato da Marco Zanier:
«L’orario di lavoro è un aspetto centrale nella storia sociale mondiale, misura i rapporti di forza del mondo del lavoro, è un tema essenziale della critica dell’economia politica. La giornata lavorativa è al centro della III sezione del I libro del Capitale di Karl Marx! E la limitazione della giornata lavorativa è stata possibile solo con il convergere della forza contrattuale dei lavoratori organizzati e della produttività dell’orario di lavoro. Tuttavia, questa forza contrattuale ha un percorso complesso e la limitazione dell’orario di lavoro per via contrattuale di solito precede e consente l’elaborazione della legislazione in merito».
Prima di arrivare al progetto di legge Turati, il volume racconta quindi – attraverso la riproduzione di documenti non sempre inediti ma spesso poco noti – le lotte nelle campagne e nelle risaie, le lotte degli e delle operaie del comparto tessile, quelle dei metallurgici, con un accenno anche ad un comparto meno noto, quello dei ferrovieri. Già nel 1903, i Ministri dell’Interno e dell’Agricoltura emanarono un regolamento del lavoro nelle risaie, passato alla storia come «Regolamento Cantelli». In esso era stabilito che bisognava «provvedere i lavoratori di buona acqua potabile e di ricoveri notturni sufficienti ed igienici; che i lavori non comincino prima di una ora dopo il levar del sole e cessino un’ora prima del tramonto; che non si abbiano ad impiegar ragazzi sotto i 13 anni; non permettere il lavoro nell’acqua se i lavoratori non sono calzati». Ma il “Regolamento Cantelli” non si applicava ovunque.
Scriveva nel 1906 un giornale di ispirazione cattolica di Vercelli: «I contadini si sono messi in sciopero, essenzialmente per la questione dell’orario, esigendo le 8 ore nei lavori di monda». Riporta il saggio Le lotte storiche delle mondine e dei braccianti vercellesi La conquista delle 8 ore nel 1906:
«Durante le lotte, gli scioperi e le manifestazioni, che ci furono all’inizio della monda del riso, si ottennero accordi per le 8 ore a Tronzano, (…) poi a Ronsecco (…) a Santhià si ottennero le 8 ore e 2 lire al giorno. L’intervento dei soldati e le cariche della cavalleria avvennero in tutti i paesi; ci furono anche dei feriti, tre donne e un ragazzo, e diversi arresti a Vercelli, dove si raggiunse l’accordo sulla base di 25 centesimi l’ora, lasciando libere le squadre di fare 8 o 9 ore, così come si era concordato a Tronzano, Ronsecco, Santhià, e poi a Pezzana, Trino, Casanova, Formigliana, Olcenengo».
Una fotografia storica, scattata quell’anno, immortala una folla immensa di donne e ragazzi che festeggiano l’approvazione della conquista delle otto ore, le braccia alzate in segno di festa; i bambini insieme alle madri. Nel 1907 la legge Giolitti ristabilisce l’orario di nove ore di lavoro per le mondine locali e dieci per le forestiere, ma le lavoratrici delle risaie non si arrendono. Il 31 maggio 1909 si raggiungeva un accordo a Vercelli, per le 8 ore e 30 minuti, con l’impegno delle 8 ore per il 1910, e il salario per cinque settimane nelle cifre di lire 2,70 – lire 3,30 – lire 3,50 – lire 3 – con l’impegno di combattere la disoccupazione nei limiti del possibile.
«Tra la fine di aprile e la metà di maggio del 1906 – scrive Zanier nell’introduzione al volume, in relazione al comparto tessile – in diverse industrie tessili torinesi le operaie chiedono con forza la diminuzione dell’orario di lavoro e l’aumento della paga per le ore straordinarie; il corteo delle manifestanti il 7 maggio viene represso duramente dalle forze dell’ordine, che sparano sulla folla provocando un morto e numerosi feriti, oltre a una grande quantità di arrestati».
Un copione, purtroppo, che tenderà tristemente e drammaticamente a ripetersi.
«La risposta del Partito socialista e della Camera del Lavoro – però – non si fa attendere: l’8 maggio viene proclamato lo sciopero generale, a seguito del quale gli imprenditori del cotone sono costretti a venire a patti coi lavoratori e fanno delle promesse che però non tutti mantengono, costringendo alcune operaie a scioperare di nuovo. Queste verranno supportate economicamente dalla Camera del Lavoro e dalle leghe operaie […]. Se le lotte delle mondine e dei tessili costituiscono le premesse della lotta delle 8 ore, che, va detto – si legge – riguardò anche altre categorie di lavoratori, prima fra tutte quella dei ferrovieri che nell’aprile 1905 diede vita a una grosso sciopero nazionale che riguardava anche questo aspetto, è però solo con la nascita della grande industria metallurgica, col peggioramento delle condizioni di vita nella depressione che segue la fine della Grande guerra e col cosiddetto “biennio rosso” – ossia con l’ondata di scioperi, occupazioni di fabbrica e mobilitazioni che avvengono tra il 1919 e il 1920 nella Penisola – che la situazione si sblocca e si concretizzano le richieste sindacali in un disegno di legge portato avanti da Filippo Turati. Sarà il sindacato dei metallurgici la pinta più avanzata di questa lunga lotta proletaria, che continuerà gli sforzi messi in atto prima di tutti dai contadini dei primi del Novecento».
Il 3 dicembre 1906 viene firmato ufficialmente a Torino il primo contratto collettivo di lavoro tra la Società automobilistica Itala e la Fiom. Si tratta di uno dei primi significativi esempi di accordo collettivo in Italia. Sancisce il riconoscimento delle Commissioni interne, dei minimi salariali, delle 10 ore giornaliere su 6 giorni settimanali, della clausola del closed shop per l’assunzione dei lavoratori iscritti al sindacato che funge da ufficio di collocamento. Il codice civile del 1865 prevedeva il «divieto di stipulare contratti a vita» per evitare la costituzione di rapporti che potessero richiamare la schiavitù. Il codice però non disciplinava il lavoro industriale.
Nel primo congresso dopo la guerra la Fiom conta 47.192 iscritti e 102 sezioni. Meno di un anno dopo, il 20 febbraio 1919, la Federazione – guidata da Bruno Buozzi – firma con la confederazione degli industriali un accordo per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere e 48 settimanali. L’accordo prevede anche il riconoscimento delle Commissioni interne e la loro istituzione in ogni fabbrica; la nomina di una commissione per il miglioramento della legislazione sociale e di un’altra per studiare la riforma delle paghe e del carovita. La definizione Commissione interna si trova per la prima volta all’interno dell’accordo Itala-Fiom firmato a Torino nel 1906. Appena due anni dopo, nel marzo 1908, la Lega Industriale dirama – si legge su l’Avanti! – un gruppo di “suggerimenti” alle direzioni delle industrie da utilizzare come base per un’azione comune verso gli operai organizzati. Il primo dei “suggerimenti” riguarda, appunto, «l’abolizione delle Commissioni interne». Quattro anni dopo, nel 1912, le Commissioni interne vengono effettivamente abolite per legge. Ma risorgono nel 1913. La fine della guerra del 1914-18 trova il movimento delle Commissioni interne notevolmente esteso e proteso verso un allargamento dei suoi compiti e delle sue funzioni sul terreno economico. Scrive Antonio Gramsci su L’Ordine Nuovo l’anno successivo alla sconfitta degli imperi centrali:
«L’esistenza di una rappresentanza operaia all’interno delle officine dà ai lavoratori la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia».
Le Commissioni interne, scrive ancora Gramsci su L’Ordine Nuovo” del 21 giugno 1919,
«sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le Commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate ed arricchite, dovranno essere domani gli organi di potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione».
L’avvento del fascismo arresta però lo sviluppo di questi organi di rappresentanza: il 2 ottobre 1925 l’articolo 4 del Patto di Palazzo Vidoni sancisce: «Le Commissioni interne di fabbrica sono abolite e le loro funzioni demandate al sindacato (fascista) locale». Rinate con l’accordo Buozzi-Mazzini del 2 settembre 1943, le Commissioni interne ricevono una nuova regolamentazione con l’accordo del 7 agosto 1947 tra la Cgil e la Confindustria e con l’accordo interconfederale dell’8 maggio 1953. L’ultimo accordo interconfederale sulle commissioni interne è del 18 aprile 1966 e ancora oggi è formalmente in vigore.
Recita, tra l’altro, l’accordo del 20 febbraio 1919:
«Con l’approvazione avvenuta del Regolamento unico per tutte le Officine meccaniche, navali e affini, l’orario di lavoro viene ridotto rispettivamente da 55, 60 a 48 settimanali come indicato dall’art. 6 del Regolamento stesso. Per gli stabilimenti siderurgici tale orario viene ridotto da 72 a 48 ore, con l’adozione dei tre turni, come stabilito dall’art. 6 del Regolamento unico per gli stabilimenti stessi. Tali orari dovranno essere attuati non oltre il 1° maggio per le officine meccaniche, navali ed affini e non oltre il 1° luglio per gli stabilimenti siderurgici».
Arriviamo così al luglio del 1919 quando Filippo Turati presenta al Consiglio superiore del lavoro il Disegno di legge che porta il suo nome. Ironia della sorte, la legge sarà approvata solo nel 1923. Il 28 ottobre del 1922, con la marcia su Roma, Mussolini prende il potere. Dietro le manovre di normalizzazione politica operate dal nascente regime la violenza fascista prosegue, per culminare con l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, segretario del PSU, nel giugno 1924. La crisi vissuta dal Governo Mussolini nei mesi successivi viene superata dal duce all’inizio del 1925, quando egli si assume la responsabilità morale del delitto senza che il re intervenga in difesa delle istituzioni liberali, come avevano sperato gli aventiniani. La svolta totalitaria arriverà alla fine del 1926 attraverso una serie di provvedimenti liberticidi (le “leggi fascistissime”), che cancelleranno in via definitiva qualsiasi forma di opposizione al fascismo. Sul piano sindacale, con i sopracitati accordi di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, Confindustria e sindacato fascista si riconoscono reciprocamente quali unici rappresentanti di capitale e lavoro abolendo le Commissioni interne. La sanzione ufficiale di tale svolta arriva con la legge n. 563 del 3 aprile 1926 che, riconoscendo giuridicamente il solo sindacato fascista (l’unico a poter firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro), istituisce una speciale Magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro e cancella il diritto di sciopero.
Il 16 novembre del 1922 Benito Mussolini pronuncia quello che passerà alla storia come “il discorso del bivacco”. È il primo discorso tenuto dal duce in veste di Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia.
«Signori – dirà – quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza […]. Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
Il giorno dopo, a rispondere al nuovo capo di governo è Filippo Turati, con parole durissime che condannano Mussolini e, allo stesso tempo, denunciano il silenzio e, in alcuni casi, la complicità dell’aula. Il Parlamento è morto” sarà il titolo con il quale quell’intervento verrà poi ricordato.
«La Camera – dirà Turati – non è chiamata a discutere e a deliberare la fiducia; è chiamata a darla; e, se non la dà, il Governo se la prende. È insomma la marcia su Roma, che per voi è cagione di onore, la quale prosegue, in redingote inappuntabile, dentro il Parlamento. Ora, che fiducia può accordare una Camera in queste condizioni? Una Camera di morti, di imbalsamati, come già fu diagnosticata dai medici del quarto potere? […]. Si ebbe l’impressione di un’ora inverosimile, di un’ora tolta dalle fiabe, dalle leggende; quasi direi un’ora gaia dopo che, dicevo, il nuovo Presidente del Consiglio vi aveva parlato col frustino in mano, come nel circo un domatore di belve – oh! Belve, d’altronde, deh quanto narcotizzate! – e lo spettacolo offerto delle groppe offerte allo scudiscio e del ringraziamento di plausi ad ogni nerbata».
Tra i parlamentari presenti, in quei giorni di novembre del 1922, c’è anche Giacomo Matteotti che due anni più tardi, il 10 giugno del 1924, verrà rapito sul lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma e ucciso.
«Voi che oggi avete in mano il potere e la forza – aveva detto il 30 maggio Tempesta, come lo chiamavano i suoi amici di partito, nel suo ultimo discorso alla Camera -, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di far osservare la legge da parte di tutti. Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione».
Si racconta che a chi si congratulava con lui per quelle parole pronunciate alla Camera Matteotti avesse risposto sorridendo: «E adesso potete preparare la mia orazione funebre». In effetti, Benito Mussolini ne ordinerà la morte per mettere a tacere le sue denunce di brogli elettorali attuati dalla dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924 e le sue indagini sulla corruzione del governo. Per protesta contro il rapimento del deputato socialista, tutta l’opposizione parlamentare si ritira sul cosiddetto Aventino. Il 26 giugno 1924 circa 130 deputati d’opposizione (popolari del Ppi, socialisti del Psu e del Psi, comunisti del Pcd’I, liberaldemocratici dell’Opposizione Costituzionale, repubblicani del Pri e sardi del Psd’Az) si riuniscono nella sala della Lupa di Montecitorio, decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito della scomparsa di Matteotti. Le motivazioni dell’abbandono saranno spiegate da Giovanni Amendola sul Mondo:
«Quanto alle opposizioni, è chiaro che in siffatte condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita […]. Quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l’illegalismo, esso è soltanto una burla».
Il 27 giugno sarà di nuovo Filippo Turati a ricordare il compagno di partito, il cui corpo verrà ritrovato solo ad agosto.
«Il morto si leva. E parla. E ridice le parole sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate alle genti, che son Sue quand’anche non le avesse pronunciate, che son vere se anche non fossero realtà, perché sono l’anima Sua; le parole che si incideranno nel bronzo sulla targa che mureremo qui o sul monumento che rizzeremo sulla piazza a monito dei futuri: Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai… La mia idea non muore».
di Ilaria Romeo