Ugo La Malfa (nato a Palermo il 16 maggio 1903) è stato uno dei principali protagonisti della storia italiana del secondo Novecento. Si iscrive   alla Facoltà di Scienze Diplomatiche alla Ca’ Foscari di Venezia e segue le lezioni di Gino Luzzatto e Silvio Trentin. Egli fu un deciso oppositore al fascismo.  Militante nel movimento di ispirazione liberal-socialista Giustizia e Libertà, fu tra i fondatori del Partito d’Azione (1942) e membro dell’Assemblea Costituente.  Nel 1946 dopo la rottura con il Partito d’Azione, fondò con Ferruccio Parri, il Movimento democratico repubblicano, in seguito confluito nel PRI. Esperto di discipline economiche, vice presidente dell’istutuendo Fondo Monetario Internazionale, fu più volte ministro e vicepresidente del consiglio. Segretario del Partito Repubblicano Italiano (PRI) dal 1965 e presidente dal 1975, fu promotore dell’apertura a sinistra prima al Psi di Nenni e poi al Pci di Berlinguer. Ha promosso la questione morale contro il sistema corruttivo dei partiti. Si è battuto per la liberazione di Aldo Moro durante il sequestro delle Brigate Rosse. Designato primo ministro da Sandro Pertini nel 1978 non riuscì a varare il suo dicastero. Morì pochi mesi dopo il 26 marzo 1979.

Luisa è la figlia di Ugo La Malfa.  Come ricordi tuo padre?
Mio padre era un uomo dotato di un carattere forte.  Un episodio che mette bene in evidenza il temperamento di mio padre, raccontatomi da chi ne fu testimone, avvenne in occasione della prima riunione della direzione del Partito Repubblicano dopo la sua elezione alla segreteria politica, nel 1965. Sembra che i membri della direzione che si presentarono alla riunione con un certo ritardo, tipico del costume romano, siano stati accolti da un posacenere lanciato con una certa veemenza.  Mio padre era effettivamente puntualissimo e non ammetteva sgarri. I membri della direzione del Pri lo impararono subito.

Ci fu un litigio con Federico Comandini, al Congresso del Partito d’Azione di Cosenza del 1944.
La lite finì con uno schiaffo, credo ricevuto, e una successiva presa per il colletto della camicia (o viceversa). Il tutto poi finito con una rappacificazione. Va aggiunto che il mio matrimonio – avvenuto molti anni dopo, nel 1959 – con Francesco Calogero portò a una sorta di legame familiare tra i La Malfa e i Comandini in quanto mia suocera, la moglie di Guido Calogero, era una Comandini, cugina di Federico.

Del tuo matrimonio dicevi?
Il momento più toccante ma anche divertente fu proprio la cerimonia delle nostre nozze in Campidoglio. Federico Comandini che era l’officiante fece un discorso incentrato sul Partito d’Azione, talmente intriso di malinconico rimpianto, che i presenti non riuscirono a trattenere le lacrime, mentre io li osservavo sorpresa e per l’intensa commozione, così erroneamente pensavo, che il nostro matrimonio suscitava.

Che ricordi hai della tua infanzia?
Ho delle immagini ancora vive davanti agli occhi: eravamo sfollati a San Vigilio, sopra Bergamo, nel 1942, dopo i primi bombardamenti di Milano.  Il mio ricordo è di due bambini, Giorgio ed io, nel grande letto dei genitori, sdraiati ai fianchi di mio padre, la domenica mattina quando veniva da Milano a trovarci, ascoltare affascinati la sua lettura dell’Orlando Furioso.

Come si viveva da sfollati?
A San Vigilio vivevamo in una casa colonica che pareva appartenesse a un gerarca fascista. Accanto a noi, in una villa più attraente, viveva la famiglia Tulli, con cui avevamo rapporti sporadici ma cortesi. Dopo la fine della guerra seppi che anche loro erano antifascisti, comunisti. Gli amici con cui invece avevamo una intensa frequentazione erano i Quarti, la famiglia di Pietro e Maria i cui due figli, Bruno e Mimma, giovanissimi sarebbero stati eroicamente attivi nella Resistenza. A casa Quarti veniva Ada Rossi, la moglie di Ernesto, allora confinato a Ventotene.  Molti anni dopo Ada mi confessò la tenerezza che suscitava in lei vedere mio fratello Giorgio, che allora aveva 3 anni, in braccio alla mamma. Un certo giorno mentre noi bambini giocavamo nel piazzale antistante la nostra casa e mia madre era occupata altrove arrivarono dei poliziotti in macchina. Ho ben chiaro il senso di stupore nel vedere un’automobile – oggetto di lusso inusitato a quei tempi – fermarsi davanti al cancello della nostra modesta casa di campagna. Volevano sapere da noi bambini dove fosse nostro padre. Lui era già espatriato clandestinamente in Svizzera.  Noi non lo sapevamo per fortuna, e mia madre, che ovviamente sapeva, chiedeva loro sorpresa come mai non fosse a Milano. Sicché se ne andarono con tutto il loro carico di mistero.

Altri ricordi?
I ricordi successivi vanno ai mesi dell’occupazione nazista di Roma.   Mia madre, mio fratello ed io lo raggiungemmo in un secondo momento, dopo l’armistizio. Abitavamo nella bellissima casa, messa a disposizione da Filippo Caracciolo, insieme con i coniugi Edoardo e Nella Volterra e Riccardo Bauer, capo dei G.A.P. a Roma. Ricordo un grande andirivieni di persone, Leo Valiani, Giorgio Amendola, Alberto Pincherle (ndr Moravia) e altri.

Avevi la percezione di essere dentro una cospirazione?
Ricordo il cognome falso da clandestini impresso nella nostra testa di bambini, quasi a forza, dagli adulti. I documenti si falsificavano usando i vetri delle finestre ribaltabili di casa Caracciolo per ricopiare i nomi. Avevamo l’attenzione verso chiunque sostasse per più di qualche minuto sul Lungotevere di fronte al nostro portone perché avrebbe potuto essere una spia o un poliziotto e il timore che tale vista produceva negli abitanti della casa.

Tuo padre era molto presente in famiglia?
No, sia perché i tempi non erano quelli di padri amorosi e onnipresenti, sia perché le vicende della politica lo tenevano lontano dalle nostre vite di ragazzi. Certamente era informato dell’andamento dei nostri studi e ne fu sostanzialmente soddisfatto.

Lui interveniva quando era necessario?
Venne il momento in cui il suo intervento fu decisivo: mio fratello fu spedito lontano da casa, all’Università di Pavia. Del resto anche lui aveva lasciato i suoi a Palermo per studiare all’università di Venezia, a Ca’ Foscari, ed era stata un’esperienza per lui fondamentale, perché lì era diventato allievo di Gino Luzzatto e di Silvio Trentin e lì era cominciata la sua formazione antifascista.

Mentre i tuoi studi?
Io restai a Roma ma fui introdotta nella cerchia delle persone, alcune illustri, altre giovani in formazione, che frequentavano il salotto di Elena Croce. Lì conobbi Giorgio Bassani, il filosofo Luigi Scaravelli, che cercò di spiegarmi Cartesio (ero iscritta al corso di laurea in filosofia alla Sapienza), lo storico Giovanni Pugliese Carratelli, e divenni amica di Tullio De Mauro, Stefano Rodotà, Marco Pannella, Luigi Spaventa, Beniamino Placido e altri. Devo dunque a mio padre il privilegio di essere entrata in contatto con l’ambiente al centro del quale vi era il Mondo di Mario Pannunzio, e, sempre in quell’ambiente, di aver conosciuto successivamente mio marito Francesco Calogero.

Chi erano gli amici più cari di Ugo La Malfa?
Le amicizie: poche, saldissime, di lunga data. In primo luogo, Adolfo Tino, con il quale sul tavolo da pranzo della nostra casa di Milano, nel 1942, fu scritto l’articolo di fondo per il primo numero de L’Italia Libera, il “Chi siamo” che tanto dibattito suscitò tra gli azionisti e fuori. Con Tino, del resto – e Ferruccio Parri­ – era stato anche scritto il fondamentale documento sulla situazione politica italiana, destinato al governo e all’opinione pubblica americana, consegnato a George Kennan a Lisbona da Enrico Cuccia e pubblicato sul New York Times del 28 giugno 1942 per intervento di Carlo Sforza.  Poi Leo Valiani. La bellissima orazione ai funerali di mio padre, il 29 marzo 1979, in piazza di Montecitorio a Roma, rivelò per intero la straordinaria profondità del loro rapporto, morale prima ancora che politico. E ancora Enrico Cuccia che gli è sopravvissuto abbastanza a lungo per riversare su mio fratello Giorgio tutta l’amicizia e l’affetto che lo avevano legato a lui.

Ugo La Malfa amava la Romagna roccaforte del Partito Repubblicano?
La Romagna era la sua patria d’elezione, dove era amatissimo e dove in vacanza si divertiva giocando interminabili partite di bocce e di scopone nelle sedi del Partito Repubblicano.  Per vari anni dopo la sua morte – ora ovviamente sempre più di rado – i repubblicani si emozionavano sino alle lacrime quando mi incontravano, somigliantissima a mio padre come sono.

Della sua lunga vicenda politica?
Non voglio dire le poche cose banali e superficiali di cui sarei capace: se ne sono occupati storici di vaglia, e altri continueranno a farlo, ne sono sicura. Solo ricordi, pochi, ma legati a vicende per lui importanti e, come nel caso del rapimento di Aldo Moro, tragiche. La nostra casa, mia e di Francesco, sull’Aventino in due circostanze divenne per lui un rifugio: la prima, quando nel 1974 si dimise da ministro del Tesoro (la situazione finanziaria era gravissima ma i partiti non davano segni di consapevolezza) e per alcuni giorni si rese irreperibile, tanto che qualche giornale insinuò che fosse scappato in Svizzera. In realtà era a casa nostra e da lì osservava la scena politica italiana. La seconda fu durante la prigionia di Aldo Moro, che egli visse con un’angoscia oserei dire letale (ne sarebbe morto infatti un anno dopo, il 26 marzo del 1979). In casa mia ricevette persone ed ebbe colloqui riservati di cui nessuno di noi conobbe mai i contenuti e meno che mai l’identità degli interlocutori.

Che rapporti avevi con il tuo papà?
Non fu un padre amorevole fu invece, come spesso succede, un nonno amorevolissimo per i miei due figli e per i due figli di mio fratello. Amava giocare con loro e aveva un suo modo di saggiarne le capacità intellettive che mi divertiva molto.  Con il passare degli anni divenne sempre più palesemente affettuoso anche con noi adulti, certamente con me. Di lui ricordo una telefonata accorata e insieme dolcissima, tre o quattro giorni prima della morte. Accorata per le vicende politiche che lo preoccupavano assai: si stava infatti formando quel difficile governo Andreotti nel quale lui, vicepresidente del Consiglio e   ministro del Bilancio, avrebbe avuto un ruolo di garanzia nei confronti dell’opposizione. Una telefonata però anche dolce, affettuosa, quasi presaga della fine imminente. Io l’ho conservata nel mio ricordo come un commiato.

Cosa ti ha lasciato tuo padre?
Sul piano personale oggi provo una immensa gratitudine per chi mi ha regalato una vita piena nel miglior senso della parola e ha lasciato a me e ai miei discendenti un’eredità morale di cui essere fieri.  Su un piano più generale penso a mio padre come a un’occasione mancata per questo nostro Paese, per quello che lui avrebbe potuto fare e dare ad esso, se ne avesse avuto la possibilità. Questa riflessione comporterebbe ovviamente un’analisi molto complessa della storia della cosiddetta prima repubblica che qui non intendo certo fare. Essa tuttavia mi riempie di rammarico e di tristezza. E però so bene che questo è il sentimento di chi tende a guardare al passato, perché non ha quasi più futuro.

(Pubblicato su L’Antifascista, Aprile 2018)

di Filippo Senatore

 

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