Penso di parlare anche a nome dei tanti studiosi e studiose che, come me, sono ostati attratti dalla Fondazione Aniasi anche e soprattutto grazie alla capacità che è stata di Mario Artali di promuovere iniziative, ricerche, riflessioni.

C’è stato un momento in cui in Italia e a Milano in particolare e in via De Amicis in particolare fare cultura politica e fare politica, una cosa non disgiunta dall’altra, ha rappresentato per molti una parte della propria vita, un’opzione sociale, una scuola, fatta di incontri, dibattiti e di preparazione a quegli incontri, sia tra gli organizzatori sia per il pubblico, al quale occorreva fornire in anticipo le coordinate per arrivare pronto, consapevole, capace di partecipazione. 

Poi c’è stato e c’è un momento in cui chiamare e preparare quegli incontri è diventato più difficile, la voglia di esserci ha cominciato a cedere il passo, il prestigio di farne parte si è diradato.

Mario Artali c’è stato in entrambe le fasi, animatore, facilitatore, commentatore. Con la sua capacità di convocazione, con lo stesso senso di responsabilità, dibattito dopo dibattito, con la sala piena e con quella vuota. Con uno sguardo critico, una lettura sempre originale e allo stesso tempo coerente, nello stile argomentativo e nei cardini del suo pensiero.

Lo spirito unitario e la complessità, li si ritrovava sempre nel suo approccio, parlando di socialismo, di Resistenza, di scenario politico. Quando un’idea è forte non teme le altre idee, quando il modo è quello della libertà, ci si riconosce anche nel contrasto, quando sei socialista sai che l’essere umano, ogni essere umano, deve essere messo al centro. Non era dunque né una vaga aspirazione umanitaria, né l’approdo a una forma di governo, quante volte lo abbiamo sentito ripetere che la democrazia è uno strumento imperfetto ma che non abbiamo ancora inventato di meglio.

Il pensiero non si fa da solo, ha bisogno di menti e di corpi in cui transitare e lui c’è stato, facendosi difensore di una storia, quella del circolo De Amicis e della FIAP, creando la Fondazione Aldo Aniasi, in un continuo confronto con l’oggi perché – parole sue – “Le risposte che cerchiamo sono ancora da costruire”.

Il suo assillo, la sua denuncia, lo cito, era proprio questo, il grave ritardo che vedeva “nell’elaborazione di una piattaforma comune per le risposte da dare – anche sul piano delle istituzioni – alle difficoltà della Repubblica”.

Le risposte le cercava nel dialogo continuo tra ieri e oggi, in particolare guardando agli anni formativi del pensiero politico che furono quelli dell’antifascismo e della Resistenza. E prima, in quell’Ottocento che lui amava, forse perché all’idea di un secondo risorgimento serviva il primo, perché vi ritrovava il sentimento di una patria costruita su di un’idea umana e relazionale, su di una cultura ricca e non gerarchica e quello sguardo laico che lo distingueva. In questo senso la Patria era l’Italia ma era per lui anche l’Europa come casa di valori comuni ed oltre, perché le idee di libertà e di riscatto non hanno confini.

Poco più di un anno fa, in un commosso ricordo di Carlo Tognoli, Artali parlò del rimpianto di non avere più accanto le persone che con lui vissero, con Aniasi e con altri, una stagione politica, di non rivederne la serietà di approccio nelle classi dirigenti di oggi. Quel rimpianto è oggi il nostro rimpianto, che diventa quasi sgomento nel pensare che non ci sarà più lui, con la sua autorevolezza, a difendere quelle sale, quei corridoi, quei libri e quelle carte che tanto hanno rappresentato e rappresentano. Eppure in questo disorientamento si ritrova la certezza che con il suo esserci qualcosa ce lo lascia e che nel suo ricordo, magari non con la stessa forza, non con uguali capacità ma con la stessa urgenza, in pochi o in molti riguarderanno a quella scuola, a quel modo di essere socialisti, nonostante le risposte siano ancora da costruire e forse proprio per questo.

di Fiorella Imprenti

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