«Il Partito d’azione nacque e morì a Cosenza».

Così, riferendosi al congresso del Pd’a del 1944, ha esordito Fulvio Mazza, uno dei due relatori di base del convegno sull’Azionismo tenutosi lo scorso 14 novembre 2024, su iniziativa dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, presso l’Università della Calabria, a Rende (Cosenza).

Percepita l’essenza dell’incontro, andiamo a vedere il contenuto e la condivisibilità della proposizione riportata in apertura.

Prima necessita, però, esporre alcuni dati e fattori generali.

Si tratterà di informazioni che il lettore di queste righe troverà pressoché scontate, ma è necessario riportarle in modo tale da inquadrare il problema.

Il convegno, avente come titolo Il Partito d’Azione nell’Italia liberata. Dal Congresso di Cosenza allo scioglimento (1944-1947), era dunque basato su due relazioni portanti: una di contenuto generale, quella di Giovanni De Luna, storico, docente universitario di Storia contemporanea e ben noto autore del primo e maggiore libro sul Partito d’azione. Il titolo della relazione era Azionismo e storia d’Italia. L’altra relazione sul Mezzogiorno azionista e, in particolare sul congresso cosentino. A svolgerla è stato Fulvio Mazza, agente letterario di “Bottega editoriale” e storico contemporaneista. Il titolo della seconda relazione era Nino Woditzka e il Congresso di Cosenza.

Dopo i saluti del sindaco di Cosenza, Francesco Alessandro Caruso, del presidente dell’Icsaic, lo storico Paolo Palma, e del direttore scientifico dello stesso istituto, lo storico Vittorio Cappelli, ci si è avviati alle relazioni.

  1. I tre maggiori nuclei del Pd’a

Essendo particolarmente interessati ai temi meridionali, ci soffermeremo soprattutto sulla relazione di Mazza.

Questi ha esordito con un rapido excursus degli avvenimenti che si svilupparono dalla nascita del Pd’a (1942) ponendo particolare attenzione alla descrizione dei due maggiori nuclei che, dalla loro unione, fecero nascere il partito:

  • Il movimento di Giustizia e libertà di Emilio Lussu e (finché i sicari fascisti non li assassinarono) dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, che aveva una rete attiva sia all’estero, sia in Italia;
  • Il movimento liberalsocialista di Aldo Capitini e Guido Calogero, che aveva un certo seguito soprattutto negli ambienti universitari.

Poi c’erano i gruppi liberaldemocratici ispirati in alcuni casi da Ugo La Malfa, in altri da Ferruccio Parri e altri ancora sviluppatisi spontaneamente in tutti i grandi centri del territorio nazionale.

In questo contesto Mazza ha evidenziato che «a mano a mano, chi emergeva come leader del nuovo partito volle da subito fissare i punti ideologico-programmatici del partito stesso. Nonostante si fosse in guerra, i vari leader si accapigliavano quasi come se fuori della stanza dove discutevano di liberalismo, socialismo, democrazia, ecc. non ci fosse l’occupazione tedesca supportata dai repubblichini neofascisti.

Annotiamo che, in effetti, ciò era del tutto naturale, visto che ci si trovava dinanzi a un partito pieno di economisti, di filosofi, di giuristi, di letterati, di politologi, di storici, ecc. tutte persone molto ben preparate, politicamente avvezze a progettare piani politici e a farsi crocifiggere pur di non rinunciare a una virgola dei loro postulati. Quindi, guerra o non guerra, il lacerante dibattito nacque e si propagò come un fiume in piena dopo la stagione secca: con forza e irruente disordine».

La discussione ideologica, che risultava già avanzata nei primi mesi del 1943, ebbe un salto quali-quantitativo dopo l’harakiri che il regime effettuò il 25 luglio di quello stesso anno.

La libertà ritrovata (anche se soltanto in modo parziale) contribuì a intensificare i dibattiti che, comunque, rimanevano sempre circoscritti alle diverse realtà locali.

  1. Il convegno semiclandestino di Firenze

Per rendere il dibattito generale e massimamente condiviso, si tentò di risolvere la questione ideologica al convegno semiclandestino di Firenze (4-6 settembre 1943) svoltosi alla vigilia dell’Armistizio.

 La questione fu dibattuta – forse meglio dire accennata – ma non in modo esauriente. Gli elementi da affrontare erano tanti e il governo Badoglio non consentiva di discuterli con tranquillità.

A Firenze, con grande disappunto della sinistra interna, vennero comunque approvati i 7 punti programmatici proposti dall’ala liberaldemocratica del partito ove veniva disegnato un raggruppamento politico di impronta liberalprogressista. La non piena condivisione, dovuta anche ai difficilissimi problemi politico-logistici dell’Italia badogliana che avevano molto limitato il libero dibattito e anche la libera partecipazione, fece sì che i 7 punti, nel momento stesso nel quale vennero approvati non furono effettivamente sentiti come propri dalla base azionista e furono, difatti contestati, tramite articoli su giornali clandestini e non, in corrispondenze fra i vari leader, ecc.

Si giunse così, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, alla revisione dei 7 punti che spostarono verso sinistra l’asse del partito e che, dopo aggiunte e rielaborazioni, diventarono 16.

Stavolta a storcere il naso era la componente liberaldemocratica del partito che comunque, temendo altri spostamenti a sinistra, li accettò e tentò di “fare muro” adottando pienamente il programma dei 16 punti.

Nel frattempo, anche per il fallimento involontario del Convegno di Firenze, il Centro meridionale azionista di Napoli, guidato da Pasquale Schiano, maturò l’idea di tenere un convegno dedicato al Partito d’azione nell’Italia liberata. Nella prima fase si pensò a un congresso solo meridionale, ma poi, essendo prossima la liberazione di Roma, si decise per un convegno più ampio. Difatti, si concordò che fosse opportuno attenderla per permettere ai dirigenti azionisti, in quel momento ancora in clandestinità, di poter partecipare. Così, avrebbero potuto prendere parte pure i militanti dei territori che, a mano a mano, venivano liberati. In tal caso, si sarebbe determinato, come poi effettivamente si determinò, un vero e proprio congresso nazionale.

Il congresso, che venne ritenuto dagli organizzatori adatto alla disamina del problema ideologico-programmatico, fu convocato dal citato Centro meridionale del partito per la primavera del 1944. Dato che l’avanzata angloamericana era ripresa e che ci si aspettava da un momento all’altro la liberazione di Roma, si decise poi di dare all’assise una connotazione più generale a incominciare proprio dalle definizioni ideologiche e dalla denominazione che, da “convegno”, passò a “congresso”.

Si stabilì che, ove possibile, i congressisti sarebbero stati scelti dalle rispettive federazioni nel modo tradizionale, ma si previde anche di riservare uno spazio adeguato alla dirigenza nazionale che, per l’appunto, si contava sarebbe stata liberata da lì a poco. Quest’ultima avrebbe partecipato non con criteri congressuali, ma senza particolari formalità. Stesso dicasi per i militanti di base che, cessata l’occupazione nazifascista, ritornarono alla militanza pubblica.

Riguardo all’aspetto programmatico e ideologico, la corrente liberaldemocratica, come accennato, mise in evidenza l’illogicità di riparlare dell’ideologia del partito all’indomani del compromesso dei 16 punti, comprese le “precisazioni”, poiché si trattava di un aspetto appena dibattuto e sul quale si era giunti a una conclusione.

Tale tesi dei centristi veniva contestata dalla sinistra mettendo in evidenza come fossero ben più titolati i rappresentanti regolari del congresso centro-meridionali corroborati dall’esecutivo stesso e da altri esponenti del Centro-nord. A parere di Lussu, la platea congressuale aveva certamente maggiore legittimità di parlare a nome del partito rispetto a quei pochi, benché importanti, leader azionisti che avevano fatto un ragionamento a porte chiuse e che, comunque, sarebbero stati presenti nello stesso congresso, ovviamente liberi di propugnare le proprie tesi.

La scelta della sede dell’assise cadde su Cosenza in quanto tra le federazioni meridionali regolarmente costituite e considerando anche le costituende federazioni del Centro Italia che si creavano a seguito del progredire dell’avanzata angloamericana, quella di Cosenza era la maggiore. Un altro dei fattori era quello che gli azionisti cosentini si erano contraddistinti per la battaglia sindacale, anche e soprattutto grazie alla leadeship dell’ex confinato politico Nino Wodizka (di provenienza giellista). Tale presenza ebbe anch’essa un certo rilievo perché Wodizka con la sua leadership si era creato un’immagine altamente positiva.

  1. Ma chi era questo Wodizka?

Ebbene, Giovanni Wodizka, detto Nino, fu un antifascista originario della Venezia Giulia. Egli incominciò l’attività politica prima dell’avvento del fascismo: fu molto attivo nella sinistra, in particolare nel partito repubblicano e, a causa di queste sue attività antimonarchiche, fu presto schedato e iniziò fin da giovane a “frequentare”, suo malgrado, la galera.

Nel periodo in cui visse nella Venezia Giulia fondò un giornale chiamato Emancipazione, che ricomparì a Cosenza subito dopo la caduta del fascismo. Per tutta la durata del regime fu un integerrimo antifascista, mai toccato da nessuna velleità di arrendevolezza. Nell’intero ventennio venne incarcerato e assegnato al confino diverse volte, a dimostrazione della sua forte militanza. Essendo malato di tubercolosi, le istituzioni fasciste non poterono mandarlo in un carcere qualsiasi o in una qualunque località di confino, ma furono costrette dalla legge a trattenerlo in zone in cui l’aria era salubre. Fu spedito perciò in Calabria, e in particolare a Belvedere Marittimo e poi a Spezzano della Sila, e talvolta anche nell’ospedale Villa Marulli di Cosenza, che era specializzato in questa malattia.

Si ricorda che pure Rosina Burich, la moglie di Wodizka, fu incarcerata e assegnata al confino con l’accusa di attività antifascista. Essendo confinato anche il marito, i due chiesero di essere spostati nella stessa località; tuttavia, la moglie fu solamente avvicinata al luogo in cui si trovava il coniuge. Pertanto, la coppia si ritrovò divisa da una distanza che, seppur minima, risultava incolmabile: una vera e propria cattiveria del regime.

Per quanto possibile, dal confino riuscì a prendere contatto con diversi antifascisti calabresi e a tessere una tela di attività clandestine. Legò soprattutto con i comunisti, tra cui ricordiamo Cesare Curcio, e con un personaggio certamente bizzarro: Luigi Filosa.

Quest’ultimo fu un fascista dissidente – che era stato anche fondatore del partito, nonché presente alla Marcia su Roma per comandare le squadracce della provincia di Cosenza, di cui era federale. Era tuttavia legato al programma rivoluzionario originario. Quindi, si scontrò, all’indomani della marcia, con Michele Bianchi e altri fascisti istituzionali che lo espulsero dal partito, lo defenestrarono dalla carica di segretario federale e, successivamente, lo mandarono in galera e lo assegnarono al confino.

Nel frattempo, si creò, nel 1942, il Fronte unico per la libertà, una rete eterogenea avviata su iniziativa sempre del leader giellista Wodizka (così definibile perché il Pd’a ancora non esisteva), del comunista Curcio, del popolare-democristiano Luigi Nicoletti, dei socialisti riformisti Francesco Vaccaro e Florindo De Luca e da altri militanti antifascisti. Piuttosto attivi erano anche i liberali. A questo fronte non furono però invitati i grandi nomi della sinistra. Il comunista Fausto Gullo, per esempio, ebbe difficoltà a parteciparvi perché accusato dagli stessi militanti del Pci di poco attivismo.

  1. La caduta di Mancini sull’era fascista

Peggio ancora fu per il socialista Pietro Mancini in quanto, nella seconda richiesta di liberazione dal confino, concluse la lettera riportando come data «26 maggio 1929, VII», dove il numero romano indicava, com’è noto, il settimo anno dell’era fascista. Da qui, fu accusato di aver riconosciuto implicitamente la legittimità del fascismo.  Il suo ruolo cambiò radicalmente quando fu nominato prefetto di Cosenza.

Wodizka si dimostrava pienamente contrario, strafottente e superbo nei confronti del regime. Non aveva nessun rispetto delle autorità fasciste. Questa sua veemenza fu giudicata dagli antifascisti come atto di forte coraggio. Qualcuno pensò addirittura che l’ostentazione di tale contrarietà dipendesse dal fatto che Wodizka fosse una spia. Tuttavia, tale dubbio fu presto eliminato, sia perché le indagini degli antifascisti stessi in merito non portarono a galla alcuna prova e neppure alcun indizio, sia, soprattutto, perché una spia che passi anni e anni tra galera e confino sarebbe, a dir poco, molto malpagata dal proprio mandante.

Quindi, arriviamo al 25 luglio 1943, cioè alla caduta del fascismo. Cosenza fu una delle città più attive nella ripresa antifascista, anche perché, come accennato, una certa attività sovversiva era stata portata avanti durante il ventennio. I partiti più attivi erano innanzitutto il Partito comunista, poi il Pd’a, la Democrazia cristiana, il Partito socialista, il partito liberale e il raggruppamento anarchico. A Cosenza il Psi, a parte il grande nome di Mancini e i tanti a lui vicini, era formato da una ragguardevole militanza socialdemocratica, che, al momento della scissione di Palazzo Barberini, diede poi vita al Psli.

Nella fase di ripresa antifascista il Pd’a prestò molta attenzione a bloccare il riciclo nei partiti antifascisti dei personaggi che avevano aderito al regime. In questo settore Wodizka fu molto attivo, ma non tutte le istituzioni consideravano l’epurazione degli ex fascisti come elemento prioritario. Non lo faceva indubbiamente la Prefettura di Cosenza, perché era guidata appunto da un fascista, Enrico Endrich, uno di quei prefetti che, a novembre 1943, ancora non era stato destituito.

  1. La rivolta di Cosenza

La popolazione e i partiti antifascisti, però, non erano dell’avviso di mantenerlo ancora in carica. Infatti, il 4 novembre 1943 la popolazione cosentina insorse contro di lui. Il motivo scatenante fu la realizzazione, nella piazza principale della città nuova di Cosenza, di un monumento ai caduti riportante frasi fasciste di vario genere, fra le quali la maggiore era la seguente: «All’ombra dei nostri gagliardetti è bello vivere, ma se necessario è ancor più bello morire».

I militanti antifascisti si erano recati in loco il giorno precedente danneggiando le iscrizioni come primo avvertimento. Il prefetto, dalla sua, il 4 novembre – che ricordiamo essere il giorno di commemorazione dei caduti nella Prima guerra mondiale – mandò i carabinieri a cancellare le scritte. In quella fase, ebbero un battibecco con gli antifascisti, in particolare con Wodizka e gli azionisti. Dunque, si creò spontaneamente un’importante manifestazione che salì da Corso Telesio e arrivò fino a Piazza prefettura. Qui i manifestanti entrarono nel palazzo e defenestrarono il prefetto. Si trattò fortunatamente di un defenestramento solo “virtuale”, poiché Endrich uscì quasi del tutto indenne da questa occupazione.

I manifestanti all’unisono gridarono i nomi di Fausto Gullo e di Francesco Spezzano, anch’egli comunista, chiedendo che venissero nominati rispettivamente come prefetto e sindaco di Cosenza. Gli alleati non accettarono tale richiesta, ma, comunque, accolsero la svolta nominando personalità antifasciste. Infatti, nominarono prefetto il socialista massimalista Mancini. Come sindaco fu scelto Francesco Vaccaro, anch’egli socialista, ma di tendenza, come accennato, socialdemocratica.

  1. Il dibattito al Congresso di Cosenza

Tutto ciò premesso, il 4 agosto 1944 il congresso si aprì. Riemersero subito le note polemiche sul programma, in quanto Lussu, e in generale tutta la corrente di sinistra del partito, voleva cominciare dalla definizione politico-ideologica del partito stesso, cosa importante per tutte le formazioni politiche, ma di particolare importanza per il Pd’a, contrassegnato, come accennato, al suo interno, in gran parte da intellettuali e filosofi della politica che non volevano accettare i 16 punti stabiliti dall’esecutivo del Pd’a in modo acritico.

Che la sinistra volesse imporre la propria linea filosocialista a livello ideologico lo si evinse subito dal fatto che la relazione di apertura venne affidata a Francesco De Martino, che era uno degli esponenti più marcati della sinistra, Questi disegnò un partito dalle caratteristiche socialiste in economia e liberali in politica.

Il dibattito fu serratissimo e si giunse pure allo scontro fisico quando La Malfa diede un sonoro schiaffo al presidente del congresso Federico Comandini. L’incidente fu comunque riparato abbastanza presto, nelle ore successive, quando, come riferiva Achille Morcavallo, si trovarono tutti a Rende nella casa di Morcavallo stesso a gustare il salame calabrese.

Fra le altre relazioni va annotata particolarmente quella di Guido Dorso sulla “Questione meridionale” che, con poche eccezioni da parte di specifici congressisti, fu approvata con largo voto. Inoltre, per sottolineare l’importanza dell’argomento, fu anche deliberata al congresso l’esigenza di pubblicare e diffondere questa suddetta relazione. Difatti, si tratta di una delle poche relazioni ancora disponibili, sopravvissuta agli incidenti d’auto che distrussero gran parte del materiale congressuale.

Quello sul sindacato fu un altro importante argomento dibattuto nel Congresso di Cosenza. La relazione, che venne svolta da Antonio Armino, dopo un articolato dibattito, venne ugualmente approvata. Nella sua essenza la tesi che scaturì dal congresso auspicava quella politica di unità a sinistra portata avanti sino ad allora dalla Confederazione generale del lavoro (Cgl) e contro la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil), ove, la prima, sostenuta dal Pd’a e da molti dirigenti locali dei partiti di sinistra, voleva una unità a sinistra spinta dalla base, mentre il Pci, Psiup e la Dc, con il “Patto di Roma” scelsero una unità non di sinistra comprendente anche i democristiani e una struttura imposta dall’alto.

Alla fine, venne posta ai voti e approvata la relazione di De Martino, con Lussu come primo firmatario, e fu bocciata quella firmata in primo luogo da Ugo Giuffrè, che era in sostanza quella di La Malfa, che appariva infatti come secondo firmatario.

  1. Il programma approvato a Cosenza

Il testo approvato così recitava:

«1. Il partito d’azione è un movimento socialista antitotalitario, autonomista e liberale, che intende realizzare il socialismo nella società e nello stato in funzione permanente della libertà;

  1. Carattere originale del suo socialismo è la concezione della coesistenza di due settori dell’economia: quello collettivo della produzione di masse e quello privato dell’economia individuale: il controllo democratico nel secondo settore impedirà il riformarsi di posizioni di privilegio;
  2. Il partito fa appello a tutte le forze del lavoro per convogliarlo verso la collettivizzazione della grande organizzazione industriale, bancaria, agraria e commerciale, fondamento dell’instaurazione di una durevole democrazia repubblicana ispirata agli ideali di rinnovamento morale;
  3. Il congresso afferma che il partito deve assumere una sua struttura interna, nella sua composizione sociale e nelle sue soluzioni concrete, un carattere corrispondente a queste storiche esigenze».

Il documento ottenne 37.112 voti contro 12.078 della mozione di La Malfa.

La minoranza, in generale, non ha mai voglia di adeguarsi alla maggioranza, ma ancora di più accadeva nel Pd’a visto che era composta in grande parte da intellettuali affermati nei diversi campi di studio, primi fra tutti quelli politici ed economici.

Benché approvata, la mozione di sinistra fu subito contestata dai liberaldemocratici e, per oltre un anno, si andò avanti in questo modo lacerante e poco produttivo, anche ai fini del coinvolgimento di nuovi militanti.

Si giunse così, al Congresso di Roma (che si svolse dal 4 all’8 febbraio del 1946). Lo denominiamo come secondo congresso, considerando come primo quello di Cosenza e, invece, quello di Firenze soltanto come una riunione allargata.

Durante il dibattito emersero tali e quali le tendenze socialiste rappresentate da Lussu e quelle liberaldemocratiche sostenute da La Malfa. Il nocciolo che non era stato risolto a Cosenza si ricreò quindi interamente a Roma, ove si ebbe addirittura l’uscita di diversi importanti azionisti, quali, per fare solo due esempi, La Malfa e Parri.

Sconfitta elettorale dietro sconfitta elettorale, i residui militanti del Pd’a arrivarono al 1947 pensando di non poter percorrere altra strada se non quella di confluire nel Partito socialista. Quindi, si svolse il congresso nel mese di aprile (dall’1 al 4) che deliberò l’ingresso nel Partito socialista (salutato con grande enfasi dal Psi stesso).

Dunque, appare ormai evidente che le divergenze ideologiche connaturarono tutta la seppur breve esperienza azionista e si formalizzarono, senza soluzioni unitarie, al Congresso di Cosenza. Inoltre, si incatenarono, ma sempre senza soluzioni, pure ai due congressi di Roma.

Di conseguenza, risulta congrua la definizione dalla quale abbiamo incominciato, che, cioè, il Partito d’azione, ponendo la questione ideologica, rifiutando di cercare soluzioni unitarie e previlegiando invece posizioni integrali, nacque a Cosenza e in questa stessa città morì perché il problema posto rimase irrisolto.

di Mario Saccomanno



Bibliografia essenziale:

De Luna, Giovanni, Storia del Partito d’Azione (1942-1947), Milano, UTET 2021 (I° ed. 1982);
Mazza, Fulvio, Il Partito d’azione nel Mezzogiorno (1942-1947), Soveria Mannelli, Rubbettino 1992;
Tartaglia, Giancarlo (a cura di), I congressi del Partito d’Azione. 1944-1946-1947, Roma, Archivio trimestrale 1984.

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