Il 28 gennaio 1944, a Bari, si riunirono i Comitati di Liberazione Nazionale. L’Italia era ancora spaccata in due, gli anglo-americani stavano lentamente risalendo la penisola e, nelle regioni centro-settentrionali del paese, la Resistenza stava combattendo contro le truppe di occupazione tedesche e i fascisti di Salò una guerra senza esclusione di colpi. La riunione di Bari, per questa ragione, vide la partecipazione di una parte dell’antifascismo militante, anche se tutte le forze cielleniste furono rappresentate. Il dibattito ruotò intorno alla questione istituzionale: azionisti, comunisti e socialisti si dichiararono nettamente a favore della Repubblica mentre liberali, democristiani e demolaburisti si mostrarono, nel complesso, possibilisti rispetto al mantenimento della monarchia. Si stava discutendo di scenari possibili successivi alla fine della guerra e alla sconfitta del nazifascismo ma, in quel momento, non si poteva sapere quando e come il conflitto sarebbe terminato. La questione della forma dello Stato era però centrale. Pietro Badoglio guidava un governo in cui gli antifascisti non si riconoscevano mentre il PRI era rimasto fuori dal CLN proprio perché aveva mostrato una posizione intransigente in rapporto al Regno del Sud, guidato da un monarca gradito agli Alleati, inglesi in particolare, ma del tutto compromesso con il regime avendo condiviso le scelte del duce, anche le più aberranti. Il maresciallo Badoglio, inoltre, prima di essere “emarginato” dal duce, si era comportato da criminale in Africa e si era mostrato in linea con il fascismo, pur avendo manifestato convinzioni diverse da Mussolini rispetto ai tempi e ai modi dell’ingresso dell’Italia in guerra. Tutto questo era chiaro agli antifascisti ma una parte di essi, quella più moderata, era disposta a dimenticare il recente passato non solo per venire incontro agli Alleati, ma anche per limitare il peso delle sinistre e il rischio di una rivoluzione sociale.  

La mozione finale del Congresso di Bari propose l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e il rinvio della scelta istituzionale a un referendum popolare, da celebrare alla fine delle operazioni militari. Si trattò di una soluzione di compromesso determinata dalla necessità di salvaguardare l’unità del fronte antifascista senza, per questo, rompere con gli Alleati con cui si doveva interagire per potenziare la Resistenza e battere il nazifascismo. Prima della conclusione dei lavori del congresso (29 gennaio) fu eletta una giunta permanente, composta da un rappresentante di ciascuno dei sei partiti del CLN e chiamata a vigilare sull’attuazione delle risoluzioni approvate. Il 31 gennaio 1944, a conferma di un clima politico-istituzionale in parte mutato, il CLN di Milano fu trasformato in CLN Alta Italia su delega dei vari CLN regionali e del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale con sede a Roma. Al CLNAI fu affidata la guida politica e militare della Resistenza nelle regioni del Nord, pochi giorni prima che il Partito d’Azione iniziasse a organizzare i suoi reparti partigiani nelle brigate Giustizia e Libertà, come avevano fatto i comunisti con le Garibaldi e come avrebbero fatto poi i socialisti con le formazioni Matteotti.

Dopo lo sciopero generale promosso dai comunisti a inizio marzo e il rientro di Togliatti in Italia alla fine del mese, dopo diciotto anni di esilio, si sarebbero poste le basi per la genesi di un nuovo governo Badoglio, appoggiato da tutte le forze del CLN. La “svolta di Salerno”, dopo la quale anche gli Alleati spinsero Vittorio Emanuele III ad annunciare l’intenzione di nominare il figlio Umberto luogotenente del Regno d’Italia e a ritirarsi a vita privata, fu in gran parte coerente con le conclusioni del Congresso di Bari che, quindi, fu una cesura rilevante della storia italiana. Tra i 116 delegati (in rappresentanza di 21 province) presenti al congresso, che ebbe una vasta eco internazionale (50 i giornalisti presenti, Radio Londra lo definì «il più importante avvenimento nella politica internazionale italiana dopo la caduta di Mussolini»), gli azionisti Michele Cifarelli, Alberto Cianca, Tommaso Fiore e Filippo Caracciolo; il repubblicano Carlo Sforza; il comunista Paolo Tedeschi; i socialisti Tito Zaniboni e Oreste Longobardi; i democristiani Giulio Rodinò e Antonio Segni; i liberali Giuseppe Laterza, Vincenzo Arangio Ruiz e Benedetto Croce, forse la figura di maggior prestigio che fu chiamato ad aprire i lavori. Disse, tra l’altro, Croce: «questo nostro è un convegno politico. E nessuno meno di me, che ne ho tenacemente difeso nel campo dottrinale l’autonomia e l’originalità, può pensare di prendere la parola per negare l’ufficio e l’importanza della politica nella vita dei popoli come degli individui. Senza politica, nessun proposito, pur nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione». Croce, liberale monarchico, direttore della rivista La Critica fondata nel 1903, era stato un riferimento per l’antifascismo dal 1925, senza tuttavia guardare mai a sinistra, anch’egli spaventato da una possibile rivoluzione sociale e molto lontano non solo da ogni forma di socialismo ma anche dalla democrazia radicale inseguita dal Partito d’Azione attraverso la rivoluzione democratica incentrata proprio sui CLN. Tuttavia Croce, nonostante la sua moderazione politica, aveva ben chiaro che i lavori di quell’assemblea, che aveva aperto con un discorso molto appassionato intitolato La libertà italiana nella libertà del mondo, costituivano un primo passo concreto verso un mondo nuovo, da opporre (nel nome del liberalismo) a qualsiasi forma di autoritarismo e di totalitarismo.

La centralità della politica era (ed è) alla base del vivere civile non solo per Croce. Ma una politica realmente partecipata e cosciente, di cui oggi si avverte molto la mancanza e che allora stava nascendo tra sogni e speranze, in parte disattese durante la seconda metà del Novecento e che, nel nuovo millennio, sembrano quasi evaporate.  

di Andrea Ricciardi    

Articolo pubblicato in data 28.01.2024 sul sito mentinfuga.com al seguente indirizzo:
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