A guardarlo oggi, con quel grido liberatorio “Il bestiale fascismo è vinto”, scritto sopra le braccia alzate di un giovane uomo, nudo come la verità, a osservarlo in occasione dall’anniversario della marcia su Roma (e del nuovo clima politico), quelle poche parole assumono un significato ancora più incisivo, quasi un monito a non farsi irretire dall’uomo forte, da chi parla in nome del popolo, praticando facilmente l’aggressione verbale, che spesso e volentieri si tramuta in violenza fisica. In quel grido, che si pensava fosse la conclusione di una storia fatta di negazioni, di sopraffazioni, di torture e paure durata un ventennio, si percepisce il senso della libertà ritrovata, la fine di un lungo incubo, la vittoria di un popolo che non si è arreso, ha sofferto ed è caduto sul campo ma, almeno in parte, non si è mai piegato e ha continuato a lottare.
Oggi solo in pochi sanno con certezza chi si celi dietro quella firma sincopata, una A e una C; nessuno può sapere quando e dove quel manifesto sia stato realizzato. Io stesso (che sono uno di famiglia – quindi la C è quella di Colombo) non ne sapevo niente fino a pochi anni fa, quando trovammo nel computer di mio padre Arturo un file di cui eravamo completamente all’oscuro: una specie di autobiografia – a tutt’oggi riservatissima – in cui metteva nero su bianco storie, emozioni, riflessioni sul suo passato, sulla sua famiglia, sul suo curriculum vitae. Pagine che oggi ci svelano l’origine di quel manifesto, oltre a descrivere la drammatica atmosfera del nostro Paese sotto la cappa di piombo delle camicie nere (pre e post-RSI), ben diversa da quella tramandata da chi nel fascismo ancora oggi continua a vedere un’Italia felice, moderna ed evoluta. Così scriveva mio padre:
«All’indomani del 25 luglio del ’43, quando sembrava che si dovesse davvero “voltare pagina”, mio padre aveva fatto a inchiostro di china un robusto disegno, che raffigurava un Mussolini a terra, ormai vinto, e un giovanetto entusiasta che gridava forte “Il bestiale fascismo è vinto!”. Sarebbe diventato un manifesto famoso, diffuso dall’allora Partito socialista italiano di unità proletaria e affisso soprattutto sui muri di Milano, di Como e di altre città lombarde tra fine-aprile e i primi di maggio del ’45. Ma per quasi due anni, da quel luglio del ’43 fino alla Liberazione, quel disegno-manifesto mio padre l’aveva tenuto nascosto in casa, fissandolo con quattro puntine dietro una modesta libreria, accanto al letto dove io dormivo ogni notte».
Lontano da Milano, dove aveva evitato per un pelo di finire sotto i bombardamenti alleati, mio nonno Augusto (1902-1969) non aveva abbandonato la lotta clandestina. La sua professione (era un pittore, esponente della pittura realistica figurativa, e dirigeva una validissima Scuola d’Arte in piazza Borromeo) era diventata un paravento, dietro cui aveva potuto celare la sua partecipazione alla Resistenza, come comandante di una formazione partigiana delle Brigate Matteotti (nome di battaglia Giberti) e come rappresentante del CLN nel comasco. Perché avesse scelto proprio le Brigate Matteotti lo si può intendere in quest’altro ricordo di mio padre:
«In casa, su un mobiletto in corridoio, c’era un piccolo quadretto, su cui figurava soltanto una sbiadita bandiera italiana. Durante il giorno, quando c’era luce, quel quadretto dall’apparenza così modesta e insignificante mostrava la solita bandiera, con i colori che diventavano sempre più spenti. Invece, di notte, appena la stanza era invasa dal buio, quel quadretto subiva una specie di metamorfosi, perché la bandiera sembrava di colpo scomparsa e al suo posto emergeva il volto di Matteotti con una scritta: “Uccidete me – ma l’idea che è in me – non la ucciderete mai”. Chissà com’era venuto in casa, o chi ce l’aveva portato, quel notturno “messaggio”, di cui mio padre (raccomandandomi di non parlarne mai con nessuno) mi aveva raccontato che erano stati i fascisti – dieci anni esatti prima che io nascessi – a uccidere quell’uomo, di cui avvertivo solo lo sguardo così melanconico da non dimenticarmelo più […]. Così come non ho mai dimenticato – dev’essere stato durante l’autunno del ’44 ed io ero solo un ragazzino – quella volta in cui ero in bicicletta con mio padre. A un certo punto mio padre si fermò di colpo; sul ciglio della strada c’era, riverso e sanguinante, il cadavere di un giovane appena ucciso, probabilmente un partigiano. Ci guardammo in faccia l’un l’altro, e poi volgemmo di nuovo lo sguardo su quel povero ragazzo ormai senza vita, riverso in un’atmosfera carica di un silenzio spettrale. Tornato a casa, mio padre si sarebbe ritirato nel suo studio e avrebbe composto un disegno con quella scena».
Quel disegno a carboncino oggi fa parte di un gruppo di opere – i “fogli sulla guerra” – che mio nonno realizzò tra il 1940 e il 1944, disegni di grande impatto, visivo ed emotivo: la cappa di ferro del regime, la drammatica realtà della guerra in corso, insieme alle sopraffazioni dei fascisti e ai rastrellamenti dei tedeschi, continuavano a tormentarlo (“nella veglia di notte i pensieri della mia pittura incrociano con pensieri di rovine, di battaglie, di delitti, e non sono allucinazioni, ma l’eco di fatti che si susseguono tremendi con una inesorabilità e una iniquità inconcepibili secondo raziocinio”, ha lasciato scritto nei suoi diari del gennaio 1944), facendolo lavorare su un gruppo di schizzi a carboncino, incisivi e corrosivi, dove le atrocità delle camicie nere fanno pendant con le devastazioni della guerra, negli occhi smarriti di una donna che, davanti alle rovine della sua casa distrutta, abbraccia in lacrime il figlioletto.
In questi “fogli sulla guerra” si tocca con mano quello che il bestiale fascismo aveva portato nel nostro Paese, grazie ad un sistema di conformismo, indifferenza, furberia e cieca abiezione. C’è lo scarpone di un militare che si avvicina impavido e autoritario, l’angoscia dei deportati ammassati in un vagone bestiame, il passaggio minaccioso di un carro armato in città, il manipolo di camicie nere che massacra a colpi di mitra un gruppo di partigiani, la corsa convulsa durante un allarme aereo, le devastazioni della guerra negli occhi smarriti di una donna che abbraccia il figlio, insieme ad un gruppo di bozzetti (del 1947) per una edizione di Uomini e no di Vittorini (mai utilizzati).
Vent’anni dopo averli realizzati, mio nonno scriveva: «Non dipingo per sollecitare l’emotività dei colleghi: dipingo per “far vedere” le cose e le idee nelle quali credo e vorrei credessero anche gli altri». Il resistente Giberti non si era mai arreso e in quel grido liberatorio, “Il bestiale fascismo è vinto”, c’era tutta la trepidazione per quell’Italia Repubblicana e democratica, che va difesa e salvaguardata ad ogni costo.
Per gentile concessione degli eredi della famiglia Colombo.
di Claudio Colombo