Nel suo ultimo libro uscito postumo, Profili a memoria (La Lepre Edizioni, a cura di Daniel Pastorino, impreziosito dalla bella prefazione di Gad Lerner), Gianna Radiconcini – staffetta partigiana e giovane militante del Partito d’Azione, federalista, colonna del PRI e brillante giornalista (prima inviata RAI a Bruxelles e Strasburgo) – ha descritto l’atmosfera respirata il 2 giugno 1946 con grande efficacia, riuscendo a trasmettere l’entusiasmo di allora per la ritrovata libertà. Una libertà rappresentata innanzitutto dalla conquista del diritto di voto per tutti, dunque anche per le donne che si avviavano a diventare cittadine e per i cui diritti Gianna avrebbe combattuto tutta la vita.
Seppur addolorata per la scissione del Partito d’Azione, l’arrivo del 2 giugno mi sollevò molto il morale. Finalmente gli italiani potevano votare. Tutti. Era la prima volta che accadeva. Nel 1946 ero elettrizzata dalla situazione politica. Mi occupavo del Comitato romano del Movimento della Democrazia Repubblicana [il movimento fondato dopo la scissione del febbraio 1946 da La Malfa e Parri, che confluì poi nel PRI, n.d.a.]. Tra i compiti del comitato c’era la gestione della campagna elettorale. Disponevamo di una cifra esigua che non poteva essere aumentata […]. Durante la campagna elettorale ci furono due avvenimenti che mi sembrarono importanti. Due cortei che invasero il centro di Roma. Parteciparono repubblicani di tutti gli schieramenti politici. Il primo precedette le elezioni; il secondo, successivo al 2 giugno, si tenne mentre il re era ancora al Quirinale, nonostante il responso delle urne avesse sancito la vittoria della Repubblica. Tutte e due le manifestazioni erano aperte da Parri […]. Erano manifestazioni improvvisate. La seconda doveva convincere re Umberto II che la storia dei Savoia era finita. E il re capì, nonostante il parere di alcuni suoi consiglieri che lo spingevano a restare sostenendo che il responso delle urne non fosse veritiero. Ho sempre apprezzato il senso dello Stato che Umberto dimostrò in quell’occasione, lasciando l’Italia subito dopo quel corteo. È uno dei Savoia che non disonorò l’Italia […]. Partito Umberto II, nel 1946 fu eletto capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Quest’elezione mi rese ancor più euforica, perché era stato eletto un uomo probo dal passato cristallino. Sia io che la mia amica Marisa Musu, ambedue iscritte all’UDI, ci muovemmo immediatamente per presentargli la nuova creatura – l’Associazione ragazze d’Italia – e io per un’intervista commissionatami da Noi Donne […]. Fummo ricevute molto cordialmente. Mi sciolsi un po’: quella era la mia prima intervista. De Nicola era appena tornato da un lungo viaggio nell’Italia settentrionale ed era entusiasta. Aveva trovato, a un solo anno dalla fine della guerra, un paese in piedi. «Il porto di Genova lavora a pieno ritmo – disse – mentre tutti gli altri porti europei hanno attività ridotte. Anche gli impianti industriali funzionano completamente. E tutto ciò è stato salvato dai partigiani», concluse. Erano i prodromi del “miracolo italiano”. Mi domando: che fine hanno fatto quelle capacità, quell’efficienza e quella creatività che resero settima potenza industriale del mondo un paese umiliato da una guerra, persa? E l’Italia lo divenne in pochi anni… Non mi so dare una risposta.
Già, che fine hanno fatto quelle capacità e, si potrebbe aggiungere, quella lungimiranza, senza voler tacere contraddizioni ed errori che pure ci furono? In effetti è difficile dare una risposta convincente, sono cambiate troppe cose perché l’immediato secondo dopoguerra possa essere paragonato al presente. Tuttavia se si capisce che anche oggi ci troviamo di fronte a problemi “strutturali”, dalla cui urgente risoluzione dipende il futuro prossimo, possiamo ritrovare almeno un po’ di quello spirito guardando al passato non solo con un senso di decadente nostalgia, ma anche con la speranza di un cambiamento possibile. Che cosa ci direbbero oggi coloro che, nel mezzo di una guerra orribile e devastante sotto tutti i punti di vista, rischiavano giornalmente la vita mostrando fiducia nel futuro, nonostante tutto? E coloro con cui Gianna fu più a stretto contatto anche in tempo di pace, come Oronzo Reale, Parri, La Malfa, Spinelli, Ursula Hirschmann e molte altre donne, sarebbero rassegnati a un presente indecifrabile o cercherebbero di influenzare direttamente il corso della storia impegnandosi senza alcun risparmio di energie, come fece la stessa Gianna? Tra le importanti battaglie di cui si fece carico, una menzione particolare merita la riforma del diritto di famiglia. Anche dall’interno del PRI, che criticò per il maschilismo dei suoi dirigenti dalle colonne del suo organo La Voce Repubblicana, Gianna alimentò il dibattito su una legge approvata soltanto nel 1975 dopo molti anni di attesa (giaceva alla Camera dal 1964), pagando sempre in prima persona e a caro prezzo scelte lavorative e personali tanto coraggiose quanto rischiose.
Fino alla fine Gianna ha progettato, mostrando curiosità e interesse per gli altri, con il suo sorriso luminoso e la sua ferrea determinazione che attraversano tutti i capitoli del libro e che ci raccontano di una donna insieme scomoda, spigolosa, generosa, profondamente laica e a suo modo rivoluzionaria, innamorata dell’azione, versatile, colta e passionale, mai banale, appassionata di cinema e dei viaggi, pronta ad affrontare i contesti più disparati. Una donna che ha sofferto ma non ha rinunciato a vivere, che ha provato sempre a incidere sulla società partendo anche dalle vicissitudini personali, da cui ha tratto la forza di intraprendere battaglie politico-culturali epocali, capaci di evidenziare molte delle sacche di arretratezza di un paese in cui la crescita del PIL non corrispondeva, in aperta violazione dei principi della Costituzione, all’estensione dei diritti fondamentali. Il suo sano anticonformismo rappresenta, oggi, un’autentica necessità di fronte a un clima di crescente apatia sociale che indebolisce la coscienza e, con essa, le libertà faticosamente conquistate dopo la sconfitta del fascismo. Quelle libertà che costituiscono le radici della Repubblica e della democrazia, della cui salute è un dovere occuparsi per tutti.
di Andrea Ricciardi