Giuseppe Filippetta, L’estate che imparammo a sparare. Storia partigiana della Costituzione, Feltrinelli, Milano, 2018
Tra le pubblicazioni più recenti sulla Resistenza, il volume di Giuseppe Filippetta, studioso di storia che nasce costituzionalista, rappresenta certamente una novità di grande rilievo. Il libro, denso e dal titolo suggestivo, non vuole essere una “classica” storia della Resistenza perché non mira a una lettura complessiva di quel periodo dal punto di vista militare o ideologico-politico, sebbene entrambi i piani siano contemplati in una narrazione ricca e originale. Il fulcro e il senso del volume sembrano essere rappresentati dal tentativo di rispondere a un paio di domande per certi aspetti “scomode”: che cosa è rimasto della guerra partigiana nella Costituzione repubblicana? Quali sono stati i caratteri salienti di questa guerra?
Filippetta, più che sul ruolo dei partiti politici e dei comitati di liberazione nazionale, concepiti in particolare dal Partito d’Azione (quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della sua nascita) come base del nuovo Stato democratico e repubblicano, indeboliti e definitivamente sconfitti già nel 1945 durante il Governo Parri, si concentra sulle bande partigiane. Proprio nelle bande, di fronte al traumatico vuoto di sovranità emerso dopo l’8 settembre 1943, secondo Filippetta i partigiani avrebbero manifestato una reale presa di coscienza e di responsabilità, facendosi soggetti attivi della storia nel segno di un rinnovamento radicale. Le bande, in questo senso, sarebbero state soggetti costruttori di ordine giuridico nelle quali le singole persone, ancor prima della politicizzazione venuta per iniziativa dei ricostituiti partiti antifascisti, avrebbero operato la scelta, insieme libera e necessaria, di prendere le armi per indirizzare gli eventi senza delegare ad altri il futuro dell’Italia. Un paese travolto dalle ignobili scelte operate dal fascismo razzista, piegato dalla folle guerra condotta da Mussolini al fianco dei nazisti, invaso da Nord e da Sud e diviso da tutti i punti di vista, a cominciare dall’amministrazione e dagli assetti del potere politico, ispirati più all’arbitrio che a regole accettate e condivise da una società civile disarticolata, spaventata e confusa. Sia pure in modo diverso rispetto alla Repubblica Sociale Italiana, anche il Regno del Sud era eterodiretto. Dunque il vuoto di sovranità, per Filippetta, non poteva essere colmato con una generosa adesione agli ideali di libertà (per lo più generici) espressi dagli anglo-americani, secondo molti impegnati più a contenere la forza della Resistenza per frenare ogni autentica rivoluzione (innanzitutto sociale) e quindi a favorire un passaggio di regime “morbido” senza eccessive discontinuità, tenendo conto che l’unità antifascista, e quindi l’alleanza con i sovietici, una volta finita la guerra e battuto militarmente il nazifascismo si sarebbe fatalmente indebolita.
Questo modo di intendere la Resistenza, e in particolare la sua radice che riporta alla presa di coscienza della persona che intese farsi cittadino attraverso una scelta netta, sembra dunque ridimensionare la centralità dei partiti (e dei CLN in cui essi si erano in qualche modo “collocati”), che limitarono l’autonomia dei singoli costruttori di sovranità e contrastarono quello spontaneismo (prima personale e poi di massa) e quella presa di coscienza (e di responsabilità) che erano stati alla base della scelta resistenziale. Una tesi ardita, che si configura quasi come un nuovo paradigma storiografico: non sarebbero state le bande ad aver cercato i partiti per necessità, sarebbero stati i partiti a cercare le bande per legittimarsi e divenire così soggetti centrali del cambiamento.
In questa sede non è possibile stabilire se questa visione della radice della Resistenza si possa pienamente accettare, ma si può certamente affermare che discutere questa impostazione costituisce un notevole arricchimento del dibattito sul tema, da sempre delicato perché posto alla base della nostra convivenza civile sintetizzata proprio dalla carta costituzionale. Si può solo accennare a qualche domanda, senza pretendere in alcun modo di fornire sentenze insindacabili ma soltanto ulteriori spunti e suggestioni. Se diventare partigiani ha significato innanzitutto farsi sovrani di fronte all’assenza di un qualsiasi solido riferimento a un ordinamento statuale, associato a valori realmente sentiti e condivisi, e se, dunque, la Resistenza si è configurata innanzitutto come una guerra per la conquista di una nuova sovranità, in termini percentuali la maggior parte dei combattenti doveva essere davvero cosciente di questa dimensione. Ma fu proprio così? L’istintiva e molto spesso eroica risposta alle violenze e all’arbitrio nazifascista non poteva forse costituire la base, altrettanto solida, di una scelta non esattamente scontata? E ancora: la paura; il senso di estrema precarietà plasticamente rappresentato dalla costante vicinanza con la morte e con la sofferenza; la volontà di combattere, a lungo repressa durante il ventennio anche dopo l’illusoria fiammata della guerra civile spagnola; il tradimento della patria (concetto diversamente declinato a seconda delle ottiche e per nulla confinabile nel nazionalismo aggressivo gridato dell’estrema destra) non furono elementi altrettanto importanti per inquadrare la base di certe scelte? Forse, ma il tema dell’assenza di sovranità come motore di una presa di coscienza e di responsabilità, personale prima che collettiva, rimane centrale in un quadro molto sfaccettato e complesso. E Filippetta ha avuto il grande merito di ricordarcelo.
Viene in mente Vittorio Foa, uno dei protagonisti di quella stagione che, dopo otto anni e tre mesi di carcere fascista a stretto contatto con Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Massimo Mila e altri, alla fine di luglio del 1943 scriveva ai genitori avvertendo, in vista della tanto agognata liberazione, non tanto la gioia che aveva immaginato quanto un “senso di grave responsabilità” rispetto al futuro, cosciente che il massimo sforzo doveva ancora essere profuso e che la vittoria della libertà era lontana. Un atteggiamento figlio proprio di quella ricerca di coscienza e della necessità di mettersi ancora in gioco in prima persona, per sé e per gli altri. Foa mantenne una contagiosa curiosità fino alla fine, non rinunciando alla necessità di discutere in primis se stesso e il suo campo politico-culturale, avvertendo sempre l’urgenza di non rimanere indifferenti anche per non dare per scontato ciò che si era faticosamente conquistato, con tutti i possibili limiti di una democrazia largamente imperfetta ma da difendere con forza da tutte le pulsioni autoritarie. Il libro di Filippetta sembra ricordarci questo dovere civile, in un’epoca in cui l’attimo fittizio offusca costantemente la profondità della storia e oscura le diverse dimensioni del tempo.
di Andrea Ricciardi