Gaetano Arfè, Discorsi parlamentari
a cura di Andrea Becherucci, Biblion, Milano 2022
Arfè è stato tante cose: giovane antifascista inquadrato in una formazione partigiana di Giustizia e Libertà, militante e dirigente del PSI (e della Sinistra Indipendente), archivista e storico, giornalista e parlamentare. È stato, insieme, un protagonista e un testimone (oltre che studioso e interprete, come ha scritto in una nota Giovanni Scirocco) di circa ottant’anni di storia italiana. Nel volume, curato da Becherucci con un’attenzione che si può definire affettuosa, sono raccolti i discorsi pronunciati da Arfè tra il novembre 1972 e il febbraio 1991 al Senato (VI e X Legislatura), alla Camera (VII Legislatura) e al Parlamento europeo, dove fu eletto nel 1979. Tra i vari temi affrontati, in questa sede è inevitabile soffermarsi solo su alcuni di essi, connessi con particolari stagioni ed episodi del ventennio coperto dalla sua attività parlamentare.
Uno di questi è certamente la strage del treno Italicus, figlia della strategia delle tensione e avvenuta a poco più di due mesi dalla strage fascista di piazza della Loggia a Brescia. Arfé, intervenendo il 5 agosto 1974, e cioè il giorno dopo l’esplosione della bomba che provocò la morte di dodici persone e il ferimento di altre quarantotto, rivolgendosi al ministro dell’Interno Taviani, disse che fin dalla genesi del fenomeno terroristico erano stati commessi «errori di giudizio politico, oggi generalmente ammessi, che hanno in partenza contribuito a deviare e a ritardare il corso delle indagini». E ancora: «si è confuso il fenomeno sociale della contestazione libertaria, anarcoide, magari teppistica, ma comunque controllabile con mezzi politici, con normali operazioni di polizia, col fenomeno del terrorismo che era di tutt’altra natura» (p. 88). In realtà le Brigate Rosse, ad aprile, avevano già rapito Mario Sossi e il terrorismo rosso avrebbe via via alzato il tiro. Ma Arfé, allora, alludeva allo stragismo nero a proposito del quale parlava «di una centrale eversiva, a ramificazioni internazionali che pianifica e attua freddamente e spietatamente la sua criminosa manovra» (p. 89). Uno scenario fatto di gravissimi depistaggi, veri o presunti tentativi di colpi di Stato, manovre occulte per condizionare alla base la dialettica democratica e frenare le riforme con il pretesto del pericolo comunista. Un quadro vicino a quello che molti anni dopo sarebbe stato delineato dalla magistratura e dalla storiografia e che Arfé, autore di inchieste sul terrorismo neofascista che gli costarono l’abitazione romana, distrutta da una bomba che provocò il ferimento di tre persone il 2 aprile 1975, intuì prima di altri osservatori e politici, nella migliore delle ipotesi distratti o ingenui. La parte finale dell’intervento restituisce appieno il clima del periodo, purtroppo non sarebbe finita presto la scia di sangue che, sotto vari aspetti, condizionò lo sviluppo del paese per sempre. «Sono anni oramai che ci troviamo in quest’Aula e fuori a commemorare i nostri morti, ad esprimere il nostro sdegno, il nostro dolore, ma senza risultato alcuno. Sono stati identificati alcuni sicari. I mandanti sono ancora nell’ombra. Chi manovra ancora non si sa. E questo può portare alla lunga a fenomeni estremamente pericolosi; fenomeni di panico diffuso da una parte, e fenomeni di esasperazione in larga parte delle masse popolari dall’altra. Potremo trovarci ad una lacerazione della società che è l’obiettivo a cui queste forze tendono» (p. 90).
Di notevole interesse il lungo intervento del 1° dicembre 1976 sul progetto di revisione del Concordato che, sia pure con cautela, Arfè (spiegando l’appoggio del PSI) approvava. Ma la posizione espressa non consentiva, per ragioni varie, allo storico e al militante politico di ridimensionare la gravità di quell’accordo firmato tra Chiesa e fascismo in una delle fasi più cupe dell’intera storia italiana. Un accordo, quello del 1929, che in realtà non aveva chiuso la questione romana e che, per certi aspetti forzatamente e non senza l’esplosione di contraddizioni interne al PCI, fu accettato da Togliatti tra molte polemiche all’atto della stesura della Costituzione. Il realismo mostrato dal segretario comunista, improntato alla pacificazione, non aveva coinciso con l’intransigenza di socialisti e azionisti e aveva finito per prevalere sulle idealità, pur consentendo attraverso l’articolo 7 di non riaprire in un momento di passaggio molto delicato un tema così centrale in un paese per lo più cattolico. Arfè, cosciente della complessità della situazione, chiedeva una revisione coerente con il tessuto politico-culturale italiano ma non si schierava per l’abrogazione del concordato, giudicata irrealistica.
Per quanto riguarda gli interventi al Parlamento europeo, merita un’attenzione particolare quello del 19 maggio 1983. Arfè, impegnato nella discussione della proposta di risoluzione del compagno di partito Vincenzo Gatto sul vergognoso comunicato della giunta militare argentina, che si era assunta la responsabilità degli omicidi dei Desaparecidos, manifestò il suo stato d’animo con parole inequivocabili. «Le vittime non sono state condannate da tribunali eccezionali, autorizzati ad esercitare una sia pure aberrante giustizia. Esse non sono neanche cadute in folli massacri di massa, ma prelevate e fatte scomparire una dopo l’altra, con una mostruosa, ininterrotta e programmata gradualità. Per molte di esse non si ha neanche la certezza della morte, si ignora il destino di bambini sottratti alle loro famiglie» (p. 137).
Dopo la definitiva rottura con Craxi e il doloroso allontanamento dal PSI, Arfè rientrò al Senato nella X Legislatura con la Sinistra Indipendente al fianco di figure dello spessore di Foa, Antonio Giolitti e Ossicini. Di fronte all’operazione Desert Storm, partita nel gennaio 1991 dopo la risoluzione n. 678 del consiglio di sicurezza dell’ONU per imporre il ritiro dal Kuwait dell’Iraq di Saddami Hussein che lo aveva invaso, il gruppo parlamentare non assunse una posizione univoca e si divise addirittura in tre tronconi, a conferma delle diverse sensibilità che lo animavano. Sia sulla partecipazione italiana all’operazione, sia sul rifinanziamento della missione discusso a febbraio, Arfè (con Ossicini) scelse l’astensione in dissenso con coloro che avevano deciso di sostenere il governo presieduto da Andreotti, ma anche con chi aveva optato per il voto contrario. Una scelta tormentata quella di Arfè, fatta da un uomo che mostrò sempre grande onestà intellettuale e materiale senza rifuggire dalle proprie responsabilità, anche da quelle più scomode. Un vecchio ragazzo rimasto legato alla lezione di Turati che, nel terzo millennio, non esitò a radicalizzare le proprie posizioni politiche. Ciò avvenne di fronte alla crisi di una sinistra sempre meno credibile in cui, come ebbe a dire nel 2005, la parola riformista era stata svuotata del suo significato più proprio fin da quando Craxi, nel rimetterla al centro del dibattito pubblico, aveva smesso di associarla al socialismo inteso come ricerca graduale e pacifica di un’alternativa al tipo di modello capitalistico esistente.
di Andrea Ricciardi