Patrizia Baldi, Enrico Palumbo, Gianguido Piazza (a cura di), Foto di classe senza ebrei. Archivi scolastici e persecuzione a Milano (1938-1943)
Sabato 3 settembre 1938 i quotidiani nazionali uscirono con titoli a tutta pagina: si annunciava l’approvazione dei decreti che, nell’ambito della “politica della razza” del fascismo, prevedevano l’espulsione da tutte le scuole del regno di studenti, insegnanti e personale ebrei. Il Corriere della Sera aggiungeva che «i giudei cesseranno di far parte delle Accademie e delle associazioni di scienze, lettere ed arti», specificando che il Gran Consiglio avrebbe «poi precisato globalmente la posizione degli ebrei nella Nazione»; seguiva un articolo di fondo dal titolo Logico sviluppo. Prendeva forma così, con un provvedimento che colpiva scientemente l’istituzione più importante per la formazione dei cittadini, «una delle pagine più meschine della nostra storia» (p. 66).
L’espulsione dalle scuole non fu certo un fulmine a ciel sereno: la costruzione di un abnorme sentimento antisemita nell’opinione pubblica, l’elaborazione di una ideologia razzista sempre più martellante a partire dalla guerra in Etiopia del 1936, la patina di legittimità scientifica data al presunto “arianesimo” degli italiani erano tutti elementi che lasciavano presagire un simile sbocco, la cui “necessità” non era funzionale al bisogno di compiacere l’alleato nazista, ma era del tutto autoctona. Tuttavia, nonostante il pessimo clima che ormai si respirava nel paese, la notizia arrivata a poco più di un mese dall’apertura dell’anno scolastico 1938/39 rappresentò un momento drammatico, probabilmente quello in cui fu chiaro agli ebrei italiani che, da lì in avanti, non ci sarebbe stato ritorno.
Proprio dai mesi dell’autunno del ’38 prende il via Foto di classe senza ebrei, un insieme di saggi e ricerche in cui vengono ricostruite le vicende di alcune scuole milanesi in relazione all’espulsione di studenti e insegnanti ebrei. Un volume di grande spessore ed interesse, che si legge con curiosità, emozione, dolore, indignazione profondissima e che si avvale del sostegno e del contributo del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e dell’ANPI provinciale di Milano. I saggi introduttivi delineano il quadro metodologico (Enrico Palumbo e Gianguido Piazza) e storico (Marco Cuzzi, Michele Sarfatti) alla base delle ricerche negli archivi scolastici milanesi. In particolare, si ricordano alcune esperienze che, a partire dagli anni Novanta e soprattutto dai primi anni del Duemila, hanno coinvolto insegnanti e studenti delle medesime scuole in cui, ottant’anni prima, si era consumata l’espulsione, la discriminazione e l’eliminazione di ogni presenza ebraica. Si trattava di “laboratori storiografici” che, a vario titolo e in modi diversi, hanno riguardato alcuni licei cittadini e che hanno permesso di “toccare con mano” la realtà delle leggi razziali, in alcuni casi rintracciando gli ex studenti e, con la consegna dei diplomi, riaccogliendoli nella comunità scolastica da cui erano stati brutalmente allontanati.
Il quadro storico di come “l’Italia si scoprì razzista” (p. 43) è disegnato con rigore puntuale, ogni tappa scrupolosamente ricordata, la scansione cronologica ricostruita nella sua brutale e martellante precisione nel saggio di Cuzzi, il quale evidenzia come l’antisemitismo italiano fosse tradizionalmente di matrice culturale e legato al cattolicesimo. Lo Stato liberale aveva permesso che si continuasse in una lunga stagione di assimilazione dell’ebraismo, cosa che non si poteva dire della Chiesa, la quale sul finire del XIX secolo aveva ripreso il suo tradizionale antigiudaismo teologico aggiornandolo con un violento antisemitismo razziale. Nel 1924 padre Agostino Gemelli, fondatore e rettore dell’Università Cattolica, in occasione della morte di Attilio Momigliano, scriveva: «ma se insieme con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero e con il Momigliano morissero tutti i giudei (…) non è vero che al mondo si starebbe meglio?» (p. 52). È chiaro quindi che, se lo Stato liberale non aveva concepito un atteggiamento antisemita paragonabile, ad esempio, a quello francese, certo l’humus culturale su cui si costruì una politica razzista da parte del regime fascista trovò terreno fertile nel promuovere l’antisemitismo come strumento di tutela della razza italiana. Con il Manifesto degli scienziati razzisti (14 luglio 1938) prese il via in modo compiuto l’antisemitismo di Stato: da qui in poi, i provvedimenti antiebraici si susseguirono con cadenza regolare. La persecuzione fu pervasiva e ben organizzata. In particolare, il mondo della scuola e, più in generale, dell’istruzione e della cultura, fu oggetto di numerosissimi decreti e disposizioni amministrativi, come emerge dal saggio di Sarfatti. Quest’ultimo ripercorre la cronologia e la sostanza dei Regi decreti (che testimoniano la diretta responsabilità del Re Vittorio Emanuele III), analizzandone le conseguenze nelle scuole di ogni ordine e grado. La composizione delle classi, del corpo insegnante, del personale tutto, la proibizione di adottare libri di testo di autori ebrei (persino le carte geografiche vennero epurate), la censura di parti intere di libri contenenti riferimenti a persone, fatti, eventi, autori: tutto ciò che poteva suggerire rimandi all’ebraismo doveva essere espunto, rimosso, eliminato. I provvedimenti continuarono fino al 1940 e furono operativi fino al crollo del regime, nel luglio del 1943. Dal settembre di quell’anno, per gli ebrei residenti nella Repubblica Sociale, iniziò la fase finale della persecuzione: la deportazione e lo sterminio.
Il nucleo centrale del volume riguarda le ricerche condotte negli archivi dei Licei Ginnasi Cesare Beccaria, Giovanni Berchet, Giosuè Carducci, Alessandro Manzoni, Giuseppe Parini; dell’Istituto Tecnico Commerciale Nicola Moreschi; della Scuola Elementare Stoppani e di un gruppo di altre scuole elementari del centro storico. La documentazione scolastica, incrociata con le fonti messe a disposizione dal CDEC e con i lavori di ricerca sulla persecuzione, ormai molto numerosi, permette di individuare con un certo grado di precisione quanti e chi furono gli studenti allontanati, la loro collocazione sociale e la “distribuzione” della popolazione scolastica ebraica nel contesto cittadino, grazie all’analisi dei Registri di classe degli anni 1937/38 e 1938/39, della corrispondenza amministrativa e, in alcuni casi, dei fascicoli personali dei docenti. Anche per gli insegnanti allontanati, infatti, è possibile ricostruirne le vicende incrociando le informazioni degli archivi scolastici con ricerche di più ampio raggio circa il personale statale negli anni della persecuzione. Vale la pena citare qui, solo a titolo esemplificativo, la vicenda di Arturo Loria, preside dell’Istituto Tecnico Commerciale Moreschi, il quale si trovò nella kafkiana situazione di dover comunicare a due insegnanti ebrei della scuola la loro espulsione, sapendo che avrebbe ricevuto il giorno successivo la comunicazione di doversi “auto espellere”. Si tratta naturalmente di una ricerca in progress che ha coinvolto un numero limitato di scuole, perlopiù in posizione centrale, delle quali è stato possibile rintracciare e consultare gli archivi. Non è noto quindi il grado di coinvolgimento delle scuole più periferiche, anche se la composizione della comunità ebraica milanese lascerebbe supporre che lì la presenza di ebrei fosse minore, seppur alimentata a partire dalla metà degli anni Trenta dall’afflusso di moltissimi profughi dalla Germania e dai paesi dell’Est europeo. Emerge in ogni caso un quadro abbastanza preciso e drammatico sia nei numeri (all’incirca 300 studenti furono espulsi dalle scuole milanesi prese in esame), sia nelle conseguenze. L’antisemitismo di Stato introdusse un vulnus enorme nel contesto nazionale, destinando una parte della sua stessa comunità all’eliminazione e, contestualmente, educando gli studenti “di pura razza ariana” nell’atmosfera mefitica del razzismo e dell’antisemitismo. Libri di testo, letture, conferenze e lezioni: tutto doveva convergere verso i “principi” dell’educazione fascista. C’è da chiedersi, a tal proposito, quali influenze ebbe (e quanto a lungo si manifestarono) quest’opera di “educazione all’odio” sugli italiani che frequentarono la scuola tra la fine degli anni Trenta e il 1943/45. Così come resta aperta la domanda su che tipo di insegnamento e di educazione trasmisero gli insegnanti rimasti in carica ben oltre la fine della guerra e che avevano aderito, senza troppi patemi, alle parole d’ordine dei libri di testo fascisti. Su coloro, in breve, che furono cittadini attivi negli anni della ricostruzione del paese.
L’ultima parte del volume è dedicata alle “reazioni della Comunità”, con due saggi (Zelia Grosselli ed Enrico Palumbo) che analizzano la risposta dei cittadini ebrei milanesi alle espulsioni e gli sforzi fatti per poter garantire agli studenti il proseguimento degli studi. Era questa, infatti, una preoccupazione grandissima e angosciante, di cui si fece interprete il presidente della Comunità israelitica milanese, comandante Federico Jarach, il quale intuì che si trattava non solo di continuità scolastica, ma anche di evitare che sui ragazzi espulsi dal loro mondo abituale, ed estromessi dalle reti amicali, si abbattessero sconforto e depressione. Nacque quindi dal fortissimo impegno, anche economico, della Comunità l’esperienza della Scuola ebraica di via Eupili, che si strutturò velocemente per garantire un percorso scolastico ginnasiale e liceale, arricchendosi in seguito anche di scuole medie e di corsi universitari. Diretta da Yoseph Colombo (per molti anni preside del Liceo Berchet, nel dopoguerra), la scuola accolse numerosissimi insegnanti ebrei espulsi dai licei e dalle scuole non solo milanesi, avviando un’esperienza di grande importanza garantendo alti livelli di istruzione e, pur nella situazione di eccezionalità in cui si trovava, assumendo caratteristiche di sperimentazione e di innovazione. Una su tutte: la creazione di classi miste. Si trattò, inoltre, di una scuola decisamente più libera, non sottoposta alla censura e alla propaganda del regime: paradossalmente, nella tragedia della discriminazione, educò più di una generazione alla democrazia e alla libertà. Sempre grazie all’impegno della Comunità, si riuscì ad aprire, presso la scuola elementare di via della Spiga, una sezione ebraica sfruttando la possibilità concessa da uno dei regi decreti in materia. Ciò permise a molti bambini la frequenza all’istruzione di base anche se, come segnalato dalle insegnanti (anch’esse ebree espulse dalle suole pubbliche), questo poneva numerosi problemi poiché spesso di trattava di bambini stranieri appartenenti a famiglie di profughi, totalmente ignari della lingua. A volte erano ragazzi quasi adolescenti inseriti nelle classi dell’istruzione di base e non mancavano problemi legati all’estrema povertà di questi alunni, soprattutto dopo lo scoppio della guerra, quando arrivarono in moltissimi fuggendo dalle zone di operazioni militari e occupate dai nazisti, spesso in attesa di trasferirsi in altri paesi o in Palestina. Anche in questo caso, tuttavia, la Comunità milanese cercò di garantire un minimo d’istruzione per tutti.
Concludono il volume alcuni saggi che ricostruiscono il valore metodologico e didattico delle ricerche svolte nelle scuole, sottolineando in particolare come questi progetti in grado di coinvolgere gli studenti siano fondamentali per fare esperienza diretta del metodo storiografico. Il percorso che va dall’ipotesi di ricerca all’elaborazione dei risultati si dimostra particolarmente efficace, soprattutto se l’archivio è quello della scuola frequentata. L’emozione del “toccar con mano” i documenti e la consapevolezza che altri studenti, anni prima, hanno frequentato gli stessi luoghi e ne sono stati espulsi rappresenta uno strumento funzionale alla conoscenza, in grado di trasformare l’emozione in consapevolezza e comprensione della storia.
Il libro ha dunque una struttura articolata, che rende evidente la complessità della storia della persecuzione antiebraica nel nostro paese. Una vicenda che non riguarda esclusivamente i cittadini ebrei, poiché è necessario ricordare e ribadire che la costruzione di una “identità nazionale” improntata al razzismo, al netto delle tante azioni individuali di sostegno e aiuto ai cittadini ebrei, fu accettata dall’intero paese, da tutte le sue istituzioni culturali e di informazione. Un paese, il nostro, che mise in atto la persecuzione con burocratica precisione. Una vicenda, dunque, che ci interroga quotidianamente e che deve guidarci in una forte assunzione di responsabilità storica, vigilando con estrema attenzione sull’oggi. Il volume è così un tassello di grande importanza, difficile da abbandonare a fine lettura e nel quale s’incontrano numerosissimi nomi di persone, che hanno dato un grande contributo alla crescita culturale del nostro paese. Parecchi tra gli espulsi divennero poi partigiani, combattenti per la libertà. Altri subirono la deportazione: tra questi, pochissimi tornarono.
Dedicato alla Senatrice Liliana Segre, espulsa dalla Scuola Elementare Ruffini nell’anno scolastico 1938/39
di Paola Signorino