Carlo Greppi, Figlia mia. Vita di Franca Jarach, desaparecida, Laterza, Bari-Roma 2025
Non è per nulla facile trovare le parole, il tono, per recensire il nuovo lavoro di Carlo Greppi. Verrebbe da dire, semplicemente: leggetelo, leggiamolo. E poi incontriamoci: per parlare, guardarci negli occhi, riconoscerci, soffermandoci su ogni riga, ogni parola, perché ognuna di queste smuove riflessioni, pensieri. E dolore.
È un libro densissimo, stracolmo, che scava in profondità, fa male, obbliga spesso a interrompere la lettura perché le emozioni, e la commozione, devono essere accolte, capite, fatte proprie, prima di poter proseguire. Greppi sceglie di raccontare la storia di Franca Jarach, della sua famiglia, dell’Argentina della dittatura e del ritorno alla democrazia attraverso una serratissima ricerca, utilizzando un’enorme mole di materiale documentale, ma al contempo sceglie – e qui sta la forza del suo lavoro – di non celarsi. Anzi lo storico, l’uomo, si mette costantemente in discussione, indagando il senso della storia, del mestiere di storico, chiedendosi dove la ricerca si deve fermare necessariamente, perché le fonti sono “tracce” del passato che non potrà mai essere ricostruito per intero. E ancora dove, in quale momento, lo storico e l’uomo non possono che fondersi in quanto parte inscindibile della materia di cui si occupa, sapendo che questa particolare ricerca è carne viva e sanguinante. È la nostra idea di umanità e di storia su cui lo storico si interroga, e di cosa intendiamo farne: della storia, del passato, della memoria, dell’enorme dolore che spesso questi ci consegnano. Dobbiamo scegliere se dimenticarlo o se stare dalla parte di chi vuole e pretende, più di ogni altra cosa, verità e giustizia. Greppi interroga la storia e la posizione dello storico, dunque, in un libro che è al contempo intimo e personale ma assolutamente politico e pubblico.
La vicenda di Franca Jarach, desaparecida, potrebbe essere riassunta in poche righe: una giovane donna italo-argentina che, una sera di fine giugno del 1976, tre mesi dopo il colpo di Stato, viene “prelevata” dai militari e da quel momento di lei non si sa più nulla. Una desaparecida, come altre e altri 30.000 argentine/i, nei sette anni della dittatura. Ma la corta vida di Franca Jarach che Greppi sceglie di raccontarci è molto di più: è la storia di Franca, di Vera sua madre (oggi novantasettenne), di Giorgio il papà. Una storia che attraversa il Novecento a partire dal 1939 quando, all’insaputa l’una dell’altro, Vera Vigevani e Giorgio Jarach, all’epoca poco più che bambini, trovano riparo in Argentina dopo l’entrata in vigore, in Italia, delle leggi razziali. Diventati adulti s’incontrano, si sposano e nel 1957 hanno una figlia, Franca. Un “trio” felice, una famiglia della media borghesia, colta, emancipata, con una ricca cerchia di amicizie e parentele, e che ha mantenuto forti legami famigliari con l’Italia. Sia Vera che Giorgio, e progressivamente anche Franca, guardano lucidamente e con crescente preoccupazione alla situazione argentina, che a partire dall’inizio degli anni Settanta si va via via radicalizzando. Ma è tutta l’America Latina a vivere, tra gli anni Sessanta e Settanta, un periodo di profonde trasformazioni: basti citare gli effetti della Rivoluzione cubana, i fenomeni di guerriglia che attraversano il continente, l’esperienza del Cile democratico di Allende. Si generano enormi speranze ed altrettanto enormi tensioni. In Argentina, tra il ritorno di Peron nel 1973, dopo diciassette anni di esilio, e il 1976, la situazione diventa sempre più fosca finché, il 24 marzo 1976, la giunta militare prende il potere con un colpo di Stato. Il paese scivola in una delle dittature più violente e bestiali del Novecento, i cui responsabili (quasi tutti di origine italiana, come testimoniano i loro cognomi: Videla, Viola, Galtieri, Bignone, Massera), oltre ad essere presenti nelle liste della loggia massonica P2, fanno parte di quella “internazionale anticomunista” che si concretizza nel famigerato Piano Condor. L’Argentina sprofonda nelle tenebre e nella violenza più brutale di un regime che programmaticamente elimina un’intera generazione di giovani: «chucar, tabicar, mandar par arriba (sequestrare, rinchiudere, far volar via), dicevano gli assassini» (p. 68), con un macabro riferimento ai “voli della morte” di cui è vittima anche Franca. Migliaia di persone sono brutalizzate, torturate, uccise, fatte scomparire. Come verrà stabilito dalle sentenze dei tribunali, la dittatura mette in atto un «piano sistematico, un genocidio politico: l’annientamento, o tentativo di annientamento, di un’intera generazione, per ragioni esclusivamente politiche» (p. 297). Anche i sopravvissuti, i vivi per caso sfuggiti alla cattura per fortuite coincidenze, saranno comunque vittime, segnati per sempre, costretti a riparare all’estero: da terra d’esilio, l’Argentina diventa terra di esiliati.
La famiglia di Vera, Giorgio e Franca si ritrova dunque al centro della storia, di questa storia, che è anche la storia di una presa di coscienza politica e di una progressiva radicalizzazione della militanza di una parte consistente della società argentina (studenti, intellettuali, operai), di fronte all’evidente svolta autoritaria e repressiva dei governi. Radicalità che si organizza anche nella lotta armata, di cui i Montoneros sono l’espressione più nota. Tuttavia, è fondamentale sottolinearlo, per la maggior parte dei militanti è una partecipazione piena di speranza, di fiducia, per molti aspetti gioiosa: è l’amore per la vita che spinge verso l’impegno. Anche per Franca c’è un momento di svolta, di crescita, a partire dal quale ogni aspetto della vita assume un senso politico. Sicuramente il colpo di Stato dell’11 settembre 1973 in Cile è un punto di non ritorno: non si tratta più, ormai, di un sentire genericamente progressista, ma dell’urgenza di combattere per gli ideali di giustizia, libertà, democrazia di fronte ad un potere sempre più violento. Questo punto, sottolinea Greppi, è di estrema importanza perché non tenere in conto la scelta politica di Franca e delle migliaia di oppositori, significherebbe “innocentizzare” le vittime spossessandole della carica dirompente della loro vita in quanto combattenti. Assegnare loro un’aura d’innocenza comporterebbe legittimare quel “paradigma vittimario” che sembra ormai avvolgere ogni esperienza, un paradigma che deresponsabilizza, accomuna vittime e carnefici occultando i motivi profondi per cui alcuni sono vittime e altri sono carnefici. Un paradigma, ancora, che prelude alla grande mistificazione della riconciliazione nazionale (a qualunque latitudine) che, a sua volta, sottende unicamente la cancellazione dei crimini fascisti. Come affermano con grandissima lucidità le Madri de la Plaza de Mayo, e Vera Jarach in primis: no vamos a perdonar, no vamos a reconciliarnos. Il punto di arrivo può e deve essere unicamente verità e giustizia. Vera non è una testimone: è una combattente. Assume su di sé la scelta politica della figlia, quella scelta per cui è stata uccisa, e la rivendica, la fa propria, diventando così una combattente partigiana: «abbiamo imparato che i nostri figli avevano ragione», dice Vera nel luglio del 2001 (p. 309).
Ancora, questa è anche la storia di un riscatto tenacemente perseguito e di una lunghissima battaglia. Se nella vita di ognuno dei desaparecidos, delle madri, dei padri, degli amici c’è un prima del 1976 e un dopo, anche nella battaglia per la verità e la giustizia c’è un prima e un dopo che coincidono con gli anni della dittatura e, in seguito, con la transizione alla democrazia. La prima battaglia è l’impegno estenuante per conoscere la sorte della propria figlia: è viva? è detenuta? dove la tengono? Solo dopo anni di richieste, domande, petizioni, si è obbligati a riconoscere (non accettare) che la propria figlia non c’è più. Ciò comporta l’altrettanto sconvolgente consapevolezza che nei lunghi anni in cui la si è pensata viva (prigioniera, debole, sola, ma viva), era invece già morta. Il potere militare, con sadica crudeltà, ha mentito dicendo che Franca (e migliaia di altri) era detenuta in un luogo sconosciuto ma viva, mentre era stata uccisa poche settimane dopo la cattura. Se la speranza di vederli tornare ha sostenuto migliaia di famigliari, ad un certo punto la lucidità costringe ad ammettere che si è compiuta una ecatombe: intere famiglie sono state sterminate. Tra gli scomparsi e uccisi, Hector Oesterheld, autore del famosissimo fumetto di fantascienza L’Eternauta, “prelevato” nel 1977. Due sue figlie (di cui una incinta) erano state catturate l’anno precedente; una terza, incinta anch’essa, scompare nel novembre dello stesso 1977, dopo che il marito è già stato ucciso. E, infine, il mese successivo viene assassinata insieme al marito l’ultima figlia sopravvissuta (pp. 242-243). O, ancora, la famiglia di Reneè Slotopsky, madre di Luis, Marcelo e Lila Epelbaum (tutti e tre scomparsi), che moltissimi anni dopo dirà: «non ho mai pianto per i miei figli. Ho paura che se mi metto, non potrò più essere in grado di smettere» (p. 190).
Ma la violenza del terrorismo di regime crea una reazione ostinata, profonda, fatta di legami e solidarietà tra donne. Grazie a loro è possibile la costruzione tenace, meticolosa di una comunità che si riconosce e che trae alimento da se stessa, generando forza, sostegno, conforto. Di nuovo, una comunità che agisce politicamente, rivendicando il senso politico della vita e della scomparsa dei propri figli. Come sottolinea Greppi, è «una storia di ostinazione e di comunità» che ha come obiettivo la ricerca di verità e giustizia (p. 188). È qui che lo storico intuisce come il suo mestiere (cercare tracce del passato) combaci con la storia della ricerca di verità da parte di quella specifica comunità. Il racconto di questa doppia ricerca dunque si deve adattare a una dimensione frammentaria, piena di false piste, intuizioni, equivoci e momenti di enorme disperazione, che si alternano ad altri di sempre più fievole, ma tenace speranza.
Tra il 1983 e il 1984, con la caduta della dittatura, si apre finalmente una nuova stagione (un nuovo “dopo”), un percorso comunque difficile, irto di ostacoli poiché anche il ritorno alla democrazia è vissuto in una condizione di costante pericolo. Tuttavia, grazie alla fortissima presenza politica delle madri della Plaza de Mayo, il muro di silenzio e omertà comincia a sgretolarsi. Il presidente Alfonsin insedia la Comision Nacional sobre la Desparicion de Personas (CONADEP), iniziano i processi contro gli assassini, innanzitutto all’estero: in Italia, Francia, Spagna. Poi, grazie all’approvazione di nuove leggi e alle sentenze dei tribunali europei che fissano i cardini normativi su cui si fondano le condanne, anche in Argentina inizia la lunga stagione dei processi: «collezionano ergastoli, finalmente, i repressori» (p. 302). Parallelamente, la grande comunità solidale di donne, uomini, popolo, che si è riunita intorno ai desaparecidos e ai sopravvissuti, avvia un fondamentale processo di recupero e riappropriazione della memoria, anche occupando concretamente i luoghi della violenza. A Buenos Aires gli edifici dell’ESMA, la famigerata Escuela de Mecanica de la Armada, simbolo della guerra suicia, dove si torturava e uccideva, vengono requisiti e destinati a luoghi di memoria attiva con archivi, spazi culturali ed espositivi, musei. Dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, è un luogo sacro alla vita, poiché la sua stessa trasformazione ed esistenza dimostra che la battaglia per la verità e la giustizia può essere vinta, almeno in parte.
Ed è qui, in fondo alla lunghissima storia di Franca e Vera, che lo storico ci offre non solo le parole di Vera, ma anche la sua conclusione, che è – io credo – un invito a ognuno di noi: «Nonostante le “lacrime esterne e interne”, ha proseguito prima di onorarmi della sua fratellanza facendo piangere entrambi, sarà però “una spinta a capire che bisogna sempre dire la verità” e “stare all’erta, quando le cose si ripetono”. Eccolo, forse il messaggio della storia. Il messaggio che ci ha lasciato Franca Jarach, ragazza» (p. 308).
La vita dipende dalla disobbedienza di pochi giusti a leggi ingiuste
Anna Bises Vitale, migliore amica di Vera Vigevani Jarach
di Paola Signorino