Davide Conti, Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana 1946-1976, Einaudi, Torino, 2023
L’Italia e gli italiani hanno un enorme problema con la destra. A più di cento anni dalla nascita del regime, il paese che ha “inventato” il fascismo non riesce ancora ad avere una salda formazione politica che si possa ascrivere ad una destra ”normale”: conservatrice, liberale, portatrice degli interessi delle élites del paese, tradizionale e tradizionalista, ma ancorata ad una matrice legalitaria e non eversiva dello Stato di diritto. Lo spazio di agibilità politica dell’area conservatrice è invece monopolizzato dagli eredi del fascismo e da apprendisti stregoni che utilizzano per mere finalità di consenso parole d’ordine e richiami che appartengono ai peggiori momenti della storia italiana. Il grande merito di una nuova generazione di storici è dunque quello di affrontare con meticolosità e capacità interpretativa il tema fondamentale di quale sia il ruolo della destra neofascista nella storia della Repubblica: di come cioè una forza intrinsecamente antidemocratica, che postula “l’assalto alla democrazia” come sua ragion d’essere, possa esistere e relazionarsi dentro e con il sistema democratico nato dalla sconfitta del fascismo. Ancora: come un partito che avrebbe, semmai, dovuto avere un ruolo marginale e limitato, raccogliendo intorno a sé gruppi di nostalgici destinati ad assottigliarsi sempre di più col passare del tempo, sia invece riuscito a condizionare pesantemente alcuni snodi cruciali della storia della Repubblica. Tema su cui oggi è più che mai necessario interrogarsi, vista la “scalata al potere” degli eredi politici del Movimento Sociale Italiano.
Con il suo ultimo libro, Davide Conti (già autore de L’anima nera della Repubblica. Storia del MSI, pubblicato nel 2013 da Laterza) prosegue dunque nel lavoro di ricerca e approfondimento sui temi della destra italiana neo e post fascista. Quella galassia formata da nostalgici, reduci, gerarchi del regime, ex saloini “sconfitti della storia”, giovani affascinati dal pensiero filonazista di Julius Evola che si agglutinò intorno al Movimento Sociale Italiano sin dalla sua nascita, alla fine del 1946. In questa nuova ricerca il centro dell’analisi è il ruolo dei due dirigenti del partito, Giorgio Almirante e Pino Rauti, non tanto e non solo per delinearne le rispettive biografie, quanto per portare in primo piano la collocazione costantemente ambigua del Msi e della galassia “nera” che sin dal 1946 gli gravitavano intorno. Quelli che Conti definisce «i due dioscuri del neofascismo» rappresentano, anche dal punto di vista della dialettica interna al partito e ai movimenti contigui, il senso della presenza dei “fascisti in democrazia”. Infatti la «loro traiettoria biografico-politica ha finito per coincidere con l’azione di vertice del Msi per l’intera esistenza del partito, alternando momenti di stretta convergenza con fasi di aperto conflitto» (p. XIII).
Sin dalla nascita del Movimento Sociale Italiano, Almirante – un passato nelle Brigate nere e prima ancora redattore di testate fasciste come “La Difesa della Razza”, segretario del partito dalla fondazione al 1950 e poi di nuovo dal 1969 al 1987 – punta sulla carta dell’anticomunismo oltranzista per garantire la sopravvivenza di una formazione in evidente conflitto con le norme costituzionali che vietano la riorganizzazione del partito fascista. Il Msi non nasconde affatto il suo essere erede diretto della vicenda storico-politica della Repubblica di Salò ma, nel contesto della Guerra fredda, il segretario si propone come possibile alleato di ogni politica di contenimento e lotta contro il comunismo. Il consenso elettorale non è tale da permettere ai neofascisti di monopolizzare l’area dell’opinione pubblica conservatrice, che si rivolge in larga misura alle componenti più moderate della Democrazia Cristiana. Tuttavia, una seppur ridotta rappresentanza parlamentare può sempre tornare utile come “stampella” per governi di coalizione che potrebbero, in determinate circostanze, diventare grimaldelli per svuotare e trasformare in profondità le istituzioni democratiche della Repubblica, nata dall’antifascismo.
Pino Rauti, evoliano e filonazista, partecipa alla costruzione del partito ma ne esce dopo l’ascesa del gruppo dirigente “moderato” incarnato da Augusto De Marsanich e Arturo Michelini, fondando nel 1956 il gruppo di Ordine Nuovo. Rientra nel Msi nel 1969 grazie alla riconferma alla segreteria di Almirante, ideatore della politica del “doppiopetto” che caratterizza gli anni Settanta, doppiopetto a cui si affianca, immancabilmente, il manganello. Sono gli anni in cui il segretario lancia l’idea di una “piazza di destra” da contrapporre, anche violentemente, alle piazze del movimento studentesco e operaio. Ancora, sono gli anni in cui i gruppi eversivi come ON possono contare sulla cosiddetta “politica dell’ombrello” e cioè la tutela politica e giuridica garantita dal MSI agli esponenti neofascisti responsabili di azioni violente e di crimini gravissimi: uno, fra tutti, la strage di Piazza Fontana per la quale sentenze definitive riconoscono la colpevolezza proprio di Ordine Nuovo. Non è un caso: Rauti, la cui esperienza racchiude per intero «il danno e la manipolazione che il fascismo ha lasciato come sua ultima tragica eredità nel Paese e sulle generazioni che ha potuto arbitrariamente plasmare dalla nascita» (pp. 8-9), milita tra il 1943 e il 1945 nella Guardia nazionale repubblicana. Si trova ad operare nella zona di Adria, un contesto «caratterizzato dal susseguirsi di rappresaglie, fucilazioni, rastrellamenti cui prende parte direttamente» (p. 8). Accanto all’esperienza diretta, la sua formazione culturale (profondamente razzista e anti egualitaria) lo porta a postulare l’assalto alla democrazia, non riconoscendone nessuno degli istituti, promuovendo un’azione politica che prevede esplicitamente la creazione del caos (violenze, assalti, stragi) quale precondizione indispensabile per provocare colpi di Stato ad opera di ambienti militari alleati con gruppi eversivi. Il punto di convergenze costante tra le posizioni dei due dirigenti è il disconoscimento assoluto della Repubblica e della Costituzione antifascista.
Tra il 1946 e il 1976 Almirante e Rauti incarnano dunque le due anime del neofascismo apparentemente conflittuali ma, come dimostra l’analisi puntuale dei rapporti tra i dirigenti e il rispettivo seguito di militanti, spesso complementari. Si creano, così, zone di sovrapposizione nelle quali prosperano gruppi squadristi ed eversivi. In quest’area ambigua, brodo di coltura del neofascismo più violento, nascono rapporti e legami, complicità e convergenze d’interessi tra formazioni squadriste e terroriste contigue al MSI e settori altrettanto ambigui ed eversivi degli apparati di sicurezza dello Stato, il cui ruolo è fondamentale per l’azione di depistaggio finalizzata a incolpare la sinistra di ogni strage e violenza. Né mancano contatti con la criminalità e neppure si deve dimenticare l’appoggio della cosiddetta “Internazionale nera” e di settori rilevanti delle amministrazioni statunitensi, sempre in funzione anticomunista.
Tra il 1969 e il 1974 si rinsalda dunque l’alleanza tra Almirante e Rauti e, nel contempo, esplode la violenza dei gruppi della destra eversiva. Sono gli anni delle stragi: Piazza Fontana, Italicus, Gioia Tauro, Brescia. Non solo: l’impressionante elenco delle violenze squadriste, spedizioni, aggressioni, assalti contro sedi di partiti, sindacati, scuole, università che si susseguono anno dopo anno dimostra “l’efficacia” delle scelte politiche di Almirante e Rauti. In questi anni, secondo i dati ufficiali, sono ascrivibili ai neofascisti tra il 90 e il 70 per cento delle violenze (p. 163), smentendo la narrazione vittimistica e persecutoria che ancora oggi viene riproposta dall’estrema destra. Anche il consenso elettorale del MSI è in crescita e raggiunge il massimo del suo potenziale, facendo leva sulla cosiddetta “maggioranza silenziosa”. L’obiettivo su cui convergono i due dirigenti neofascisti è la svolta autoritaria, la richiesta di ordine da parte di un’opinione pubblica spaventata, il colpo di Stato con continui richiami alla dittatura dei “colonnelli” in Grecia o, in assenza di un golpe, la trasformazione in senso presidenziale della Repubblica, cancellando dalla Costituzione ogni richiamo all’antifascismo. Tuttavia, in questa fase, lo Stato, le istituzioni e buona parte delle forze politiche elaborano una risposta di condanna dura e, almeno in parte, efficace. Sin dal 1962 Aldo Moro ammonisce la Democrazia Cristiana a vigilare con grande fermezza contro il rischio d’involuzioni del sistema democratico (p. XI). Tra il 1971 e il 1972 il ministro degli Interni Mariano Rumor interviene più volte con chiarezza, sottolineando che «nessun margine di movimento deve essere lasciato alla rinascita della tentazione fascista ed è precisa volontà politica del governo tener chiusa la strada ad alternative autoritarie […] il fenomeno fascista va colpito in profondità, noi abbiamo questa forza e questa volontà» (p. 188).
Parole molto dure e analisi puntuali vengono anche dal Partito Repubblicano e dal suo segretario Ugo La Malfa, come pure dalle forze di sinistra, bersaglio principale degli squadristi. Almirante, nel tentativo di edulcorare la pessima immagine del partito, reagisce denunciando un presunto complotto nei confronti dei neofascisti descrivendo se stesso, il partito e i militanti come vittime di una vera e propria persecuzione. Di fatto, a metà degli anni Settanta (trentennale del partito), si delinea il fallimento del programma neofascista di Almirante e Rauti, almeno nei suoi termini più espliciti: ottenere la caduta della Repubblica attraverso una trasformazione radicale delle istituzioni o attraverso un colpo di Stato. Dal 1974, dopo che Ordine Nuovo viene sciolto dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani per ricostituzione del partito fascista, Almirante tenta di ripulire il partito e di prendere le distanze dagli eversori, stante anche un consistente calo del consenso elettorale. Anche il contesto nazionale e internazionale è radicalmente mutato e lo stesso collante dell’anticomunismo ha perso parte della sua attrattiva.
Se l’obiettivo principale di Almirante e Rauti fallisce, è tuttavia innegabile che l’intera storia del paese sia pesantemente segnata dai colpi inferti alla società in trasformazione dalla destra neofascista. A distanza di quattro decenni, è altrettanto innegabile che il lascito politico dei due dirigenti si riveli con chiarezza nella persistenza e nel radicamento tra gli eredi del MSI di parole d’ordine coerenti con la loro traiettoria politica. Presidenzialismo, inutilità dei partiti, sostanziale disprezzo per il parlamentarismo, una vera e propria ossessione nei confronti della Costituzione, della quale si vogliono alterare intere parti “depurandola” del suo DNA antifascista: nulla di nuovo, si potrebbe chiosare. Così com’è parte sostanziale dell’eredità neofascista la rappresentazione di sé come vittime, anche nel momento in cui si è alla guida di un governo: vittime della storia, di presunti complotti, perennemente in cerca di rivalse che devono necessariamente riscrivere il passato e la storia per cancellare le gravissime responsabilità dell’estrema destra nei confronti del Paese. L’urgenza, dunque, dello storico di mettere sotto la lente di ingrandimento il ruolo di Almirante e Rauti è motivata dal riconoscere che «il loro lascito esprime ancora oggi (più di qualsiasi altro dirigente missino) le profonde radici culturali e identitarie nonché il carattere a cui si ispira il postfascismo contemporaneo» (p. XIII).
di Paola Signorino