Andrea Martini, Fascismo immaginario. Riscrivere il passato a destra, Laterza, Bari-Roma 2024

Negli ultimi anni, è forte la percezione tra gli storici e, in generale, nel pubblico più attento che si sia avviata una riscrittura della storia, una sorta di contro-narrazione ad opera dei cosiddetti “vinti”, degli “esuli in patria” che, all’indomani della sconfitta del nazifascismo, non avrebbero avuto la possibilità di far sentire la propria voce. Addirittura censurati da una presunta egemonia culturale della sinistra, secondo la vulgata vittimistica sostenuta dalla destra italiana, i protagonisti del fascismo pre e post bellico sarebbero stati emarginati, obbligati al silenzio, esclusi dalla vita politica e culturale del paese. Si tratta di uno dei capitoli di quella “revisione” della storia repubblicana a cui la destra governativa sta ampiamente mettendo mano, inquinando il dibattito pubblico con affermazioni spesso tanto temerarie quanto false. Il bel volume di Andrea Martini affronta la questione della presenza dei fascisti nella storia repubblicana dal punto di vista culturale e editoriale, aggiungendo un importante tassello all’analisi della vicenda italiana post bellica, dimostrando come il mito dell’esclusione sia, alla prova dei fatti e della puntuale analisi storica, un costrutto palesemente falso. La transizione dal regime alla Repubblica è stato un lungo e complesso cammino, spesso contraddittorio, in cui fascisti, a-fascisti e anti-antifascisti (categoria che assume via via rilievo e importanza) hanno elaborato un racconto “altro” rispetto a quello resistenziale. Un racconto in cui Mussolini, il regime, i suoi uomini sono descritti con accenti di bonomia se non di grandezza: come non ricordare, ad esempio, il volume di Indro Montanelli pubblicato nel 1947 e intitolato Il buonuomo Mussolini.

La domanda alla base del lavoro di Martini non è perché, sin dal primissimo dopoguerra, vi sia stata una proliferazione di memoriali, diari, ricostruzioni di specifici avvenimenti. Molti fascisti scrissero mossi dal bisogno di approntare memorie difensive in vista dei processi, molti sentirono la necessità di rivisitare la propria esperienza, altri cercarono di prendere almeno in parte le distanze dagli episodi più efferati, spesso attribuendone la responsabilità agli alleati tedeschi. Il punto sollevato da Martini è, piuttosto, come sia stata possibile e tollerata una così ampia produzione editoriale della letteratura e della memorialistica filo fascista nell’Italia post bellica. E come la convergenza d’intenti tra fascisti e anti-antifascisti permise la costruzione e la diffusione di opere di riabilitazione del Ventennio, volte a screditare in ogni modo l’esperienza della Resistenza e la giovane democrazia.

Martini, quindi, prende in esame i canali attraverso cui la pubblicistica raggiunse il pubblico, analizzando le scelte editoriali sia delle piccole case editrici sia la politica delle grandi: Garzanti, Longanesi, Rizzoli, Mondadori. Le prime due assunsero comportamenti apparentemente contraddittori, da un lato ampliando via via il proprio catalogo e dall’altro pubblicando testi provocatori o “scabrosi” (Spengler, Jünger, Dumini, nel caso di Longanesi), non rinnegando la politica di “amicizia” nei confronti degli uomini del regime (come nella pubblicazione del memoriale di Graziani, Ho difeso la Patria, nel caso di Garzanti). Le altre due grandi case editrici, invece, agirono seguendo coerentemente le logiche del mercato: se il pubblico dimostrava interesse per la memorialistica e la saggistica nostalgica, ebbene Mondadori e Rizzoli ne avrebbero assecondato i gusti a vantaggio della crescita economica delle rispettive aziende. Gli anni Cinquanta, perciò, si saturarono di raccolte di documenti, inediti veri o presunti, carteggi, biografie: pubblicazioni senza alcun apparato critico, presentate come cronache veritiere scritte al riparo delle grandi passioni ormai spente, riguardanti vicende concluse, e presentate dunque come cronache attendibili offerte al pubblico affinché potesse conoscere la verità dei fatti.

Ma il canale più importante, per la diffusione e l’impatto sull’opinione pubblica, fu senz’altro quello dei rotocalchi. Accanto a riviste come “Il Mondo”, “L’Europeo”, l’“Espresso”, che si rivolgevano ad un pubblico più colto, furono i settimanali come “Oggi” (Rizzoli), “Gente” (Rusconi), “Epoca” (Mondadori), “Tempo” (Mondadori) a veicolare – grazie a tirature di centinaia di migliaia di copie – una rilettura del fascismo ricca di rivisitazioni dell’operato di Mussolini, ostaggio dei tedeschi, da loro umiliato e tuttavia ostinatamente proteso alla difesa del popolo italiano. Un Duce dal volto umano che, nonostante alcuni errori, aveva reso grande la patria, di fatto costretto all’alleanza con i feroci nazisti dalla sorda ostilità franco-inglese. Sui rotocalchi tornarono a scrivere molti giornalisti compromessi con il fascismo, epurati ed espulsi dall’Ordine, poi velocemente riammessi. Tra i più efficaci produttori di “inchieste” sul fascismo vi fu Giorgio Pisanò, che scrisse sia su “Oggi” sia su “Gente”, e che si dedicò tra l’altro ad «affinare il mito dell’epurazione selvaggia e a divulgarlo al grande pubblico» (p. 145) grazie anche all’abile uso di fotografie decontestualizzate e senza l’indicazione alcuna di fonti credibili. Articoli dedicati alla ex casa reale e alle vicende familiari di Mussolini, la rievocazione del ruolo di Claretta Petacci e il ricorso al pettegolezzo come strumento di divulgazione resero i settimanali lo strumento principale per costruire una narrazione e influenzare l’opinione delle classi popolari.

L’ultimo capitolo del volume è dedicato alla vicenda di Duilio Susmel: giornalista, pubblicista, fascista e repubblichino, pubblicò innumerevoli volumi dedicati al fascismo e a Mussolini (tra cui una biografia del duce, il carteggio tra Mussolini e il fratello Arnaldo, la biografia di Galeazzo Ciano). Dal 1951 si dedicò alla pubblicazione dell’Opera Omnia mussoliniana in 36 volumi: uscita senza apparati critici, prefazioni o contestualizzazioni, l’apparente asetticità del lavoro di Sumsel gli garantì una notevole credibilità e rispettabilità, nonché una buona diffusione. Ancora oggi è uno strumento indispensabile, ancorché fortemente problematico, per chi si occupi della storia del fascismo e del suo leader. Proprio la vicenda di Susmel permette all’autore di sottolineare come la “riscrittura del passato a destra” abbia portato a elaborare l’immagine di un fascismo immaginario che, grazie alla «affermazione della produzione culturale fascista del dopoguerra» e alle assonanze con quanto prodotto dal fronte anti-antifascista, divenne «dicibile, degna di cittadinanza nella temperie italiana d’allora, impregnata di anticomunismo». Né furono di poco conto le affinità, le complicità tra fascisti ed ex fascisti e le scelte operate delle case editrici, il cui ruolo nella costruzione dell’opinione pubblica fu fondamentale. Tutto ciò ebbe ed ha tuttora un impatto sulla memoria pubblica del Paese, agendo come una «sorta di basso continuo che accompagna, svilisce e trascina nel ludibrio la “Repubblica nata dalla Resistenza”» (p. 213). La riscrittura del passato fascista, dunque, è un tema fondamentale che oggi si ripropone prepotentemente: un tema che gli storici hanno il dovere di non lasciare in mano all’estrema destra. Ne va della sopravvivenza della democrazia.

di Paola Signorino

 

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